Meiyo no chouken – a yakuza story
di Antonio Amodio

a Claudia

La purezza perfetta è possibile, se rendi la tua vita il verso duna poesia scritto con uno schizzo di sangue.

Yukio Mishima

Tomoe scoccò uno sguardo al retrovisore.
Cullata dal ringhio contralto della Jaguar di Kenzo, scrutava l’autostrada sfuggirle via un sorpasso alla volta, mentre i chiarori del Tarumi svanivano come sogni d’artificio.
La baia, ora melassa di onde, ora spruzzi, risacca, emergeva dall’oscurità fra un lampo e l’altro. La ragazza riportò gli occhi sull’orizzonte. Una saetta scaricò a mare mozzandole il fiato d’improvviso, poi esplose il tuono. Respira, Tomoe-chan, ruggiva il cielo da lassù. La furia del diluvio imminente, coi pugni di monsone già decisi a castigare il Kansai, riecheggiò nell’abitacolo. Quella tempesta li avrebbe afferrati presto, e come ogni kami o yōkai dell’Universo sembrava volerli morti entro l’alba.
Kenzo accelerò, gettando la Mevius dal finestrino.
Il volante gli vibrava sotto le dita.
«Pensionati del cazzo» grugnì.
La sei cilindri sfiorò i centodieci e azzardò un sorpasso, lasciandosi dietro uno di quei torpedoni che scarrozzano i vecchi a Sumoto per metterli palle a mollo nei fanghi.
Lungo il telaio della coupé frusciava un film di riflessi e neon, ma la memoria di Tomoe? Una pellicola diversa. Un horror dove regnavano i suoni della cinematica, gli strappi e schiocchi d’un corpo angelico che piove a tranci sopra le ceneri del suo spirito.
Kenzo infilò la sesta e «Oh» abbozzò, smagliando quel pietoso silenzio, «Sei viva?».
Tomoe sospirò come un’orfana, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
«Ce l’avrà fatta?» gli domandò.
«Be’, c’eri anche tu. L’hai visto. È già un miracolo se respirava.»
«E i ragazzi? Novità dall’ospedale?»
«Tomoe, ma dove cazzo vivi? Sulla luna? Non puoi portarcela un’idol al pronto soccorso. Shogo e gli altri li ho mandati dal dottor Tanaka. La sistemerà lui.»
«È bravo?»
«Era il più vicino.»
«Ma è capace, Kenzo?»
«Senti, lavora all’Oji. Non lo so.»
«All’Oji?», la ragazza si voltò di scatto. Attizzati da un lampo, gli occhi liquidi le brillarono a fil di ciglia come ossidiana. «Cioè, l’hai mollata da un veterinario?»
«Era l’unica soluzione.»
«No, invece. Potevi chiedere consiglio a Daiki.»
«Nei tuoi sogni. È lo shatei gashira… E sì, forse oggi m’avrebbe solo umiliato di fronte a tutti perché non ho ucciso quella merda giù al club, ma secondo te» ipotizzò lui «dopo un casino così, credi gli basterà tirarmi le orecchie? No, dico, t’è sparito il cervello? Daiki smatterebbe. A tremila. E l’ultima cosa che ci serve stanotte è una tomba d’acqua.»
«Perciò Daiki ti spaventa, ma vuoi addirittura scomodare il Presidente? È una follia.»
«No. So quello che faccio, donna.»
La Jaguar superò le poste di Kamaguchi, un fulmine fra i fulmini, e Tomoe riprese.
«Tu conosci le regole.Tu… T-tu dovevi… Tu dovevi ammazzarlo lì, Kenzo, lì! Mentre la pestava, mentre la-» lei s’agitò di colpo «e se ti punisse lui? C-ci hai pensato?»
