Il ragazzo è cresciuto in un paese da niente, bello, per carità, ma disperso sulle colline, alte, lontane dal mare, e poi qui si conoscono tutti. Così dice sempre suo padre, che lo dice come se fosse una virtù, e invece al ragazzo la mentalità da paese non piace, non succede mai nulla, e soprattutto non lo considerano abbastanza. Io sono diverso, pensa il ragazzo, e sua madre ha pianto, quando si è iscritto in facoltà. È un così bel ragazzo, pensa lei, potrebbe cercare moglie qui in paese. Non aveva mai dormito fuori casa, si confida con le amiche, doveva cominciare proprio adesso? Poteva trovarsi una ragazza per bene, dice in giro, invece vuole studiare legge. Ma no, mamma, non si dice legge, giurisprudenza è più elegante. Che poi comunque il ragazzo è sempre a casa, scende in città solo per gli esami. Intanto lei ha imparato, giurisprudenza, e lo dice a tutti, mio figlio studia giurisprudenza, eh no, non si dice legge: giurisprudenza è più elegante. Anche il padre è contento. In famiglia i soldi non mancano, dice, ma una laurea sì, e presto l’avremo. Farà l’avvocato, dice. Lo dice al bar, e dal fruttivendolo, lo dice a tutti, perfino sul sagrato. Ma no, papà, ti devi aggiornare, l’avvocato è un mestiere che non rende più, sono troppi, non è come ai tempi tuoi che l’avvocato era un signore, adesso fanno la fame, corrono dietro agli immigrati per ottenere un incarico, contestano le espulsioni del Prefetto quando invece è meglio farle, le espulsioni, e intanto il ragazzo studia e si laurea. Settantadue è un ottimo voto e così, tornando verso casa, in macchina, con la radio a basso volume, lo dice a suo padre. Devo fare il concorso, dice, è arrivato il momento di chiamare lo zio. Lo zio di Roma, intende il ragazzo, che conosce un capo di gabinetto o qualcosa del genere, in un ministero gli sembra, che magari non sarà proprio il ministero più importante di tutti, ma è comunque un ministero. E l’amico dello zio è comunque un capo di gabinetto, di un ministero o qualcosa del genere. E così il padre chiama.
Lo zio ha fatto il suo lavoro. Reato omissivo mediante commissione, ha detto al telefono, e il ragazzo ha studiato il reato omissivo mediante commissione. Il giorno del concorso c’è gente dappertutto, fa caldo, e il vicino di banco sembra uno preparato. Il ragazzo sbircia la documentazione, legge il voto di laurea, centodieci, e poi una parola, lì accanto, lode. Accidenti, pensa, ma questo è uno bravo, e poi lo dice, ma tu sei uno bravo. E il vicino di banco, che è figlio di un prefetto, sorride, però non dice niente, è anche arrossito. Il presidente intanto sorteggia la busta, copia il tema col gesso, alla lavagna, e scrive Reato omissivo mediante commissione. Il ragazzo piega la testa e quando la rialza ha già finito il tema, esce dallo stanzone, ha vinto il concorso, saluta il paese, sale sul treno, ed eccolo davanti alla scuola di polizia, stanno per cominciare le lezioni. Ma prima di entrare guarda in alto, sotto l’architrave, vede incisa una frase. Per la sicurezza della patria educo i suoi figli migliori. E il suo vicino di banco al concorso, che lo saluta dal cortile, oltre a essere figlio di un prefetto, sembra anche uno dei figli migliori della patria. Come me, del resto, pensa il ragazzo, e così lui e il figlio del prefetto diventano amici. Anche se non sono compagni di camera, non ancora.
Il corso procede ma c’è qualcosa, alla scuola, che indispone il ragazzo. Ogni mattina, all’appello, sente chiamare il suo cognome, ed è felice, orgoglioso, da buon figlio migliore della patria, ma solo per un attimo, soltanto finché realizza che non stanno chiamando lui, lui verrà dopo, stanno chiamando un altro: un tipo sciapo, con lo stesso cognome, che però nell’elenco alfabetico, per via del nome, addirittura lo precede. La cosa sta diventando insostenibile. E così il ragazzo va dal tipo sciapo e glielo dice. Ehi, dice, senti bene, lo sai perché sei qua? L’altro non risponde. Te lo dico io il perché. Mio zio ha fatto chiamare, ha comunicato il mio cognome al Ministero, perché lo segnassero, mio zio frequenta persone importanti e le persone importanti mi volevano qui. E tu? Qual è il tuo merito? Non rispondi, eh? La tua unica qualità, ricordatelo bene, è che porti un cognome uguale al mio. L’altro allarga le braccia. Ah, non capisci eh? Allora te lo spiego. Al ministero dovevano prendere me, ma non sapevano il nome, e così per non sbagliare ci hanno preso tutti e due. Però sappi, e ricordalo bene, che sono io quello originale, quello che doveva stare qui. Tu invece… tu sei stato solo fortunato.
