Queste pagine nascono già come un’ipocrisia. Tutti coloro che scrivono un diario sono ipocriti e bugiardi: affidano a un amico intimo un segreto, un segreto che vorrebbero fosse rivelato al mondo. E voi siete lì, altrettanto ipocriti, con una mano sugli occhi e le dita a siparietto per tentare di spiare. Volete proprio sapere perché uccido? Prima dobbiamo fare un passo indietro, e partire dalle aragoste.
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Non vedeva suo fratello esattamente da un anno. Stava tornando a Napoli per le vacanze di Natale. Il questore si era voluto a tutti i costi liberare di lui almeno per quel periodo di feste. «Fammi un favore Matteo, prenditi una settimana di ferie e occupati d’altro.» Ma Matteo non sapeva più cosa volesse dire occuparsi d’altro. Mise un paio di jeans, due felpe e un po’ di biancheria nel borsone marrone di cuoio, quello che usava per andare a jujitsu, e si preparò una caffettiera da tre tazze. Al mattino si imbottiva di caffè, somministrandosene diverse dosi fino a mezzogiorno. Poi la caffeina lavorava come un volano nei vasi sanguigni per il resto della giornata. Nel corridoio si fermò davanti all’anticamera. Aprì il cassetto del mobile di legno e osservò la sua pistola d’ordinanza. Mica doveva usarla, però nella vita non si sa mai. La infilò in fondo alla borsa. Uscì di casa, il vento gelido che proveniva dalla Costiera della Mendola lo svegliò definitivamente. All’edicola comprò due biglietti per il tram. L’aria odorava di neve. Lo sguardo gli cadde sull’«Alto Adige». Coppia scomparsa. Auto rubate. Terroristi. Tredicenne uccisa in modo impietoso. Si fece violenza per non comprare il giornale e rituffarsi con la mente nelle indagini. Prese il tram, salì sul treno e si accomodò sul sedile accanto al finestrino, il borsone di cuoio sotto i piedi. Tirò fuori L’uomo che guardava passare i treni, uno dei romanzi duri di Simenon. I suoi preferiti, quelli dove non si giudicava nessuno, persino chi aveva commesso il crimine. Soprattutto chi lo aveva commesso: l’esperienza gli aveva insegnato che le circostanze possono essere più forti di qualsiasi vocazione antropologica.
Il treno era mezzo vuoto, i castelli, le valli, le montagne, il fiume si abbandonavano alla sua sinistra. Un panorama fatto di chiusure, fortificazioni, confini. Eppure, quel luogo gli sarebbe mancato, anche solo per una settimana. Quel luogo lo aveva accolto, e lo rappresentava.
Arrivò a Napoli nelle prime ore del pomeriggio. Suo fratello Andrea lo aspettava appena fuori dalla stazione centrale. Matteo gli aveva detto di non disturbarsi, che avrebbe volentieri fatto quattro passi a piedi per respirare l’aria di salsedine. «Ma quale disturbo, e poi sarà almeno un’ora di cammino» gli aveva risposto Andrea al telefono. Così eccolo qua, a sbracciarsi dalla macchina lasciata selvaggiamente in tripla fila, gridando «Matteooo, Matteooo». E Matteo represse un moto di fastidio per non potersi sgranchire le gambe e doversi infilare subito nella Panda accidentata. Avrebbe voluto dargli una virile stretta di mano, ma Andrea si avvicinò abbracciandolo e baciandolo.
«Dai qua.» Era sudaticcio. Come al solito, anche d’inverno. Gli prese la borsa di mano, e la mise nel portabagagli. Matteo visualizzava mentalmente la sua Beretta 98FS all’interno della borsa. Soffriva sempre quando non poteva tenerla a vista. Andrea guidava in modo scomposto, una mano sulla frolla, l’altra fuori dal finestrino, il volante in mezzo alle gambe.
«Prendi prendi, stanno là dietro» disse, indicando il cartone con le paste. «Marò, mica ho mangiato per fare in tempo a venire a prenderti» aggiunse.