«Oh! Sentimi un po’, stronza! Che vuoi davvero giocare alla capobanda? Dovevo, dovevo, dovevo… Cioè io torno dal cesso e tutt’a un tratto dai tu gli ordini? Fosse una roba dei Two Beats riderei» le latrò, piede sul gas e rabbia che montava, «ma ne sai un cazzo della famiglia, del Presidente o delle regole, perché il tuo compito, mh? Il tuo compito è startene al bar, a menare quel culo da trecentomila yen o farci un drink se ti chiamo. E te-lo-giuro, bellezza» scandì poi, «sparami di nuovo un pezzo così e domani ti risveglierai nel buco in cui battevi prima. Nuda. Solamente con un guinzaglio al collo e un bidone di vaselina. Hai afferrato, adesso? Impicciati dei cazzi tuoi. I cazzi. Tuoi. E basta. Ti entra male in quella testaccia da puttana o parlo mandarino?»
Tomoe osservò il pugno di lui avvinghiarsi allo sterzo e «Ok» mormorò a mezza bocca, ben sapendo che di notte i lividi guariscono sempre, sempre, peggio del solito.
Kenzo allora decelerò, e nel goffo tentativo di rabbonirla «Andrà bene» glissò, sfiorandole appena la coscia, «ma mi servi lucida, splendore mio, quindi perché non accendi lo stereo e ti rilassi un po’, eh? Hai carta bianca. Anzi» esitò poi, l’indice sul portaoggetti, «lì c’è un regalo che t’ho preso ieri. Vediamo se ti piace.»
Tomoe aprì lo scomparto.
Dentro c’erano tre bustine di speed, una Tipo Novantadue, le Parabellum prescritte dalla mutua e una cassetta da cui ammiccava il viso angelico di Mariya Takeuchi.
«Bello» sorrise, infilando Request nel mangianastri. «Non ce l’avevo. Grazie.»
Kenzo schiacciò PLAY.
«Dài, chiudi gli occhi.»
Con le palme del lungomare che sfilavano inghiottite dalla sua ombra sinuosa, la donna ubbidì. Il citypop iniziò a sciogliersi nell’aria come morfina, e lei a svanire in sé.
Kokoro no naka itsumo, i campanellini, i synth, tutto risuonava di miele, più lieve d’una nevicata di cristallo, setsuna sa ni yure teru, ma fu allora che li prese il diluvio.
Oh, no, tsumi na futari ne, un lampo, but no, hana rerare nai, poi la sferza del fulmine a dieci metri da loro, oh, yes, kono mama aisare tai, la Jag tremò fino all’ultima vite.
Kenzo inchiodò. Tomoe batté la testa sul cruscotto, cadendo nuovamente nelle grinfie della realtà, oh, no, loving you is not right, quella in cui sentiva una poltiglia di rovi sfregiarle lo stomaco, but, no, don’t take me home tonight, fu peggio che schiantarsi sulle rocce dopo un volo senza paracadute, oh, yes, so baby won’t you hold me tight?, e mentre Kōbe rimpiccioliva lontana, i due s’avvicinavano a Sumoto, alla resa dei conti.
Kenzo tirò a fatica la Jaguar in carreggiata.
«Stai bene?»
Tomoe aprì gli occhi.
«Una favola» rispose sarcastica, già guardando lo slargo più avanti. «Anzi, accosta.»
«Che? Adesso?»
«Sì… Fermati. Là» insisté la ragazza, mani sulle labbra. «I-io, io d-devo…»
«Oh, merda, no! Non sui-»
Kenzo bloccò la macchina. Tomoe schizzò fuori carponi e nemmeno il tifone poté soffocare i conati di lei che rovesciava le budella sul pietrisco. Ai suoi piedi, il temporale a slavarlo, c’era un amalgama di vomito, yakisoba e Curaçao.
Una sferza d’aria sapida di limo le spettinò i capelli viola, poi arrivò un’altra scarica.