Ma il tipo sciapo non è l’unico fastidio. Il compagno di camera del ragazzo è un agente di polizia, uno che si è laureato a quarant’anni, ma vi rendete conto, dice sempre il ragazzo ai genitori, uno che cerca di fare carriera a quell’età, assurdo. Avrà copiato di sicuro. Come avrebbe fatto, altrimenti, a vincere un concorso del genere? Talmente difficile che perfino i migliori-giovani-laureati del Paese, se vogliono passare, devono far telefonare da qualcuno. E ora, da semplice agente, diventerà commissario, una cosa inconcepibile. Ma perché li mettono tutti insieme, i figli migliori della patria, e gli altri? Io non voglio stare in camera con lui, pensa il ragazzo, quello è uno che si appiccica, mi parla sempre, ieri voleva addirittura cenare con me. Perché non lo capisce che deve stare al suo posto. Così il ragazzo ne parla con quello che invece, lui sì, è il suo vero amico, il suo migliore amico. E il figlio del prefetto a sua volta ne accenna al padre, glielo dice solo come sfogo, in modo astratto, ma il prefetto invece chiama il direttore della scuola, insiste, fa la voce grossa, e alla fine cambiano gli accoppiamenti. I due amici possono finalmente dormire vicini. E una sera, guardando il soffitto, dopo il contrappello, la bandiera già ammainata nel cortile, il figlio del prefetto dice una cosa strana. Sai, dice, qual era l’argomento della mia tesi? No, risponde il ragazzo. Il reato omissivo mediante commissione, dice il figlio del prefetto. È stato fortunato, pensa il ragazzo, poi lo dice, sei stato fortunato. Già, commenta il figlio del prefetto, sono stato fortunato. E non ne parlano più. Quella sera spengono la luce e il ragazzo si gira su un fianco, chiude gli occhi, e quando li riapre sono passati due anni; il corso è finito, stanno per comunicare le destinazioni, e il figlio del prefetto sorride. Il ragazzo non capisce, poi sente che lo chiamano, si affretta. Sarai dirigente di un commissariato, dice il direttore della scuola, sarai dirigente su al nord. Il ragazzo non sembra felice. Ma sei pazzo? chiede il figlio del prefetto, fare il dirigente già alla prima assegnazione, è un ottimo incarico. Il ragazzo però non sembra convinto. Sarà una botta per la tua carriera, insiste il figlio del prefetto, fidati di me, almeno così dice mio padre. E tu, chiede il ragazzo, dove sei destinato? Al ministero, risponde il figlio del prefetto, e se ne va.
Il ragazzo esce dalla scuola ed è già nel commissariato. Si vedono le montagne e il mare, ma un mare freddo, non come quello che sognava da bambino, e comunque il ragazzo non è lì per il mare, deve comandare un ufficio. L’ispettore anziano, però, non lo considera molto. Lo ascolta, certo, però dopo aver ascoltato non esegue. Ma io, pensa il ragazzo, non sono più un ragazzo, ora sono commissario. Quindi aspetta che l’ispettore se ne vada e prende le chiavi del suo ufficio, entra, e trova il fascicolo, quello per cui hanno discusso tanto. L’ispettore non vuole capire, è così ottuso, e allora ci penso io, lo tratterò io questo fascicolo, sono laureato, ho vinto un concorso, molto difficile, tutto da solo, due anni di corso qualificante, sono uno dei figli migliori della patria, lo tratto io il fascicolo. E così spedisce in procura l’informativa, indaga il criminale, e chiede la tutela della vittima; e gli sembra di aver fatto proprio un buon lavoro. Ma poi il magistrato evidentemente non capisce; sostiene che la vittima non sia vittima, che al contrario la vittima avrebbe commesso il reato, e quindi andava indagata, mentre l’indagato non andava indagato, visto che era lui la vittima.
