23.12.1989
di Diego De Bellis

A Milano piove da tre giorni. Le spazzole fanno rumore di gomma consumata e di pezzi meccanici su quel vetro della 127. Guido pensa che sia arrivato il momento di cambiarle. È in fila per entrare nel parcheggio interno della questura in via Fatebenefratelli e adesso sente l’odore dei tubi di scarico dell’Alfa 33 che lo precede. È il suo turno, accelera, il piantone lo saluta abbassando il capo, fa una svolta a sinistra e ferma l’auto nel primo posto libero sulla destra. Si guarda attorno, poi da sotto la borsa in pelle, appoggiata sul sedile del passeggero, afferra «l’Unità», lo arrotola e lo infila nel portaoggetti. Prende il «Corriere», lo appoggia sul volante e legge di nuovo il titolo in prima pagina: «Ceausescu deposto, la Romania è libera».
Passa veloce nei corridoi della questura fino a che non entra nel suo ufficio. Appoggia il giornale sulla scrivania, la borsa ai piedi della sedia e subito dopo entra il vice ispettore Romani nella stanza.
«Commissario, una squadra di vigili del fuoco ci ha chiamato da uno stabile in via Solferino. Hanno trovato il corpo di una donna.»
Guido stringe la fronte e prende posto alla scrivania. «Via Solferino?» 
«Confermo.» 
«Non ci sono omicidi in via Solferino.»
«Ne so quanto lei.»
Guido osserva fuori dalla finestra alla sua sinistra che dà sul palazzo di fronte, dall’altra parte della strada. La pioggia sta aumentando di intensità e scivola veloce sul vetro. Sospira, annuisce e si alza dalla sedia.

Partono dalla questura con due auto a sirene spiegate e in cinque minuti sono al civico trentaquattro. La camionetta dei vigili del fuoco ancora blocca la strada nell’altro senso di marcia. Un’ambulanza è già lì davanti, e riconosce a poca distanza l’Alfa Giulietta del medico legale. Guido apre la portiera, infila le mani nella giacca grigia e alza la testa. Sospira, controlla di nuovo il civico, legge i nomi sul citofono esterno, fa scorrere il dito su questi e poi si decide a entrare. Romani fa strada, prende le scale e lo porta fino al terzo piano. Sul pianerottolo trovano la squadra dei vigili del fuoco e una signora. Guido chiede a Romani di interrogarli, poi ordina di liberare il passaggio, al che intravede l’interno della casa e si appoggia con una mano allo stipite della porta. Sospira di nuovo, abbassa la testa e si decide a entrare.
Nel soggiorno c’è una donna bionda seduta su un divano in pelle marrone scuro, la testa appoggiata sullo schienale e avvolta in una busta di plastica. È vestita con un maglione nero di lana e dei pantaloni di cotone stretti sulla caviglia, da cui fuoriescono delle calze nere che le avvolgono i piedi, appoggiati su un grande e spesso tappeto di stoffa rosso. Guido si avvicina e si protende verso il corpo. Guarda il volto e scuote la testa.
«Lo so. Chi è che decide di suicidarsi in questo modo?» dice il medico legale, che poi solleva la macchina fotografica e scatta un’altra foto.
Guido rimane in silenzio. 
«Si capisce poco e nulla, ma sembra bellissima» continua il medico legale. 
«Così sembra» risponde Guido, che poi si rivolge al resto dei poliziotti nella sala. «Ok, iniziamo a setacciare la casa. Trovate documenti, foto e qualsiasi altro elemento utile.»
Il medico legale stringe la fronte, abbassa la fotocamera e si volta verso lui. «Guido, è suicidio.» 
«Non c’è bisogno che mi rispondi subito.» 
«Comunque il referto non te lo consegno prima del ventisette.»
«Come vuoi» risponde Guido, che poi indica il corpo della donna. «Controlla se ha avuto rapporti sessuali recentemente.»
