Tony Scozzi è una creatura che non è nata né da passione né da amore, ma non lo scopre di certo oggi. Sa anche che quelli della sua specie non stanno seduti così. Quelli della sua razza hanno sempre tenuto i piedi sulle scrivanie, mostrando alle clienti le suole consumate dai pedinamenti, dalle corse per scampare alle pallottole, dalla lotta quotidiana sul cemento metropolitano. Tony è costretto invece a rimanere rigido, quadrato sulla sedia, sguardo da Pizia, da impiegato catatonico, davanti a questa sventola da urlo.
Capelli di fuoco appena appena mossi, di una sfumatura che esiste solo sugli scaffali delle boutique. Occhiali scuri, tubino nero. Borsetta sulle cosce e cappello con veletta come prove tecniche di vedovanza.
O il marito è appena morto o lei si prepara all’idea.
Ha detto di chiamarsi Adelaide. Siede con le gambe accavallate, con la sicurezza di chi ha il mondo ai propri piedi. Il mondo glieli bacerebbe, i piedi. Li venererebbe. Nascerebbero culti, su quei piedi.
La sua è l’unica figura non polverosa all’interno di questi quindici metri quadri più bagno riempiti di schedari, faldoni di fotografie sconce e vecchi trench umidi.
Davanti alla creatura divina, Tony pensa a quanto poco c’entri l’amore con la propria esistenza, lui che è nato solo perché il suo creatore voleva un posto al sole.
Chi sono io per sbriciolargli questo sogno?
Per farlo unico, il suo creatore gli ha dato un passato turbolento. Ci ha messo un po’ di tutto: padre violento, un compagno di pattuglia morto in servizio, la cacciata dal corpo di polizia, alcolismo, la dislessia. Sono migliaia in questa città, tutti a fare lo stesso lavoro, tutti con un passato turbolento, il padre violento, eccetera eccetera.
«Mio marito mi tradisce» dice Adelaide, interrompendo il flusso mentale di Tony.
«Allora suo marito è pazzo, signora.»
«Voglio le prove.»
«Le porterò tutte le prove che vuole, se sgancia i bigliettoni» dice Tony, quasi lo grugnisce.
Spera che la sventola non dia peso alla smorfia di sofferenza. La colata di cemento che ha dentro deve rimanere nascosta al mondo, soprattutto ai clienti. Ne va dell’immagine professionale.
Perché il creatore di Tony Scozzi ha trascurato alcuni aspetti basilari della sua quotidianità. Per un certo periodo, quando la situazione era ancora gestibile, Tony godeva segretamente della mancanza di realismo della letteratura di genere. Credeva di essere unico, il primo detective stitico della storia. Era bello sentirsi unici, originali, seppur per una dimenticanza.
Poi si è reso conto che le migliaia di suoi colleghi che operano in questa città di polpa di cellulosa hanno anche loro gli orifizi sigillati, almeno in uscita. Le voci corrono, nell’ambiente. Ai lettori non interessano certi particolari, a meno che non si parli di Irvine Welsh.
E tu non sei Irvine Welsh.
«Lei è molto diretto, signor Scozzi.»
«Sono un tipo semplice. Mi piace arrivare al sodo.»
«Mi piacciono gli uomini che sanno cosa vogliono.»
Il detective sta per aggiungere qualcosa tipo mi chiami Tony, ma si blocca con le labbra dischiuse sulla prima sillaba. Adesso, all’improvviso, basterebbe il più piccolo movimento per lacerare qualcosa all’interno. È un istante di certezza cristallina, di autoconsapevolezza gassosa, che potrebbe schiudersi sull’abisso.
Quando la crisi passa – lei ha notato qualcosa, la sua aria da mangiatrice di uomini vacilla ma subito si ricompone – Tony si accende una sigaretta. Per il tremore alle mani, per i goccioloni di sudore sulla fronte, può fare poco. Insieme al caffè nero bollente di dieci minuti fa, la sigaretta potrebbe far prendere una piega positiva alla situazione o farla deflagrare del tutto.
Porge l’accendino anche ad Adelaide e, per un attimo, dimentica il senso di questa vita metaletteraria quando lei chiude le labbra intorno al filtro. Incavi gemelli le si disegnano sulle guance mentre aspira. Delineano fantasie molto poco professionali. Di solito, almeno nelle storie degli altri, queste fantasie si concretizzano sulle scrivanie, addosso alle porte o direttamente sul pavimento, ben prima di parlare di onorario.