La cosa non passa inosservata. Il questore lo convoca e non è contento per niente, grida per mezz’ora, ha le vene del collo in evidenza. Ma gli occhi sono bonari. Finita la sfuriata, il questore lo congeda. Vai, dice, che questa cosa mi ha preso fin troppo tempo, devo andare a giocare a tennis. Il commissario esce in corridoio, allarga le braccia. Oggi il questore era proprio arrabbiato, pensa. Intanto lo sente, attraverso la porta sottile, mentre parla col vicario. Il ragazzo si farà, sente dire al questore, chiamo il procuratore e sistemo tutto. E così il commissario prende l’ascensore, preme il bottone, le porte si chiudono, scende, le porte si aprono, e ci sono le montagne, il mare freddo, il ragazzo aspetta, ma non aspetta molto perché lo promuovono.
Finalmente in una questura. I commissariati sono posti di serie B, a ben vedere. Certo, sei tu a comandare, ma che valore ha il comando se nessuno ti considera? In questura invece posso far vedere quanto valgo, pensa il commissario, e infatti lo assegnano all’ufficio volanti. Interventi giorno e notte, che bello, troverò di sicuro il modo per farmi notare. Così pensa il commissario, e lo dice ai sottoposti. Mi dovete chiamare sempre, dice, qualunque cosa succeda, a qualunque ora, mi dovete chiamare in ogni caso. E allora un agente lo prende in parola, e quando alle tre di notte interviene in un cantiere abbandonato, c’è un uomo, a terra, è morto, allora l’agente chiama il commissario, che però sta dormendo, si sveglia, è irritato, e così il giorno dopo l’agente trova una sistemazione più consona presso lo sportello dell’ufficio immigrazione, e tutti sono d’accordo che ha sbagliato. Perché non si può disturbare un commissario quando sta dormendo, così dicono tutti, a mensa, e anche in corridoio. E il tempo passa e nessuno lo chiama più, il commissario, gli arresti vanno avanti, e due ragazzi appena trasferiti riescono perfino a prendere un latitante. A quel punto il commissario se l’è proprio guadagnata, una promozione.
L’ufficio nuovo è dentro una caserma, poco distante, ma adesso il commissario comanda molti più uomini, che obbediscono, tutti, tranne il sovrintendente. Non dice niente, il sovrintendente, ma lo guarda sempre male e questa cosa non va bene. Il commissario posa un fascicolo, lo rialza, e sono passati tre anni. Entra un negoziante per denunciare una rapina e il sovrintendente, chissà perché, lo guarda male. Poi sussurra al commissario che la rapina è inventata. Ma cosa sta dicendo? Come se qualcuno inventasse le rapine, e allora il commissario pensa, me ne occupo io di questa indagine, la mando io la denuncia, ci parlo io col magistrato, che infatti si convince. Arrestano il sospettato, è poco più di un ragazzo ma la rapina è comunque rapina, e il commissario non capisce perché quel ragazzo si debba impiccare in cella. Erano amanti, grida il sovrintendente in corridoio, era una denuncia per ripicca. Lo avrebbe capito anche un idiota, dice il sovrintendente, e così il commissario deve farlo trasferire, questo sovrintendente, certe cose non si dicono ad alta voce, e comunque serviva personale più giovane. Così arriva un agente giovane, ma non sa fare niente, e poi uno meno giovane, che però lo guarda male, e infine uno che giovane non è per niente, ma gioca a tennis e conosce tutti alla curia, soprattutto nei posti che contano. Certo, non obbedisce molto, fa sempre di testa sua, ma è un agente molto utile e infatti il commissario trova casa a buon prezzo, appena in tempo, perché sta arrivando un’altra promozione.
Finalmente un ufficio investigativo, si comincia a fare sul serio. La prima indagine va male, purtroppo, o meglio, va fin troppo bene. Arrestano l’assassino in meno di dieci minuti. Il problema è che la vittima, la moglie dell’assassino, appena prima di morire era venuta in questura per denunciare i maltrattamenti. Ma anche lei!, sbotta il questore, presentarsi alle tredici e trenta, a quell’ora si mangia, non si prendono le denunce. Il commissario l’aveva mandata a casa, le aveva detto che non sarebbe cambiato nulla, aspettando un giorno in più, che la denuncia, a pensarci bene, è solo un pezzo di carta. Il marito la picchiava da dieci anni, suvvia, un giorno in più o un giorno in meno, che cambia?