Il medico legale annuisce. In quel momento arriva Romani.
«Abbiamo il nome della vittima. Silvia Verdin, originaria di Pordenone, inquilina della casa da più di tre anni. Era proprietaria di un negozio di abbigliamento in via Canonica. I vigili del fuoco sono intervenuti perché quella signora sul pianerottolo, nonché vicina di casa, aveva sentito odore di gas. Ha provato a bussare alla Verdin, che non le ha risposto, così ha chiamato i pompieri, che hanno forzato la porta dell’appartamento e hanno trovato il corpo.»
«E la perdita di gas?» 
«La vittima aveva lasciato aperti i fornelli del piano cottura.» 
«Finestre e portone di casa?» 
«I vigili del fuoco assicurano che niente è stato manomesso o forzato.»
«Quindi si è avvolta la testa con una busta di plastica che ha legato intorno collo. Tuttavia, prima di uccidersi aveva anche organizzato di farsi saltare in aria.»
«Così pare, commissario.»
In quel momento il pm entra nella stanza. Guido stringe le sopracciglia e si volta verso Romani, che a sua volta scuote la testa. Ha i capelli brizzolati, delle occhiaie profonde e le guance scavate. Dopo un veloce confronto con Guido, gli risponde che non ha tempo da perdere dietro a un caso di sospetto suicidio. «Domani è la vigilia» aggiunge. Infine dispone la rimozione del corpo. Guido annuisce, poi chiede a Romani di essere riaccompagnato in questura.

Sono davanti alla scrivania in ufficio. Romani svuota il contenuto di una busta di plastica, appoggia un portafoglio e i documenti della Verdin. C’è anche un foglio di carta che hanno trovato sul tavolo: «Non esiste casa per i diseredati» c’è scritto.
«Commissario, perché lasciare un messaggio quando hai pianificato di far saltare in aria la casa?»
«Non saprei. Forse per lasciare qualcosa proprio nel caso in cui non fosse saltata in aria?»
Romani annuisce e arriccia le labbra. 
«Commissario, ma secondo lei era un’emarginata la Verdin?» 
«Dipende.» 
«Da che cosa? Perché aveva un negozio, una casa di proprietà. Era bella. Vista da
fuori, non sembra una diseredata.» 
«No, non sembra. Ma dobbiamo fidarci di ciò che ha lasciato scritto.» 
«Però perché farlo? Delusione d’amore? Potrebbe essere plausibile, no? Aveva
trentatré anni, era nubile e senza figli.» 
«Non essere sposati non significa essere soli.» 
«Ma nessuno si è ancora fatto vivo per lei.» 
«Per quanto ne sappiamo, potrebbe aver avuto un compagno che in questo momento
è al lavoro.» 
«Il giorno prima della vigilia?»
«Romani, noi siamo al lavoro.»
«Non abbiamo trovato nulla in casa che faccia supporre che la Verdin avesse una relazione stabile. Non uno spazzolino, una mutanda da uomo, un paio di calzini.»
«Non tutti hanno la necessità di condividere qualcosa.» 
«Il sesso? Non c’erano preservativi in casa.» 
«Alcune persone fanno sesso con le parole.» 
«Commissario, la Verdin era single» risponde il vice ispettore agitando le mani. Guido si appoggia alla scrivania e incrocia le braccia.
«Romani, avete tutti un po’ troppe certezze su questo caso. Sua moglie ha già iniziato a cucinare, vero?»
Romani abbassa la testa e schiarisce la voce. «Non toglie il fatto che quello sia un suicidio.»
«Lei quest’anno ha Natale?» incalza Guido.
Romani annuisce e rimane in silenzio.
«Allora si prenda un paio di giorni per pensarci su. Prima di tornare a casa, però, si faccia un giro al negozio in via Canonica e raccolga le dichiarazioni dei dipendenti della Verdin. Poi chiami in questura per trasferirle.»