Matteo dovette mordersi la lingua per non fargli notare che gli aveva suggerito di non venire infatti, e che i pasti saltati sono l’alibi più scontato di chi si ingozza di dolci. Con mezza giornata di viaggio era approdato in un altro continente, un budello fatto di viuzze strette, vicoli ciechi, botteghe antiche, statue di santi sottovuoto in edicole di plastica, Maradona affrescato in ogni dove, opulente chiese barocche fatiscenti, grida di pescivendoli, balconi drappeggiati di panni stesi ad asciugare, guardie e ladri a condividere lo stesso rione. Andrea viveva nello stesso stabile di loro madre. Una palazzina che odorava di grotta, senza ascensore e dalle pareti scrostate. Salirono a piedi le due rampe di scale umide. Andrea girò un’infinità di serrature. Sua madre era lì, seduta sulla poltrona in pelle davanti alla televisione. Doveva essere rimasta in quella posizione per tutto il tempo, dal Natale scorso. Quando si chinò sulla guancia per baciarla, gli sembrò una signora anziana, di quelle che si vedono ai servizi del Tg o agli ospizi.
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Per la cottura dell’aragosta (da non confondersi con l’astice per via della mancanza delle chele), ci sono diverse teorie. Anzi: due diverse scuole di pensiero che si scontrano. Gli chef più radicali – qualcuno li chiamerebbe spietati – le infilano vive nell’acqua bollente. I seguaci di questa pratica da santa inquisizione sostengono che il crostaceo non avverte il dolore in quanto privo del sistema nervoso. E che questo metodo concorre a presentare ai commensali una carne morbida e freschissima. Vi assicuro che è tutto vero. Ma, avete mai assistito all’urlo impietoso, al fischio straziante del crostaceo che si dimena tra le pareti d’acciaio, mentre indifeso (dicevo appunto che è privo delle grandi chele) muore bruciato vivo, per soddisfare il palato di gente pretenziosamente raffinata?
Nonostante questa fine impietosa, dovete sapere che il crostaceo potrebbe vivere teoricamente all’infinito: il suo DNA, infatti, non invecchia mai. Ma le malattie, la sfortuna, e la malvagità dell’uomo ne minacciano l’immortalità e la sopravvivenza come specie. Allo stesso modo anche il mio DNA, all’età di tredici anni, ha deciso di congelarsi nell’immortalità. I miei compagni di classe si allungavano come sequoie, ai ragazzi spuntavano baffetti come aculei di porcospino, alle ragazze si gonfiavano le magliette. Ma io, rimanevo identico a me stesso. Imberbe. Condannato all’asticella del metro e cinquanta. Un viso da angelo che suscitava solo tenerezza. E con la tenerezza, scoprivo amaramente, non si governa il mondo, né si spogliano le compagne di scuola. Angela fu la prima ragazzina a dirmi di no, che sembravo un bambino nonostante avessi sedici anni. L’avevo conosciuta alla biblioteca comunale di Baggio, lei faceva la terza media, io la seconda superiore. Zena fu l’ultima ragazza a rifiutarmi. Anche lei frequentava la terza media, e l’abbordai facilmente, dato il mio aspetto da tredicenne, anche se di anni ne avevo già quaranta e facevo il cuoco.
Avete già deciso di condannarmi? Pensate sia un pedofilo? Vedete, da un punto di vista prettamente anagrafico avete certamente ragione. Ma la mia pelle è rimasta rosa e liscia, il mio viso non ha subito le trasformazioni del tempo, non si è solcato delle rughe delle esperienze. Soprattutto, dentro. Il tempo è scivolato via sul mio viso, sul mio corpo e sui polmoni lasciandoli immutati. E il mio cuore è sempre riuscito a battere solo per il viso di velluto di una ragazzina, per gli occhi innocenti di una bambinetta con jeans attillati che le fasciano un perfetto culo a pesca, per delle manine piccole senza unghie che immagino accarezzarmi.