Anche la seconda indagine non si conclude al meglio. La famiglia accusava un infermiere, ha ucciso nostro padre, così diceva la famiglia. Il commissario però si è dimenticato l’informativa sul tavolo, doveva depositarla in procura, ma le giornate sono tutte piene di impegni, capitano sempre accidenti urgenti che sono più urgenti di quelli che sembravano urgenti prima, e così hanno cremato il cadavere e si sa, niente cadavere – niente autopsia, e niente autopsia – niente indagini. Sembra quasi che tutti stiano manovrando contro il commissario, per farlo sembrare quello che non è. Invidia, ecco cos’è, sono invidiosi. Ma poi, finalmente, sparano a un uomo che stava parcheggiando sotto casa. Aveva appena infilato la retro e zac, due colpi di pistola. Ma si può, all’ora di cena? Il questore convoca il commissario, gli sorride, anch’io sono stato ragazzo, dice, mi raccomando, è un caso importante. E il commissario indaga, segue tutte le piste, ascolta i testimoni, nonostante le seccature, già, perché i suoi sottoposti vorrebbero sentirli loro, i testimoni, sostengono di avere esperienza e che possono fare un buon lavoro, certo, come no, vogliono solo rubarmi la scena. Invece questa indagine è mia, ho capito io chi è stato, quindi mi apposto io sotto casa del sospettato, e poi, e poi si vedrà. Così il commissario si apposta, e passano i giorni, ma quello non esce mai. È faticoso restare qui, in strada, chiuso dentro la macchina, da solo, lo sarebbe di meno se la smettessero di chiamarmi dall’ufficio. Telefonano in continuazione, e per cosa poi? Per firmare scartoffie, congedi, ferie, straordinari: cartacce che possono anche aspettare e aspetteranno. Ma dopo una settimana il commissario è tentato di abbandonare; il sospettato non esce proprio mai, dall’ufficio insistono che deve firmare gli atti dirigenziali, e il magistrato l’ha convocato, vuole i verbali. Che verbali? chiede il commissario. Ha sentito i testimoni? replica il magistrato. Il commissario annuisce. Bene, mi consegni i verbali di sommarie informazioni. Ma io non ho fatto nessun verbale di sommarie informazioni. Il magistrato impazzisce. Grida, testualmente, ma checcazzofai le indagini orali come Montalbano? E poi lo convoca il questore. Ero un ragazzo anch’io, dice, e alla fine i carabinieri arrestano un uomo, in un’altra città, e pare sia stato lui. Il commissario non è convinto ma il questore gli posa una mano sulla spalla. Il tempo è galantuomo, dice. Il commissario lascia stare e intanto lo promuovono.
Il nuovo incarico è importante. Certo, il commissario adesso resta in ufficio, non investiga più sul campo, e dire che era così bravo, lo dicono tutti, un talento, ma la carriera è più importante. E poi lassù, ai piani alti della questura, può imparare dal vicario, che ha la stanza proprio accanto alla sua. La prima cosa che apprezza è la firma; firma, poi, un puntino con la stilografica, oppure un’assegnazione a matita; il vicario non scrive mai e parla poco, quasi per niente, ma si capisce che è un tipo sveglio; non dice ai sottoposti cosa fare, nemmeno una volta, nessun ordine, piuttosto accompagna le loro decisioni e li fa scegliere da soli. Il commissario in effetti sta imparando molto da lui, perché non è proprio corretto dire che il vicario non parla mai, non parla mai per primo, ecco, che è diverso.
Poi un giorno alcuni operai, che stavano sistemando un tetto, trovano un ordigno inesploso. Gli agenti intervenuti chiamano la centrale, mandate gli artificieri, dicono, e la sala operativa contatta il vicario, che però non decide nulla, attende, e allora ci pensa il commissario. Caricatela in macchina, ordina, e poche storie, che gli artificieri li chiamiamo domani. I poliziotti si lamentano, ma quelli non lo conoscono il dirigente degli artificieri, non sanno che tipo è. Il commissario invece lo sa, che tipo è il dirigente degli artificieri, è uno che conta, a Roma, e quindi è meglio non disturbarlo, non comunque a quest’ora del pomeriggio, che è quella in cui si gioca a tennis. E così i due agenti prendono l’ordigno, lo caricano sull’auto di servizio, e sarebbe andato tutto bene, se non fosse per quella piccola buca. Quindi il vicario viene promosso, e il commissario può prendere il suo posto.