Romani fa un cenno d’assenso e si avvia verso l’uscita. È sulla porta, ma lì si blocca, appoggia una mano sullo stipite e torna a voltarsi.
«Commissario, lei cosa fa ventiquattro e venticinque?» 
«Sono di turno. Ventisei a riposo.» 
Romani fa un respiro a metà, poi riprende a parlare.
«Il venticinque, se ha voglia di prendersi un paio d’ore, può venire a pranzo da noi.
Mia moglie cucina sempre per di più, lo sa.» 
Guido sorride con le labbra sigillate.
«Ci vediamo il ventisette.» 
Romani annuisce ed esce dalla stanza. Guido lo osserva allontanarsi. Poi torna alla
sedia, sposta gli oggetti della Verdin e prende il telefono in mano. 
«Sono Petraglia. Mi faccia avere il numero di telefono dell’ufficio anagrafe del comune di Pordenone. No, voglio occuparmene personalmente. Sì, prima possibile, grazie.»
Guido mette giù la chiamata. Poi prende in mano il portafoglio della Verdin. Lo gira davanti e dietro. Sembra una pochette. Lo apre, fa scorrere le dita tra le pieghe della pelle e poi lo annusa. Non ha odore e lui arriccia le labbra. Lo richiude e lo ripone nella busta di plastica, insieme al foglio di carta e al documento d’identità. Torna a osservare la finestra alla sua sinistra. Piove, continua a piovere a Milano.

Mezz’ora dopo sta parlando al telefono con un’impiegata del comune di Pordenone. Guido vuole sapere se ci sono dei genitori o dei parenti a cui notificare la notizia.
«Commissario, l’ufficio è praticamente vuoto.»
«Il motivo per cui il vostro ufficio oggi è vuoto, è lo stesso per cui, credo, quella famiglia ha tutto l’interesse a essere informata. Che ne pensa?»
Dall’altro capo del telefono, sente la donna schiarire la voce, ma rimanere in silenzio per diversi secondi. Guido, nel frattempo, si passa una mano sulla fronte, e poi la fa scendere sugli occhi fino a coprirli. Sente l’impiegata sospirare.
«La aggiorno, commissario.»
Guido annuisce e appoggia la cornetta. Si alza dalla sedia, infila il giaccone, prende la borsa, il «Corriere», la busta con le prove ed esce dalla stanza.
Nel corridoio incontra un poliziotto con ancora tutti i capelli in testa, un viso pulito e un sorriso senza difese. Gli consegna la busta di plastica e gli chiede di redigere l’inventario delle prove raccolte. Poi si avvia verso l’uscita.

Guido procede veloce tra le vie della città. Adesso il cielo è limpido, la foschia si è diradata, e il buio è illuminato dai lampioni accesi e dalle luminarie sospese in aria. I negozi sono addobbati e tutta la pioggia che è scesa si specchia in quei toni di giallo intermittenti. Sul vetro della sua 127 scorrono veloci e abbaglianti. Guido strizza gli occhi e continua a guidare tra un colpo di clacson e delle frenate brusche.
Fa un’ultima svolta a destra, poi riesce a trovare parcheggio a cento metri di distanza dal suo palazzo. Spegne l’auto, blocca lo sterzo, apre il portaoggetti e prende «l’Unità». Esce dall’auto e si dirige verso il portone di casa. Fa pochi passi e tira fuori le chiavi. È davanti al portone, quando sente una voce alle sue spalle.
«Li ha fatti girare a vuoto i suoi colleghi oggi?»
Guido si blocca con la chiave in mano. Posa la borsa per terra e si volta. Vede un uomo appoggiato sul cofano di una macchina parcheggiata di fronte all’entrata. Lo guarda in volto, ma non scorge nulla. Non sorride. Non appare neanche serio. È semplicemente lì, di fronte a lui, con un maglione grigio scuro con lo scollo a V da cui spunta una camicia bianca, chiuso da un lungo cappotto nero.