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Il giorno dopo Matteo e Andrea andarono a fare la spesa al mercato. Salame, pecorino, uova, strutto, pomodorini, polpo. Per ogni ingrediente Andrea si fermava alla bancarella a chiederne il prezzo, sincerarsi della qualità e della freschezza dei prodotti. Molti commercianti lo conoscevano, lo chiamavano per nome. Matteo non capiva il motivo di quelle indagini, si immaginava che lo stesso teatrino dovesse ripetersi ogni mattina. Cercava di accennare un sorriso, commentava qualche prezzo, il profumo di qualche verdura, ma istintivamente la sua mano ritornava al cellulare per controllare se ci fossero delle emergenze dalla questura, o se fossero arrivati i risultati dell’autopsia sulla ragazzina.
Tornarono a casa. A mezzogiorno li raggiunse la fidanzata di Andrea. Antonella era una ragazzona di quarantotto anni, i capelli da medusa che amava ravviare spesso (a Matteo parve in realtà che fosse un tic per dissimulare un certo disagio. Si domandava anche se il disagio fosse causato dalla sua presenza). Era il 23, e stavano già avviando i preparativi per il venticinque. Il pranzo natalizio era un concetto metafisico che si estendeva per almeno una settimana. Per di più, dato che Matteo si sarebbe fermato solo pochi giorni, i suoi familiari avevano deciso di accorpare Natale e Pasqua in un unico banchetto. Sua madre aprì il frigo e ne estrasse un grande capretto, lo sollevò e lo rimirò come un neonato. Poi prese a lavorare la marinatura. Andrea cominciava la preparazione del casatiello e Antonella del polpo alla Luciana. Matteo visualizzava le sue insalatone e i suoi panini mangiati in piedi a casa, o alla mensa della questura in pochi minuti. Si sentiva come una slavina franata su un costone, la rincorsa a valle interrotta brutalmente.
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Dicevo che iniziai la mia carriera da cuoco da grande. Ovvio. Con la mia faccia da bambino avrei potuto cercare solo un lavoro dietro le quinte, in solitaria, e lontano dal pubblico. A vent’anni fui preso in un ristorante di pesce di Milano. Un luogo pretenziosamente elegante, acquattato dietro la Scala. Imparai a far rinvenire pesce e frutti di mare, usando spezie e tecniche di decongelamento rapido, per i palati sciatti di turisti stranieri. Ma soprattutto, divenni il Maestro dei piatti a base di crostacei. E lì scoprii la natura dell’aragosta. Il suo potenziale vivere all’infinito, la sua prigionia nell’acquario, un’isola di vetro dove poteva sopravvivere ma non crescere, il suo immolarsi per la causa. Osservavo il crostaceo e mi riflettevo. Lo afferravo dalla vasca, mi avviavo verso i grandi fornelli e lo immergevo nel pentolone bollente. Un fischio di treno, l’animale che si dimenava nell’acqua gorgogliante. Pochi istanti e poi la morte. Il sacrificio, le zampettine spezzate, la polpa che fuoriusciva, pronta a mescolarsi con un sugo rosso sangue.
In poco tempo feci carriera, diventai capo cuoco, e a soli ventott’anni riuscii ad aprire un ristorante tutto mio. Il re dell’aragosta. Mettere da parte i soldi non fu la cosa più difficile. Quanto, ogni volta, dover superare i risolini, le gomitate, le battute bofonchiate negli incavi delle mani tra gli impiegati di banca, i commercialisti, i notai. Ma riuscii ad aprire l’attività e in due anni la popolarità del ristorante si espanse, prima in tutta la città, poi nella regione, e infine, per tutta la penisola.
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Matteo guardava i gesti lenti, infinitamente lenti, di suo fratello, i cubetti di pecorino e salame tagliati con minuzia chirurgica, tutti squadrati e della stessa dimensione.
«Com’era il tempo?» chiese sua madre.
«Il solito. Freddo.»
Sua madre prese a sbucciare le patate da accompagnare al capretto. Ne preparava sempre una montagna infinita, l’esperienza le aveva insegnato che non sarebbero state mai abbastanza.
«Ma mi sono abituato.»
«Eh, vabbè.»