Qualche passo indietro, fra i violini di Kenka wo yamete e il fioco sibilo della Ventotto, stridevano i tergicristalli del coupé. Dopo un ultimo crampo, Tomoe s’alzò e arrancò, ritornando alla Jaguar. Sembrava una spogliarellista riemersa da una fogna per miracolo.
«Andiamocene.»
La donna chiuse la portiera.
«Andiamocene. Bangkok, Seoul, Hong Kong…» continuò – e gli occhi, assieme ai palmi grigi di fango, le brillavano. «Torniamo in città. Raccattiamo un po’ di soldi, due biglietti, e cambiamo musica. Che ne pensi, eh?»
«Che t’è andato di traverso il cervello. Usa una pistola se vuoi ammazzarti. È meglio.»
«Senti, dico davvero. Ho un brutto presentimento. Veramente brutto.»
«Oh, smettila di fare l’isterica! Solo i rōnin e i froci scappano, e Kenzo Maeda non va da nessuna parte. Perciò muta. Risolverò io. Io. E ora stop alle cazzate, ok?» grugnì lui, puntando al marsupio insanguinato sul tappetino. «Quello schifo comincia a puzzare.»
Superarono lo Shioya verso l’una, la città già liquida di piombo. Altri lampi, altri tuoni.
E se poco prima il temporale aveva dato solo l’impressione di volerli annegare nel loro sarcofago d’alluminio, adesso era ben più avido d’ingoiarsi qualunque cosa, ogni villa, strada o yatai gli capitasse a tiro. Tutto, pur di scrostarli via per sempre dal Pianeta Blu.
Di là dal parabrezza galleggiava un incubo. Fūjin, Suijin e Raijin, allucinati kami a un baccanale di psilocibina, spellavano il mondo a frustate. Dovunque pioggia e buio, mentre il respiro del tifone plasmava cieli e bitume in un limoso, mastodontico tracollo.
Quando la Jaguar svoltò sul viale a ginkgo per la tenuta del Gran Capo, i due trovarono i cancelli aperti. Oltre il fosco d’oro che sgocciolava pendulo dai filari a bordo strada, la nebbia lacrimò le balconate, i karahafu e una lingua di luci accese.
Lui sapeva, ragionò Tomoe in silenzio.
Alle fontane la brecciolina non aveva ancora smesso di scricchiolare che subito vennero circondati dal corpo di guardia dell’oyabun. Trentasei uomini. Sguardi maligni su entrambi. Tec-9 pronti a impiombarli. Zuppi nell’anima, i gorilla sopportavano il diluvio fermi di fronte a un albicocco mutilo, e così pareva che avrebbero atteso fino a voce contraria – anche se del Giappone fossero rimasti solo ruscelli, ossa e montagne.
Bip bip. Bip bip.
Il Motorola suonò e Kenzo lo sfilò di tasca.
Nel frattempo, il coupé oscillava sotto l’acquazzone, lasciando pigolare i tergicristalli.
«Chi è?» gli domandò Tomoe.
«Shogo» sospirò lui, mentre spegneva la macchina. «La ragazza è morta.»
«Caz-»
«Piglia il borsello e andiamo.»
Tomoe obbedì, ma due degli sgherri fecero capolino davanti ai finestrini.
«Venite con noi» ordinò quello accanto a Kenzo. «Kobayashi-sama vuole parlarvi.»
«E muti» abbaiò il secondo.
Li spintonarono verso l’engawa della tenuta come prigionieri di guerra, la ghiaia densa da sembrare catarro, finché sul patio non apparve una giovane domestica.
«Le scarpe, prego» s’inchinò lei, poi accompagnandoli tutti nella sala grande.
Dentro?
Altre pistole. Altri lacchè. Gocce sul tatami. E una quiete rorida d’incenso.
Sadao Kobayashi arrivò col sibilo d’una shōji, e non gli servì più di un’occhiata perché la manovalanza omaggiasse il suo rango; battendo di nuovo le palpebre, forzò i kobun a capo giù, intanto che la destra, venite, spronava Kenzo e Tomoe a farsi avanti.