Ora il ragazzo siede alla poltrona del comando, vice comando a dire il vero, ma è tutta la vita che si prepara e quindi sa come comportarsi. Però ci dev’essere qualcuno che ce l’ha con lui, perché i mesi passano e non lo stanno promuovendo. Prepara le valige, arriva al ministero, vuole capire cosa stia succedendo, ma il suo vecchio amico, il figlio del prefetto, che è già dirigente generale, beato lui, non ha tempo per riceverlo. È davvero impegnato, dicono. Forse sta giocando a tennis. Il commissario allora torna in questura, aspetta, poi scende di nuovo a Roma, niente, il figlio del prefetto è ancora impegnato, anche oggi, e allora tornerò. Il commissario sta preparando le valige, di nuovo, quando il questore entra in ufficio. Piange. Ma cos’è successo? Lascia stare, un disastro. Ma mi dica. Un massacro, guarda, sangue dappertutto, una tragedia, e qualcuno ha messo in giro la voce che l’ordine l’avrei dato io. Ma come lei? È impossibile. È quello che dico anch’io; e poi avrei dato l’ordine via radio, suvvia, e ci credono tutti, come allocchi, solo perché sono sparite le bobine di registrazione. E allora il ragazzo, non più ragazzo ma commissario, invero non più commissario ma vicario, lo dice. Signor questore, dice, me la prendo io la colpa! E quello si illumina. Ma davvero lo farebbe? Certo, dice il vicario. Bene, allora è deciso. Chiamano Roma, passa un attimo, un battito di ciglia, e il commissario non è più vicario.
È davvero molto piacevole essere questore. Nessuno ti dice più cosa fare – da una parte – ma dall’altra non hai più niente da fare. Il tempo libero, in qualche modo, va riempito, così il questore chiama il suo amico, il figlio del prefetto, che è prefetto già da un po’ (sarebbe così bello diventare prefetto, pensa il questore), lo chiama, e l’ex figlio del prefetto questa volta alza la cornetta, perché il ragazzo adesso è un questore, perciò bisogna rispondere. Come va? chiede il questore. Bene, dice il prefetto, che sembra ieri quand’era solo figlio di un prefetto, ma adesso devo andare, dice, mi aspetta il procuratore capo, che dobbiamo giocare a tennis. Avrei dovuto giocare a tennis anch’io, pensa il ragazzo, che ragazzo più non è, e nemmeno commissario, e nemmeno vicario, è un questore adesso, e stanno bussando alla porta. Che è successo? C’è un giovane commissario, dice il vicario, e questo giovane commissario ha espulso uno straniero. E allora, chiede il questore, che problema c’è? Ecco, dice il vicario, lo straniero in realtà sembrava straniero, ma non era proprio straniero, sebbene un po’ colorato, era piuttosto un cittadino italiano. Fallo entrare, dice il questore, e il giovane commissario entra.
Il questore lo guarda, il telefono sta già squillando, è di sicuro il ministero, avranno saputo della faccenda, saranno incazzati. Ma possono aspettare. Il questore fa segno al commissario di avvicinarsi, glielo fa con la mano. Intanto lo studia: è parecchio abbacchiato, si muove lento e tiene il muso.
Il questore lo insulta un po’, imbastisce una mezza sceneggiata, finge di arrabbiarsi. Il telefono intanto continua a squillare e il giovane commissario resta in piedi, muto, davanti alla scrivania, come un bambino pentito. Ma il questore, a metà della sfuriata, si stanca, smette, sorride al commissario. Non ti preoccupare, dice, che mettiamo tutto apposto. Il telefono sta ancora squillando e il commissario alza la testa, un accenno, come per capire il destino che lo attende. Sai una cosa? dice invece il questore, ma poi non continua, si prende una pausa, sta pensando alla scritta sull’architrave, alla patria, ai suoi figli migliori, a come li educa. Torna con la memoria a ciò che di buono ha fatto nella sua carriera, e non è stato semplice, si è guadagnato tutto da solo. Ripensa al paese, alla mentalità sbagliata che avevano tutti, ma non lui, lui vedeva lontano. E poi l’università, scrivere la tesi, il concorso; la scuola di polizia e quella gente fastidiosa, e il suo amico, un amico vero, un’amicizia disinteressata, e poi la prima destinazione, i tanti incarichi, le sfide nella gestione del personale, indagare, essere ogni volta sul pezzo, come un vero investigatore. Sono stato davvero bravo, pensa, non era facile, ma sono stato davvero bravo. Poi torna a guardare il commissario, lo congeda senza aggiungere nulla, ma quando è uscito si rivolge al vicario. Il ragazzo si farà, dice.
Intanto il telefono squilla e lui sfiora la cornetta con le dita. Magari mi sbaglio, aggiunge, ma secondo me diventerà questore.
Poi risponde al telefono.
Il figlio migliore della patria
di Michele Frisia
Questo articolo è stato pubblicato in numero 30 e ha le etichette Crime. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.