«Non so come fai» commentò suo fratello con un risolino.
Matteo alzò lo sguardo dal bicchiere di vino che sorseggiava, più per tenere le mani impegnate che per voglia di bere. Una nuvola di risposte acide prese a gonfiargli il petto. Voleva rispondere, IO non so come TU fai… ma era Natale, c’era sua madre, e si sarebbe trattenuto.
«Ci si abitua a tutto» disse, pensando che fosse una risposta accettabile per entrambi.
Antonella prese il telecomando e alzò il volume.
«Masterchef, finalmente. È una settimana che aspetto.»
«Hai visto che l’ultima volta è uscita quell’antipatica di Luana?» commentò sua madre.
«La teng’ in coppa o stommaco. Manco era brava a cucinare. E biasimava sempre gli altri» precisò Antonella.
«Però gli chef sono mitici. Sempre la battuta pronta.» Anche Andrea guardava sempre il programma. Matteo sentì il cellulare vibrare in tasca. Finalmente qualcosa che lo riagganciava alla sua vita, qualcosa di utile, concreto. Era un messaggio da parte del medico legale.
La ragazzina è morta per annegamento. Però prima deve avere sofferto moltissimo per le ustioni in tutto il corpo.
Grazie Alberto.
Andrea mise l’impasto nello stampo, con movimenti da chirurgo. Sua madre stava alimentando la montagnetta di patate, Antonella scottava il polpo nell’acqua bollente per fare arricciare i tentacoli. Tutti ipnotizzati davanti alla battaglia degli aspiranti chef alla tv. Matteo osservava silenzioso i minuziosi preparativi per la cena e per i pasti dei giorni successivi mentre ripassava mentalmente il verbale di sopralluogo, i risultati della Scientifica, le poche, esigue, scarne dichiarazioni rilasciate dalle extracomunitarie che lavoravano in nero per una ditta di pulizie. Sfilò dalla tasca dei jeans il telefonino. Anticipava mentalmente le telefonate in questura, la lettura delle e-mail.
Andrea fece esplodere una bottiglia di spumante. Matteo portò istintivamente la mano alla fondina vuota della pistola.
«Cazzo, Andrea!»
«Eh, mamma mia, ispettore» disse Antonella. Sollevò il coperchio del tegame di terracotta per controllare la rosolatura del polpo. «Manco avesse sparato a qualcuno.»
Ma erano tutti concentrati a seguire l’ultima sfida degli aspiranti chef: cucinare l’aragosta presentando un piatto che parlasse del loro trascorso.
«C’è bisogno di sparare per fare del male a qualcuno?» domandò nell’aria Matteo. Era Natale, si sarebbe trattenuto.
«E fatti na’ risata» esclamò Antonella, con lo sguardo a metà strada tra lui e lo schermo.
La gamba di Matteo dondolava nervosamente. Il display del cellulare notificò cinque e-mail in arrivo e una chiamata persa dalla questura.
«Come se ci fosse sempre qualcosa per cui ridere.»
«Madonna mia» replicò piccata, ravviandosi più volte i capelli.
«Madonna che?»
«È l’antivigilia.»
«L’anti… allora, capisco Natale, Santo Stefano, la Vigilia. Ma, l’anti-vigilia? Di cosa stiamo parlando esattamente?»
«Oh ma che cazz t’avimm’… che t’abbiamo fatto noi» la voce uscì fuori incrinata.
«E dai» tentò di mediare Andrea.
Sua madre si avvicinò ai fornelli. Scoperchiò il tegame.
«Antonè… il polpo… vieni a controllare?»
Antonella si alzò, la camminata impettita. Guardò il polpo. Matteo. Il polpo.
«O purpo se coce int’ all’acqua soja.»
Matteo abbassò gli occhi sul telefonino. La chiamata persa era del questore. Le e-mail confermavano la stessa procedura da parte dell’assassino. Nei tabulati telefonici risultavano messaggi da parte di una sim estera. Le ragazzine venivano invitate a pranzo e poi venivano bollite vive nella vasca da bagno.