Lei ondeggiò come nelle sue fantasie da orfana, fiamma di luce a pelo d’acqua, mentre le sembianze del kumicho, passo a passo, aderivano alle nebulose visioni ove albergava quel padre che non aveva mai avuto. O il nonno. Vecchi, pensò Tomoe, strana gente.
Sadao era il Principio, un’autorità capace di manipolare il mondo senza sforzi, ma ciononostante non pareva neanche lontano dai jiji tutti rughe sulla metro, immersi nei libri di Mishima e ancora saldi alle glorie d’un Giappone che, dopo le bombe, era scomparso più in fretta della gioventù dai loro capelli.
Kenzo però sapeva benissimo di non trovarsi davanti a un pensionato.
Allungando la mano a recuperare il borsello, vide che Kobayashi vestiva un haori con su stampigliati non i kamon del Clan Ōtsuka, ma quelli della sua famiglia. Era una faccenda privata, dunque, come un funerale o uno sposalizio – e a riprova di ciò, deglutì a fatica Kenzo, v’era la lisa uwa-obi che cingeva il kimono del suo patriarca.
E la katana sul fianco.
«Mio padre aveva una teoria tutta sua riguardo a giorni come questi» esordì Sadao a mani unite. «Se attorno a noi domina il caos non dovremmo mai affrettarci a risolvere una situazione troppo complessa. Perché quando è il mondo stesso a rivoltarsi da sé, mi diceva, il fallimento è dietro l’angolo.» Inarcando un sopracciglio, chiamò a sé il tirapiedi più vicino. «Ma stanotte qualcosa di voi dovrò pur farne.»
La guardia timbrò le nocche sul muso di Kenzo e lo spedì kappa-o.
Tomoe gridò.
Il lacché strillò di più.
«Inchinatevi al Presidente, pezzenti! Sul tatami, la testa, sul tatami
Kobayashi-sama lo fermò.
«Lei no.»
La ragazza restò in piedi a sguardo basso, appena gobba e con le ginocchia tremule.
«Voglio la verità, Maeda. La versione di Daiki non mi basta.»
«Kumicho, i-io, i-io…»
«I-io, i-io, io… Tu» il patriarca fulminò Tomoe. «Raccontami.»
«Oggi al Nurebanzai è venuto un cliente. Nel privé. Di là c’era una donna, da sola.»
«Che donna?»
«Fuiji Yui.»
«La idol
«Sì, signore. All’inizio tra la parrucca, gli occhiali e quei vestiti non pensavamo fosse lei, ma dopo che ci ha detto la verità le abbiamo dato subito un bel salottino.»
«Continua.»
«Nel frattempo l’altro s’era già calato sei o sette shōchū e la situazione è esplosa. Erano soli, lui sbronzo da far schifo. Ha preso ad alzare la voce, a molestarla, stronza di qua, puttana di là, ma il peggio è che l’aveva riconosciuta, così s’è accollato, voleva un autografo. Io ho chiamato Kenzo, ho chiamato gli altri, la Fuiji urlava, e quello all’improvviso le ha spaccato una bottiglia in testa, se l’è messa sotto e poi, e poi l’ha massacrata. Di calci. Sulla fronte. Quando siamo arrivati respirava per miracolo.»
Sadao volse un cenno a Kenzo.
«Perciò un verme del genere viene a casa mia, rovina una ragazza e tu? Tu te ne vai.»
«N-no, kumicho, no! L’ho sistemato! L’ho… l’ho sistemato.» Naso sul tatami e labbra sapide di ruggine, sventolò il marsupio. «E-ecco, guardi. G-guardi nella borsa.»
Uno sgherro agguantò il malloppo e lo consegnò al Presidente.
Lui ne sfilò via cinque dita.
Fetide.
Bluastre di sangue.
Mozze ad altezza nocche.