Ma lei sbuffa la prima nuvola e poi si alza.
«Mi chiami appena sa qualcosa» dice. Neanche il tempo di disperdere l’eco delle parole ed è già fuori dalla porta.
Nel chiuso dell’ufficio, il suo profumo regnerà per sempre. Tony inspira più che può, per tenerla con sé.
Quando l’eternità di Chanel n. 5 sembra essere già finita, apre gli occhi e spalanca l’ultimo cassetto della scrivania. I suoi avi ci tenevano il revolver e la fiaschetta del whiskey. Per Tony, invece, quello è il posto della macchina fotografica, delle memory card e dei sali di magnesio.
***
Esce dall’ufficio, per strada. L’aria della notte forse aiuterà a smuovere qualcosa, anche se va contro le leggi non scritte dell’autore. Ma, più di tutto, per togliersi di dosso l’odore di lei.
Lo scroscio della pioggia copre i tuoni sotto l’ombelico. Tony guarda i canali di scolo che si allagano.
Sarà una notte lunga.
Si ferma in farmacia. Compra Guttalax e glicerina.
Il farmacista non lo guarda nemmeno, come tutti gli aficionados del turno di notte. Si preoccupa solo delle impronte bagnate che rimarranno sul pavimento fino all’arrivo della donna delle pulizie.
Ce l’hai un cesso, là dietro? quasi gli chiede Tony. Lo usi ogni tanto, quando me ne vado? Quando questa smette di essere la tua storia?
Invece afferra il sacchetto e lancia una banconota sul piattino mentre il farmacista batte lo scontrino.
«Vuole scaricare?»
Tony è fuori prima di dovergli tirare un pugno, diretto verso la prossima tappa del suo supplizio. Passa in via dei Martiri e non può fare a meno di sentirsi tale. Si ferma sotto la pensilina del 115 e si accende un’altra sigaretta. L’acqua gli ha inzuppato i calzini e i pantaloni fino al ginocchio.
Il detective guarda la finestra dell’autore e lo immagina intento a mettere su carta le storie banali che hanno costruito questa città e l’hanno popolata di derelitti come Tony. Personaggi in cerca di storie decenti, che si rivelano piene di scazzottate e whisky, ma con pochi momenti privati, di raccoglimento.
Starà inventandosi dei cattivi, pensa Tony. Qualcosa di più moderno dei siciliani ma non troppo commerciale come i russi. I camorristi tirano parecchio, oggigiorno.
Tony è un detective, è stato creato per esserlo, ma ha dovuto lo stesso setacciare gli elenchi telefonici per trovare il suo autore. Ne ha studiato le abitudini e gli spostamenti, ne ha confrontato il volto con la foto di quarta dei suoi romanzi autoprodotti.
E per farci cosa?
Nulla di nulla, ma adesso sa riconoscere la finestra per il gatto appollaiato sul davanzale e il bagliore tenue dello schermo.
Squilla il cellulare. È lei.
«Mio marito è in Corso Mazzini 15. Terzo piano. Appartamento 2.»
A dieci minuti da qui, più o meno, pensa Tony. «Cosa si aspetta che faccia?»
«È lei il professionista, no?»
La chiamata termina all’improvviso. Una scudisciata. Tony sorride alla pioggia fetida.
Una donna pericolosa.
Ormai l’ufficio è troppo lontano. Non c’è tempo per recuperare l’attrezzatura e zoomare in sicurezza verso le finestre nella speranza di catturare una chiappa o un capezzolo. Tony controlla il cellulare. Toglie il flash dall’app della fotocamera.
***
Il condominio che Tony si trova davanti non è degno né di infamia né di lode. Facciata a mattoni e pochi orpelli architettonici. Dichiara discrezione fuori e dentro.
Il detective rifila due bigliettoni al portinaio, a un passo dal cascare dal sonno, e sale al piano indicato dalla sua nuova femme fatale. La porta dell’appartamento non è chiusa a chiave.
Posso sempre fingermi ubriaco e dire che ho sbagliato porta.
Non funziona, ma la mano invisibile di una trama debole lo spinge. Sono circostanze create ad hoc per farlo finire nei guai, ormai Tony le conosce.
Dentro, luci soffuse e jazz. Nessuno in vista.
La cosa puzza, ma Tony entra lo stesso e sguaina il cellulare con la fotocamera pronta. L’aria nelle budella brontola.