«Hanno capito che la conosceva?» chiede ancora quell’uomo.
Guido stringe la fronte e arriccia le labbra.
«Conoscevo chi?» 
L’uomo schiarisce la gola e aggiusta la seduta sul cofano dell’auto. Guido nota che ha tutti i capelli bianchi.
«Perché non mi offre un bicchiere?» chiede l’uomo.
Guido prende un lungo respiro e serra la mascella.
«La consiglio di fermarsi qua. Se no domani torno in questura e la faccio rivoltare
fino a che non scopro come si chiama e dove abita.» 
«Può chiedermi come mi chiamo.» 
«Ok, come si chiama?» 
L’uomo sorride sollevando un angolo della bocca. Poi il suo viso torna inespressivo,
ma gli occhi diventano morbidi. 
«Silvia le voleva bene.» 
Guido sospira e scuote la testa. Afferra la borsa e torna a osservare quell’uomo. Si volta e gira la chiave nel portone. Accede nell’atrio e lascia uno spiraglio aperto mantenendolo con un piede. L’uomo si alza dal cofano dell’auto ed entra.
Guido lo fa passare davanti a lui. Adesso è alle sue spalle e gli dice di andare al secondo piano. L’uomo inizia a fare le scale e poco dopo sono davanti al portone di casa. Guido lo apre con il corpo rivolto verso l’uomo. Poi gli fa cenno con la mano di entrare. Una volta dentro si chiude la porta alle spalle, poi con la mano con cui mantiene le chiavi accende la luce all’entrata. Gli dice che in fondo al corridoio c’è il salotto. Guido, invece, entra nella cucina alla sua destra. Dalla credenza prende un pacchetto di sigarette già aperto. Ne tira fuori una e l’accende con il fornello del gas. Fa il primo tiro, poi controlla che le quattro manopole del piano cottura siano ben chiuse.
Esce dalla cucina, si toglie la giacca e l’appende sull’attaccapanni all’entrata. Procede verso il salotto e lì vede che l’uomo si è seduto sulla poltrona posizionata sotto la finestra che dà sulla strada. Fa un altro tiro alla sigaretta e la stanza si riempie di fumo. Prende posto sul divano. Adesso sono uno di fronte all’altro.
«Come conosceva Silvia?» chiede Guido.
«Avevamo degli interessi in comune.» 
«Faccio fatica a comprendere che tipo di interessi avevate in comune.» 
«Silvia voleva rendere il mondo un luogo migliore.» 
Guido sorride e scuote di poco la testa. 
«Sa, stamane abbiamo interrogato le dipendenti del suo negozio in via Canonica. Tra
le varie cose, si sono lamentate degli stipendi troppo bassi.» 
L’uomo scoppia a ridere sommesso, con la bocca chiusa.
«Diciamo che eravamo rivolti verso campi d’interesse ben più ampi.» 
«Forse era proprio questo il vostro problema. Vi siete dimenticati che una vita dignitosa per tutti, avrebbe reso il mondo un luogo migliore. Un luogo in cui non senti la necessità di rivoltarti per ricominciare tutto da capo.»
«L’Italia è stata in rivolta fino a pochi anni fa. Eppure, state abbastanza bene.»
«Quando è morto Aldo Moro non ci sono state manifestazioni di gioia per strada.»
«Il supporto delle persone è silenzioso. Sa, invidio la vostra capacità di rimanere in
silenzio anche nei momenti peggiori.» 
«La gente è rimasta a casa in silenzio perché era sgomenta.» 
«Non tutti.» 
«Le assicuro che dopo rimasero in pochi. Ad esempio, io ho deciso di entrare in polizia nel giugno del Settantotto. Però, forse, questo già lo sapeva. Dico bene?»
«Potrei aver letto qualcosa a riguardo.» 
«E oltre a lei, chi potrebbe aver letto qualcosa a riguardo?» 
«Nessuno di cui debba più preoccuparsi.»