Il medio portava ancora una banda d’oro con su inciso uno stemma.
Alla vista del simbolo l’oyabun digrignò i denti.
«E il resto?»
«C-c-come?»
«Il resto, Maeda. Dov’è il resto del suo corpo?» chiese Kobayashi.
«P-perdono, kumicho. Io, io n-non… N-n-non lo sappiamo.»
«Quindi non l’hai ucciso.»
Kenzo provò a giustificarsi.
«L-le dita erano un avvertimento. E un tributo, signore. V-volevo farne un esempio.»
«Ah, un esempio» ripeté il boss. «Ma tu lo sai a chi appartiene il kamon sull’anello?»
«No, kumicho.»
«Al Clan Azuma» asserì Sadao, gettandoglielo ai piedi. «Appartiene al Clan Azuma.»
Kenzo tirò su col naso. Ormai aveva la fronte livida e la vescica in fiamme.
L’oyabun s’avvicinò.
«Prima quel pornografo a Kotokucho e oggi il Nurebanzai. Vedo che tassarli non è bastato, anzi li ha resi più arroganti. Kyioshi vuole farci la guerra da mesi» spiegò lui, mani dietro la schiena «ma se fino a ieri non s’è azzardato, adesso può. Perché gli hai dato un motivo. Ed era tutto ciò che aspettava» rivelò il boss. «Maeda, tu dovevi ammazzare il bastardo e sistemartela con Daiki, e invece qui davanti ho solo un mucchio di dita del cazzo puntate su di noi. Su tutti noi. Per colpa tua siamo bersagli.»
L’altro singhiozzò. La sua faccia grondava lacrime, vergogna e sangue.
Kobayashi lanciò uno sguardo a Tomoe.
«È uno spettacolo pietoso, non credi?» le disse. «Un uomo, che si umilia così.»
La ragazza rimase a testa bassa.
«Io ci ho provato, Kobayashi-sama
«Provato?»
«A farlo ragionare.» sottolineò la donna «Ma non-»
«Ma non t’ha ascoltata.»
Lei annuì.
«E che gli avevi suggerito, sentiamo.»
«Di ucciderlo, Presidente. Ucciderlo lì. E di avvertire lo shatei gashira
«Capisco» mormorò Sadao, che nel frattempo sfiorava col pollice il paramano della sua katana. «Ed è la verità, Maeda?»
Kenzo cennò un e l’oyabun sospirò di delusione.
«Forse allora dovrebbe farlo lei il tuo lavoro, mh? Una donna. Che conosce le regole meglio di te» infierì Kobayashi «e che porta rispetto senza queste stronzate alla Kitano.»
«Kumicho, ho so-»
«Hai? Hai? E ancora cianci?» Il boss gli schiantò un violentissimo pestone, spezzandogli le dita. Kenzo franò riverso sul fianco. Urlava a denti stretti, una partoriente. «Uno zero di Osaka entra nel mio club, macella una ragazzetta che potrebbe avere l’età di mia figlia e tu non solo scavalchi Daiki-kun, ma hai l’arroganza di venirtene qui, di svegliarmi, e di trattarmi come fossi uno di quei bastardelli che tieni a servizio.» E alla fine chiese a Tomoe: «La idol è viva, almeno?».
Lei mimò un no e cadde il gelo.
Un gelo sordomuto, ma che a piccoli cenni dell’oyabun virò in furia.
Il kumicho chiamò a sé il tirapiedi davanti a Kenzo e gl’imboccò un paio di frasi.
Lo sgherro annuì, accennò un breve inchino, poi uscì dalla sala con altri sei uomini.