«Cosa mi avete fatto? Nulla. Appunto. Mi avete chiesto di scendere giù qualche giorno prima. Ma lo sapete che c’è un serial killer che uccide delle ragazzine di tredici anni?»
«Lo so, lo so. Ma noi che possiamo farci?» domandò suo fratello.
«Già. E certo. E che possiamo farci noi. Sempre tutti a scaricarsi dalle responsabilità, a pulirsi la coscienza ben bene.»
«Senti chi ha parlato di responsabilità» disse Andrea.
I quattro rimasero muti e rossi davanti al presentatore che annunciava l’arrivo di un ospite illustre, tre stelle Michelin.
«Dai. È quasi Natale» implorò loro madre. Andrea si alzò per controllare il casatiello che era già dorato. Poi si girò verso il fratello.
«Te ne sei andato. Mi devo occupare di tutto io. La casa, la mamma, l’affitto, le cure mediche. Vieni qui solo per le feste comandate e non riesci neanche a goderti quelle. È Natale, ecchecazzo!» Aprì lo sportello del forno, si infilò i guanti di gomma, estrasse fuori lo stampo, e richiuse con una sportellata violenta. Sua madre si era riaccucciata sulla poltrona, nella stessa eterna posizione. Antonella riprese a imburrare nervosamente le tartine di salmone, sfondando il pancarrè. Gli aspiranti chef applaudirono l’ospite stellato.
«Appunto, è Natale. E la gente muore. E io dovrei fare il mio lavoro.»
I quattro affondarono ancora nel riverbero della televisione.
«Ma non puoi sempre e solo lavorare.»
«E chi lo dice che non devo solo lavorare? Tu? Già…»
«Già che?»
«Lasciamo stare.»
«No, non lasciamo stare. Già che?»
Matteo guardò in giro per il soggiorno dove era cresciuto in cerca di appigli. Ma lo sguardo scivolava dappertutto.
«Potevi fare l’avvocato. Avresti potuto… avresti potuto difendere innocenti, mandare in galera criminali.»
«Ma perché, insegnare ai ragazzini non è importante? Bella considerazione che hai di tuo fratello.» La testa rivolta verso il vetro del forno. Il cellulare riprese a vibrare nella tasca di Matteo.
Antonella spense la fiamma sotto al tegame: «Il polpo si deve cuocere dentro la sua acqua».
«Rispondi va’. È più importante della tua famiglia» concluse amaramente Andrea.
Matteo rispose. In quel momento non ebbe dubbi su cosa fosse più importante. Infilò la porta, fece cenno a sua madre che usciva.
***
A trentacinque anni avevo raggiunto successo, soldi, fama e popolarità. Mi invitavano nei salotti televisivi, alle inaugurazioni di ristoranti e centri commerciali. Eppure, mancava qualcosa. Eppure, se non fosse stato per puttane pagate profumatamente, non avrei potuto neanche soddisfare qualche desiderio carnale. Ma queste more, bionde, rosse, italiane, straniere, si alternavano in messinscena tristi e ridicole. Anche loro dovevano trattenere a forza una risata, alcune non volevano credere alla mia età fino a quando non mostravo loro un documento, altre semplicemente volevano centinaia di euro in più. Solo perché gli sembrava di scoparsi un bambino e dovevano mettere doppiamente a tacere la loro coscienza. Nonostante questi palliativi, la mia attrazione viscerale rimaneva sempre rivolta al mio corrispettivo femminile. Un corpo e un viso che corrispondevano alla mia età estetica. Passeggiavo per le vie di Milano innamorandomi sempre e solo delle tredicenni. Provai anche a entrare nei locali frequentati normalmente dai miei coetanei, ma quei gesti studiati, quelle tattiche predatorie di ancheggiamenti e drink offerti al bancone, quegli atteggiamenti da divi da avanspettacolo mi lasciavano la tristezza nel cuore. Una sera, davanti a una discoteca caraibica chiamata Iguana, rischiai di accoltellare il buttafuori perché non voleva farmi entrare (non mi separo mai dal mio coltello sashimi). Mi rintanai nella solitudine della cucina del mio ristorante, con l’anima intrisa di frustrazione per il costante desiderio di quelle che vedevo come mie coetanee, ma che coetanee non erano. E così, dato che non potevo averle, decisi di eliminarle. In un anno uccisi dieci tredicenni nel territorio italiano. E scoprii il fascino della morte.