«Non saprei. Quando in Italia cambia il governo, tutti gli altri rimangono comunque al proprio posto.»
«Noi invece andremo in pensione entro la fine dell’anno.»
«Ne è proprio sicuro? Perché siete in tanti a fare il vostro lavoro. Anzi, troppi direi. Che forse è il motivo per cui la maggior parte delle persone, a casa vostra, non aveva una vita dignitosa. Come riuscirete ad andare tutti in pensione?»
«Non sarà diverso da quello che abbiamo già visto in passato. Ci sarà qualcuno che sarà d’accordo e altri un po’ meno.»
Guido stringe la fronte. 
«Silvia non era d’accordo, vero?» 
L’uomo rimane in silenzio, così Guido riprende a parlare. 
«E quindi ve ne siete occupati.» 
«No. Se n’è occupato il silenzio. Quando i telefoni squillano a vuoto per due giorni,
non è una bella sensazione, soprattutto per chi fa il nostro lavoro.» 
Guido fa l’ultimo tiro alla sigaretta, poi la spegne nel posacenere appoggiato sul
cuscino del divano.
«Quindi, cosa vuole?» 
L’uomo rimane in silenzio e il suo volto appare di nuovo imperturbabile.
«Posso avere una sigaretta?»
Guido annuisce, torna in cucina e ne prende due dal pacchetto che aveva appoggiato sul tavolo. Le accende sul piano cottura e torna in salotto. Ne porge una all’uomo e l’altra prende a fumarla lui. L’uomo fa un tiro profondo, che sembra non finire più. Chiude di poco gli occhi, poi stringe il pollice e l’indice sul naso ed espira.
«Ha una vaga idea di chi era Silvia?» 
«Forse è un po’ troppo vaga.» 
L’uomo fa un altro tiro, espira e riprende a parlare.
«Silvia era orfana. Ha sempre vissuto a Timișoara, in quelli che noi chiamiamo Istituti specializzati per l’accoglienza dei minori. Sa, sono delle strutture abbastanza complesse. Accolgono ragazzi di tutte le età e non sono divise per sesso. Anche le camerate sono miste. Eppure, quando lo Stato si è accorto di lei, aveva sedici anni ed era ancora vergine. E sa perché si è accorto di lei? Perché durante tutto quel tempo, si era occupata personalmente di diversi ragazzi che avevano mostrato interesse nei suoi confronti.»
«Era determinata, e oggi ne abbiamo avuto la conferma.» 
«Non così tanto determinata. Ad esempio, non è riuscita a occuparsi di lei.» 
«Be’, la parte più difficile, di qualsiasi cosa, è riuscire a portarla a termine.»
«Capisce, Silvia non ha mai avuto questo problema. Solo con lei, commissario. Forse
perché è stato l’unico che è riuscito a farla sentire meno sola.»
«In cucina abbiamo trovato un biglietto in cui ha lasciato scritto l’esatto contrario.»
«Eppure lei si era allontanata da noi a causa sua. Crede davvero che volesse questo?» «Ad oggi, non abbiamo elementi per dire che non lo volesse. A meno che, ieri sera, non si è ritrovata con qualcuno che aveva gli stessi interessi in comune con lei e Silvia. E che magari non ha ancora voglia di andare in pensione.»
«Non saprei commissario. Questi ultimi giorni in ufficio sono stati abbastanza caotici.»
Guido annuisce, poi fa un tiro alla sigaretta. 
«Dove verrà seppellita?» chiede l’uomo. 
«Passati i trenta giorni in cui nessuno reclamerà il corpo, se ne occuperà il comune
di Milano. Probabilmente finirà al Maggiore.» 
L’uomo annuisce. Poi si alza dalla poltrona e spegne la sigaretta nel posacenere.
Infine, tende una mano verso Guido. Lui si alza e gliela stringe. Rimangono così per diversi secondi, poi l’uomo si dirige verso il corridoio.