«Voi» saettò il boss ai trenta kobun sul chi vive, «Kyioshi Azuma ha commesso il suo ultimo sbaglio. Per l’ora di pranzo, al telegiornale dovrò sentire che il Festival di Sumidagawa è arrivato in anticipo. Mi spiego?» Gli uomini ruggirono un , kumicho, tutti assieme. «Bruciate ogni singolo buco. I bordelli, le sale pachinko, i club… vi do carta bianca, figli miei, perciò radunatevi dal waka gashira e rendetemi orgoglioso. L’inferno che farete allo Yūkaku voglio vederlo dal terrazzo.»
Le guardie ruppero le righe, ma Sadao ne bloccò subito una – la più giovane.
«Non tu, Hideo-kun. Forse avrò bisogno di te. Porta qui un secchio d’acqua fredda e lasciaci soli» gli ordinò. «Una decina di minuti basterà.»
La recluta ubbidì e aspettò da parte.
«Bene» riprese l’oyabun. «Gli epitaffi di domani sono scritti, ora veniamo a voi. Tu» e l’indice di Kobayashi trovò Tomoe, «io non t’ho mai visto, ma da tuo Presidente, e da padre, oggi m’hai reso fiero di te. Sei sveglia» l’apprezzò, «però una cosa fatta giusta a metà è pur sempre una cosa fatta male» si rabbuiò lui, «quindi adesso devi rispondermi onestamente. Tu a che tieni di più? Alla tua vita o al Clan Ōtsuka?»
Tomoe non esitò.
«Al Clan.»
«Sembri piuttosto decisa. Direi troppo» la squadrò l’oyabun. «È la paura, forse?»
«No, kumicho. È solo la verità.»
«E saresti disposta a morire, se io lo ritenessi utile all’incolumità di tutti?»
La ragazza accennò un .
«Apprezzo la dedizione, ma la nostra è una fede che non risparmia nessuno. Neppure gli uomini migliori» sottolineò calmo Sadao, «e credimi, alcuni di loro sono stati fra i kobun più capaci che abbia mai avuto a servizio. Donna, tu» le disse «te ne andrai scalza lungo una strada tortuosa e oscura, dove non ci sarà spazio per nulla che non sia il Clan. Nulla» ribadì lui. «Non i tuoi genitori, né i tuoi figli o tuo marito. Lo vuoi davvero?»
Tomoe alzò la testa e puntò gli occhi sull’oyabun, incrociandone lo sguardo dubbioso.
«Sì, Kobayashi-sama. Lo voglio davvero» replicò. «Perché prima di Maeda Kenzo battevo in un bordello a Takarazuka, e prima ancora ero soltanto un’orfana che sognava di fare la cantante. I miei genitori non li ho mai visti. Non ho figli, né un marito. Io ho solo lui, kumicho» e l’indice cadde su Kenzo. «Lui, e i miei kyodai
«E loro chi sono per te?»
«Tutto ciò che ho sempre voluto» ammise lei. «Sono il mio Clan. La mia famiglia.»
Sadao l’avvicinò a sé, al suo fianco.
«Allora sei fortunata. Quando l’una e l’altro si sovrappongono è più facile.»
«Più facile?»
«Più facile del tenersi a metà fra le due, del compromesso» chiarì Kobayashi. «Ora però torniamo a te» ringhiò a Kenzo, che nel frattempo sgocciolava piscio sul tatami come un rubinetto difettoso. «La vita o il Clan?»
Lui crollò.
«P-presidente, pietà! Abbia pietà!»
«La pietà è degli uomini, Maeda. A me devi chiedere misericordia. E adesso rispondi.»
«La vita, kumicho! La, l-la scongiuro!»
Sadao inspirò a fondo e «Perciò è così» decretò. «Qual è il tuo nome, donna?»
E mentre il temporale fuori scemava di nuovo nei polmoni del buio, lei chinò il capo.
«Maruyama Tomoe, Presidente.»
Il kumicho sfilò la spada dall’obi e la offrì alla ragazza.