Soggiorno, cucina. Tutte le stanze sono vuote, tranne la camera da letto. Un colpo di tosse educato.
Attraverso il filtro della fotocamera, attraverso lo spiraglio della porta, attraverso la luce di un’abat-jour velata di rosso, la sorpresa.
Invece di un uomo di mezza età che se la spassa con una ragazzina al posto della moglie sventolona, tra le lenzuola c’è la suddetta sventolona in autoreggenti e completino intimo di pizzo.
Fuma a letto. Bella come un flacone di Clismalax.
«Ce ne hai messo di tempo» dice Adelaide. Poi spegne la sigaretta in un massiccio portacenere di cristallo sul comodino. Sta aspettando da circa mezzo pacco, a giudicare dai mozziconi sporchi di rossetto.
Quando gli fa cenno con la mano, Tony ha in testa solo le sue labbra. L’autore non esiste più.
Il detective entra nella stanza e abbandona il cellulare sul comò. Si libera dell’impermeabile e del cappello. Via la divisa da impiccione prezzolato e via la cravatta. Mentre ancora armeggia con la cintura, Tony viene artigliato per la camicia e trascinato a letto.
Adelaide abbassa la zip dei calzoni, vi intrufola la mano con perizia chirurgica. Tony stringe i denti e prova a levarsi la camicia, lo sguardo perso dentro il reggiseno a balconcino.
Ma il suo amico inseminatore non collabora. La situazione è brutta in quei quartieri. Tafferugli, guerriglia urbana tra fazioni opposte di rifiuti semisolidi. Ha paura anche lui.
Tony vorrebbe fargli coraggio ma si morde le labbra. Tra qualche secondo lei chiederà se non gli piace abbastanza o se non è abbastanza uomo.
Ma chi tira le fila di questa storia se ne accorge. Finalmente un po’ di attenzione alla fisiologia. Un fiume di sangue inonda i tessuti erettili, abreuve nos sillons, quasi si sente suonare la Marsigliese.
Il corpo di Adelaide è un parco giochi in cui Tony entra gratis. Il biglietto è stato già pagato da terzi. Uno striminzito pubblico pagante che legge sotto l’ombrellone.
La vera storia inizia adesso e non è un giallo. È di un rosso profondo che vira al violaceo, a seconda di come la luce dell’abat-jour colpisce le curve della sventola. Un epilogo di un bianco accecante.
E poi subito la porta che si spalanca – anche se era già aperta – e sbatte contro il muro.
«Tu! Come hai potuto!» grida qualcuno.
Turning point abbastanza fiacco, pensa Tony, prima di riconoscere l’intruso.
Oltre che sulle quarte di copertina, ha visto quella brutta faccia sul blog dove posta le avventure di Tony. Trentasei visualizzazioni al mese, in media, quando va bene.
Il problema è che ha in mano una pistola.
«Tu!» ripete, e Tony ha il dubbio se si riferisca alla sventolona, la fantasia sessuale a cui l’autore stesso ha dato un appartamento e una spiccata tendenza all’infedeltà, o al suo alter ego virile e con l’apparato digerente dimenticato.
L’autore tende il braccio con cui punta la pistola e contemporaneamente volge la testa da quel letto di umori, neanche fosse Raul Cremona che recita un passo di Foscolo.
Il cervello di Tony reagisce in automatico – è scritto che faccia così – e gli fa afferrare il pesante posacenere sul comodino. Il detective lo lancia attraverso la stanza e lo fotografa istante per istante mentre vola, seguito dalla scia di cenere e mozziconi macchiati di rossetto.
Spacca la testa dell’autore prima che possa sparare. Lo fa crollare sulla moquette.
Tony si alza, seminudo, e ammira la pozza di sangue che si allarga dalla testa.
La mia piccola trasformazione in übermensch.
«Fallo sparire» dice Adelaide.
«Avessi saputo, ti avrei fatto pagare di più.»
Tony si carica in spalla il corpo e in soggiorno trova un tappeto in cui avvolgerlo. Vedendo questo tubo rigonfio sul pavimento vorrebbe dire qualcosa di solenne, ma l’unica cosa che gli viene in mente è che in un appartamento con la moquette non ci dovrebbero essere i tappeti.
I particolari fanno la storia, pensa. E i particolari sbagliati la distruggono.