Se le esistenze sono ordinarie e banali, scontate fino alla nausea, la morte è sempre straordinaria, irriproducibile. Impossibile prevedere la reazione alla lama del coltello affilato, anticipare il guizzo negli occhi di una vittima a un passo dalla fine, il coraggio o la rinuncia. Per quanto mi sforzi di anticipare mentalmente le immagini, la realtà non vi trova mai una perfetta sovrapposizione. È questa imperfezione a tenermi vivo, a eccitarmi, a tenere desta la mia attenzione. La transizione tra la vita e la morte è l’unico momento di un’esistenza a essere autentico, originale, imprevedibile.
La tecnologia mi aiutò moltissimo. Riuscivo ad allacciare facilmente rapporti virtuali. Le ragazzine credono a tutto. Messaggio dopo messaggio imparavo a conoscerle e al momento giusto promettevo ciò che più desideravano. In cambio, avrebbero solo dovuto accettare un invito a pranzo. Con la scusa dei genitori fuori porta, le invitavo a casa. Ogni incontro mi costava una fortuna. Una sim e un telefono nuovi comprati dall’estero, un documento fasullo richiesto al giro degli albanesi, una casa pagata in contanti il triplo, pur di garantire l’anonimato.
Mentre le ragazzine affondavano i canini nell’hamburger, assaporandolo come fosse il piatto più prelibato che avessi cucinato in vita mia, io percepivo nel mio palato tutta la succosità, il sapore selvatico della carne e del sangue e il sentimento di rivalsa. Poi mi avvicinavo con la scusa di dare un bacio sulla guancia, e tappavo loro la bocca con il nastro adesivo grigio.
Quando legavo loro le braccia, gli occhi si ingrandivano prima in un’espressione di incredulità, poi di stupore, infine, una volta sfilettati jeans e camicetta con il mio coltello sashimi, di terrore. Preparavo un battuto di aglio, prezzemolo, limone e pepe nero con cui cospargerle. Rimanevano in piedi, nude e odoranti di spezie, gli occhi sbarrati, la pelle luccicante di olio di oliva. Le annusavo. La mia bocca grondava saliva. Avrei potuto fermarmi lì, ma avete mai rinunciato all’estasi quando siete a un passo dal toccarla? All’incanto dell’odore della pelle nelle narici quando lo stomaco si contrae per lo struggimento della fame?
Riempivo la vasca di acqua ustionante. Ci aggiungevo pentolate di acqua bollente. Infilavo i guanti di gomma. Afferravo le ragazzine e le immergevo in acqua. A differenza dell’aragosta non potevano fischiare. La pelle diventava rosea, poi rossa, gli occhi opachi. Poi schiacciavo sott’acqua la testa, le loro esili braccia, spingevo le lunghe gambe magre contro il pavimento della vasca, fino a quando tutto si acquietava. Infine, mi liberavo.
***
Attraversò le vie del rione col cellulare appicciato all’orecchio. Non c’era nessun indizio, nessuna pista. Sulla scena del crimine erano state trovate solo le impronte della filippina che aveva pulito la casa. L’ispettore camminava veloce, registrando distrattamente innumerevoli contravvenzioni, cogliendo furtivi scambi di soldi e droga, un furtarello, poca cosa. Continuava a rimuginare, su suo fratello, sulle indagini, sulle sue ragioni. Aveva una missione lui. Non si fa il poliziotto, lo si è, ogni minuto, con o senza divisa, distintivo, pistola, dentro e fuori la questura, con o senza indagini in corso. O lo sei o non lo sei, niente mezze misure. Nessuno lo aveva obbligato a fare quella scelta, a vivere quella vita. Suo fratello aveva deciso di fare il professore alle scuole medie. D’accordo, niente da eccepire. Ma quello era un lavoro che potevi accendere e spegnere a piacimento. Finivi le tue ore e chiudevi con la tua mansione. Ma il poliziotto no. Era una scelta di vita. Come un cardinale.