«Questa katana è un cimelio della Famiglia Kobayashi da più di quattrocento anni, Tomoe-chan. Non ha nome, ma ne ha incisi tanti. Su dozzine di lapidi» le rimarcò l’oyabun. «E oggi dovrà farlo ancora. Per mano tua. Quindi sguainala e sta’ pronta.»
La donna ubbidì.
«Hideo» chiamò il boss. La guardia tornò col secchio d’acqua. «Appoggialo, togliti la cinta e legagli i polsi dietro la schiena» ordinò Sadao, sguardo sull’uomo a terra.
Il tirapiedi afferrò Maeda per i capelli, lo raddrizzò e strinse la cinghia. Il cuoio sibilò.
Di Kenzo non rimaneva granché – giusto un accrocco di vestiti, ematomi e piscio che trasudava la volontà d’una bambola di pezza, privo del più minuscolo atomo di dignità.
Ormai era solamente lo spettro del maschione in punch perm che la schiaffeggiava per una comanda sbagliata o che le parcheggiava il cazzo in bocca quando lei gli s’addormentava sulle gambe, davanti al televisore.
«Porgimi la sua nuca, Hideo.» Una lacrima sottile, un microbo, rigò il volto deluso di Sadao. Tomoe la vide. La lacrima di un dio, pensò. «Mi addolora punirvi così giovani.»
La cervicale di Kenzo arrivò a tiro di spada.
«Ragazza» riprese Kobayashi-sama. «Alzala e attendi il mio sì. E mi raccomando, devi tagliare fino a metà collo. Non decapitarlo. Hideo, tu tienigli la testa.»
Tomoe sollevò la katana, stringendo l’elsa con entrambe le mani. Davanti, a grugno spaccato e col naso fradicio di muco e sangue, le sussultava un verme al capolinea.
«Hai un’ultima parola per lui?» chiese l’oyabun.
«Grazie» mormorò la giovane a Kenzo.
Un cenno.
La donna vibrò il fendente.

Nulla.

Quando Tomoe riaprì gli occhi, Sadao le teneva i polsi bloccati.
«Allora non mentivi» parlò Kobayashi. «Sei proprio come la venerabile Gozen. Faresti davvero di tutto per il tuo Clan, anche uccidere l’uomo che t’ha levata da un bordello.»
«Sì, se è la vostra volontà, kumicho
«E lo apprezzo, ma purtroppo su di me pendono giuramenti e obblighi che la Famiglia Kobayashi ha promesso di rispettare. La tua fede onora il mio ruolo nel Clan Ōtsuka, però la supplica di Maeda mi costringe a una decisione difficile, una scelta a cui, da Kobayashi, non posso sottrarmi. Sapete perché vi ho fatto quella domanda?» chiese loro, riprendendosi la spada dalle candide dita di Tomoe. «Perché quattrocento anni fa, quando le truppe del Re Demone assediarono Hanakuma, il generale Ikeda la pose agli sconfitti. Il mio avo Kobayashi Makomaru era là, e insieme agli altri samurai aveva giurato fedeltà ad Araki Motokiyo, il signore del castello. La vita o il Clan gli dissero. Lui scelse la vita. E da quella battaglia, come tutti i rōnin, soffrì vergogna e povertà. Ma ciononostante non smise mai di resistere al Clan Oda, e nel frattempo il suo seme aveva attecchito anche fra i sassi e il nostro albero fogliato di maschio in maschio, fino a me» annuì Sadao. «Oggi la mia rimane una famiglia di fuorilegge, eppure viviamo ancora per la clemenza che ci offrì il nemico, quindi mi toccherà un compromesso. Se non lo facessi, getterei disonore sui miei antenati.» E allora «Maeda Kenzo» decretò lui, «puoi tenerti la pelle, ma da stanotte sei espulso a vita dal Clan Ōtsuka. Il tuo futuro non ci riguarda più. Hideo t’accompagnerà in città. Ti darò cinque ore per lasciare il Paese, dopodiché avrai una taglia sulla testa. Tu» saettò poi al giovane lacchè, «levamelo di torno, e ah, le chiavi, le chiavi della Jaguar» aggiunse, indicandogli Tomoe. «Dalle a lei.»