Nessuno lo vede mentre porta il fagotto giù dalla scala antincendio. Solo la sventola. Si è messa addosso una vestaglia nera trasparente e guarda Tony faticare. Lo venderà il prima possibile, è chiaro, ora che ha raggiunto il suo scopo.
Esigenze di trama, più che altro.
L’unica speranza è far sparire le prove. Il detective nasconde il corpo tra cumuli di immondizia che l’autore stesso ha creato con le parole. Venti minuti dopo, il cadavere è nel bagagliaio della Camaro di Tony, diretto alla destinazione finale.
***
Per disfarsi del cadavere, Tony ha scelto un boschetto che conosceva già per altre vicende. Roba di armi e droga rubate alla mafia da un deficiente che poi ha chiesto il suo aiuto. Il personaggio era piatto e il finale prevedibile. Non ha venduto molto.
Tra i fusti carichi di resina, cade ancora una pioggia sottile.
Tony si fa largo in mezzo a rovi e sterpaglie che gli tirano i vestiti, con il tappeto ripieno sempre in spalla. Ci dovrebbe essere un tronco di pino caduto, qualche decina di graffi più avanti, e lì vicino un piccolo spiazzo dove il terreno sabbioso, facile da scavare, ospiterà l’autore a tempo indeterminato.
Quando ci arriva, però, la fossa è già pronta. I soliti, piccolissimi dettagli che non tornano.
Tanto valeva metterci anche una lapide.
Data di morte oggi, quella di nascita non importa. Nome idem, perché è uno pseudonimo. Epitaffio: «Uno che ci ha provato».
Tony adagia il corpo ai margini della fossa e lo libera dal tappeto. Lo fa scivolare piano sul fondo. Per mostrargli il giusto rispetto, deve scendere anche lui.
Ora vorrei davvero dire qualcosa.
La morte dell’autore non ha reso Tony un superuomo, ma uomo d’ossa e tessuti molli, non più di carta.
Ormai ha smesso di piovere, ma un tuono ritardatario strappa la solennità del momento. Tony sobbalza come per un colpo di pistola e guarda in alto, verso le nuvole, oltre le dita a corona degli alberi.
Sembra la conclusione adatta e invece l’autore l’ha pianificato come momento clou.
La pressione aumenta, diventa insopportabile.
No. Non adesso. Non così.
Il temporale non è passato. Ha solo cambiato atmosfera.
L’esitazione di Tony è fatale e la prima scarica gli inonda biancheria, pantaloni e scarpe, insieme alla vergogna e al senso di impotenza.
Perché in questo modo?
Fa appena in tempo a slacciare la cintura per limitare i danni della seconda rata.
Perché così poca considerazione di te stesso?
La fossa è stretta e il disastro inevitabile. Tony ricopre il suo autore, ma non di terra come avrebbe meritato. Il suo regalo di addio è una fossa biologica per l’eternità.
Ci hai provato, hai scritto anche roba discreta. Sei stato solo sfortunato!
Il rettangolo di notte tagliato via dalla fossa si riempie di fasci di luce. Tony li guarda intersecarsi, formare poligoni che illuminano il bosco, mentre l’intestino rifiuta di collaborare.
È il suo momento. La sua Pompei. Il Krakatoa.
Tony si aggrappa al bordo della buca, cerca di tirarsi fuori prima che i proprietari delle torce lo raggiungano, ma non fa in tempo. Lo trovano con i pantaloni sudici ancora slacciati, sporco di terra, sangue e merda, colpevole di omicidio e vilipendio. Almeno, le torce puntate in faccia lo abbagliano e gli risparmiano le espressioni schifate.
E perché odi anche me? si chiede infine.
Lo prendono dalle braccia e dai capelli. Dalle orecchie. Lo trascinano fuori dalla fossa mentre maledice l’autore e la favolosa pensata di chiudere la carriera in bellezza. Tony Scozzi continua a maledirlo mentre lo ammanettano e lo manganellano sulla testa, e poi sbraita dal banco degli imputati, chiuso dentro una gabbia come una scimmia incontinente.
Lo chiamano pazzo, pervertito. Patricida. Anarchico.
È solo nella pace della cella, in attesa di un fine pena che non arriverà mai, che si rende conto di essere anche libero. Niente più avventure, niente più pallottole né viaggi della speranza in farmacia.
È dolce come liquore, questo senso di leggerezza. Dietro le sbarre, dopo anni, Tony è finalmente padrone di sé e del proprio corpo.
Si sente lucido come l’acciaio inossidabile del cesso davanti a lui.