Arrivò fino al porto. Nuvole grigie gravavano su enormi traghetti e navi cargo, puzza di gasolio e pesce marcio impregnava l’aria. Ma chi lo aveva detto che a Napoli c’era sempre il sole? Avrebbe tanto voluto salire su una nave e tornarsene a casa sua.
Il cellulare prese a vibrare in tasca.
«Ma’…»
«Dove sei?»
«Al porto.»
«Compri un po’ di pane?»
«Va bene, ma’.»
«Quando torni?»
«Tra poco.»
«Vabbè.»
Sentì un piccolo morso al cuore per i sensi di colpa. Ma le domande sul tempo, il pane, la spesa, la tavola, la televisione, tutti questi dettagli continuavano a ronzargli fastidiosamente in testa. Lui stava inseguendo uno spietato assassino, cercando di assemblare le tessere di un puzzle complicato. Per farlo doveva mettere in campo diverse abilità, conoscenze tecniche e scientifiche, usare l’intuito, la psicologia, la creatività e il raziocinio. Anni di studio alle spalle. E comunque non bastava. Possibile che a nessuno dei suoi familiari importasse tutto questo? Che di fronte alla tragedia, ma anche alla magnificenza della morte, solo perché era lontana qualche chilometro dal loro centro gravitazionale, ritenessero più importante seguire degli idioti in televisione? Possibile che nessuno gli domandasse niente sulle investigazioni, sul magico mondo forense, fatto di tecniche e di intuizioni?
***
La vita ti delude sempre, la morte mai. Esagero? Fatemi un favore e provate a ripercorrere la vostra vita. Rammentate un traguardo, la conquista di una laurea, un posto di lavoro, il matrimonio con il vostro amore? Vi ricordate i castelli costruiti nella mente? L’adrenalina che vi scorreva nelle vene, la pulsione che vi teneva svegli e vi faceva fantasticare sul futuro? E ricordate, una volta raggiunto questo traguardo, una volta afferrato il premio con le mani e realizzato il sogno, che cosa è successo? Superato quell’attimo di autocelebrazione, il tritacarne della normalità ha cominciato a maciullare tutti i traguardi che componevano l’ideale della vostra vita, e senza accorgervene siete rimasti schiacciati ancora nella prosaica routine di tutti i giorni. E per sentirvi ancora vivi, per dare il colpo di reni e sollevarvi dalla noia, provare ancora l’adrenalina, cosa avete fatto? Avete dovuto costruirne un altro di ideale, spostare l’asticella, stabilire altri traguardi, fabbricare altri sogni.
Ecco perché una morte non è abbastanza. Perché dopo che mi sono girato e rigirato quelle immagini in testa, evaporano e io, per non svanire insieme a loro, per sentire ancora il sangue pulsare nelle vene, per avere un motivo solo per alzarmi dal letto, ho bisogno di un’altra scena, un’altra fantasia, un altro sogno. Un’altra morte.
***
Si avviò verso casa. Continuava a rimuginare su tutto, alla rinfusa, alle sicurezze quotidiane di suo fratello, la spesa al mercato, la scuola, il rione, la televisione, le ragazzine uccise, bollite vive, bollite, la spesa, il cibo, il polpo, gli elastici. Passò davanti alla scuola media dove insegnava suo fratello. Come si fa a uccidere una ragazzina di tredici anni? E perché? E perché bollirla viva?
Suonò il citofono. Salì le due rampe di scale umide ed entrò in casa. La televisione riverberava fin dal fondo al corridoio. Sullo schermo uno chef basso, con la faccia da bambino, un caschetto biondo e due occhi neri come il diavolo, stava parlando di fronte alla telecamera.
«Per preparare delle aragoste deliziose, affinché le carni risultino il più tenere possibili, è necessario bollirle vive.»