«Sarà fatto, kumicho» obbedì l’altro, tirandole il mazzino. La donna lo acchiappò.
E mentre Hideo trascinava Kenzo fuori dalla sala, Kobayashi-sama guardò la ragazza.
«Tomoe-chan» esordì, «ora che Maeda è bandito, a capo del Nurebanzai mi servirà una persona sveglia. Sapresti cavartela?»
«Sì.»
«Ottimo. Allora è deciso. Lo gestirai tu. Hai carta bianca su tutto, luci, menù, ballerine, quello che vuoi. Ma le buste dovranno arrivarmi più gonfie di prima, mh? Il trenta per cento a me, il venti a Daiki e l’altra metà è tua, ragazza. Te la meriti.»
«K-kumicho, io… non ho parole» ammise lei, inchinandosi.
«C’è un’altra questione, però. E conoscendo le regole, sai che non posso affiliarti.»
Tomoe annuì a malincuore.
«Perché una donna vale solo quanto l’uomo che l’accompagna.»
«Brava» la lodò l’oyabun, «ma credimi, piccola Tomoe, troverò una soluzione. Alla miglior figlia spetta il miglior marito» disse lui. «E il giorno che l’avrò davanti lo sposerai, così potremo bere il sakè dalla stessa tazza.»
«Sì, Presidente.»
«Perciò siamo d’accordo» ghignò il boss. «Adesso informa lo shatei gashira e trovatemi quel bastardo, se non è già crepato. Voglio la testa, non le sue dita del cazzo.»
«L’avrà, kumicho

Dopo un omaggio all’oyabun, Tomoe uscì dalla villa e attraversò i giardini. Oltre l’engawa, i cortili, o ciò che ne rimaneva dal temporale, parevano il vomito d’un drago. Da Est soffiava una brezza sapida di fango, e ovunque dall’oscurità balenava ora una fronda di palma, ora un moncone d’albero, ma la Jaguar – vide Tomoe – era sempre lì.
Sedutasi al posto di Kenzo, accese la fuoriserie, sfilò Request dal mangianastri e la gettò dal finestrino, sintonizzando giro a giro sull’Ottantanove-e-nove di Kiss FM Kōbe.
Col volume che ingranava e ingranava, Tomoe trovò le Mevius e il cellulare di Kenzo.
Today I asked for a god to pour some wine in my eyes… sincopavano I Faith No More.
Lei prese una delle bionde dal pacchetto e la fumò. Sferzate di basso e nicotina elettrica, la boccata le strizzò i polmoni. Era come respirarsi un laccio da scarpe.
Tossì.
Never cheer before you know who’s winning… 
Il Motorola squillò improvvisamente.
«Pronto?» disse, la mano a scacciare i fumi.
Daiki.
Tomoe abbassò il volume.
If you give him everything, he may give you even more
«Tomoe?» ringhiò lui. «Dove cazzo sta quell’animale dell’uomo tuo?»
«Due minuti fa era con me. Dal Presidente.»
«Era?»
«Kobayashi-sama l’ha espulso.»
«Mh.» Daiki sospirò appena. «Tu invece perché sei viva?»
«Perché così vuole il kumicho. E m’ha ordinato di aiutarvi col tipo del Nurebanzai.»
«Ah, sì? Allora vedi di tornare qui. Ci trovi al magazzino del Tarumi. Lo sai dov’è?»
«Sì.»
«Bene.»
«Ma quindi l’avete preso?»
«Fuori da una farmacia» disse lo shatei gashira. «E comunque sbrigati. Hai un’ora.»
Tomoe fece per agganciare.
«Ah, donna!»
«Sì, Yoshida-senpai
«Porta un tubo di lacca e un martello. Ci serviranno.»

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