«Adesso che andrà in pensione cosa farà?» chiede Guido. L’uomo si gira verso di lui e sorride.
«Non mi spaventa il silenzio, ma la pensione non fa per me. Però non le recherò altro disturbo commissario. Stanotte torno a casa.»
L’uomo apre il portone. 
«Come si chiamava Silvia?» domanda Guido.
L’uomo torna a voltarsi e lo guarda dritto negli occhi. «Catrinel.»

Guido è di fronte alla finestra nel salotto. Ripensa a quel tardo pomeriggio di fine marzo dell’Ottantasei, quando aveva incontrato Catrinel in un locale in via Moscova. Sedeva a un tavolo vicino alla finestra che dava sulla strada, aveva ordinato un bicchiere di Lambrusco e stava leggendo «l’Unità». Catrinel si era avvicinata e gli aveva chiesto se aveva finito con il giornale. Guido le aveva risposto che quella copia non era del bar. Lei si era scusata e poi aveva sorriso, Guido era rimasto immobile di fronte a quel volto, si era dato dello stupido, aveva chiuso il giornale e l’aveva pregata di prenderlo. Poi le aveva chiesto se fosse da sola, lei aveva annuito, così le aveva domandato se voleva unirsi a lui. Erano rimasti a parlare fino a orario di cena, quando lei gli aveva lasciato il suo numero di telefono ed era corsa a prendere il quattordici che stava passando proprio in quel momento. Lui era tornato a casa, e anche se si era imposto di aspettare almeno fino all’indomani, l’aveva chiamata non appena finito di lavare i piatti. E di nuovo era successo di rimanere a chiacchierare per ore, fino all’una di notte. Si rividero il venerdì seguente. Prima di lasciarsi sotto casa di lei, Catrinel gli chiese se voleva salire. Lui annuì, e venti minuti dopo, sul divano, provò a baciarlo. Lui si scansò, anche se aveva le palpitazioni. Gli piaceva parlare con lei e quello era il suo modo di rimanere nudo di fronte a una donna, dal momento che non si denudava di fronte a una donna da più di un anno. Parlarono tutta la notte, e lui tornò a casa che stava albeggiando. La settimana dopo andarono a letto insieme.
Nei mesi seguenti parlarono spesso del suo lavoro da commissario nella polizia giudiziaria. Catrinel lo tempestava di domande, a cui lui era contento di rispondere. Poi d’improvviso smise di fare domande, e lui pensò che la stesse annoiando con il suo lavoro e che si stesse stancando di lui. Catrinel, invece, si fece sempre più stretta, più presente, più premurosa. Quando camminavano per strada si guardava attorno. Lui non capiva, e lei si giustificava con il fatto che una donna non può mai abbassare la guardia.
Si continuarono a frequentare e nel Natale dell’Ottantasei lui le chiese di conoscere i suoi genitori. Lei gli rispose che era orfana. Così lui le chiese di presentarle qualche sua amica. Lei gli rispose che non aveva amici all’infuori di lui. Guido capì che era sola al mondo. Non che avesse avuto un’altra impressione in tutti quei mesi. Così lui non le presentò nessun suo amico e neanche i suoi genitori. Erano loro due, e a lui sembrò di avere finalmente quel tipo di rapporto di cui non rendere conto a nessuno. Gli sembrava perfetto, anche quando lei si assentava per diverse settimane perché doveva andare fuori per lavoro, o quando lo chiamava alle ore più disparate della notte per dirgli che le mancava. A volte percepiva in Catrinel la necessità di andare a letto con lui, come se Guido dovesse rimarcare un possesso che aveva su di lei. Lo pregava di dirle che era sua. E lui le diceva che era sua. Lei scoppiava a piangere e lui la stringeva forte.
Durante l’Ottantotto lei iniziò a viaggiare sempre meno per lavoro e contestualmente smise di chiedergli se fosse sua. Iniziarono a vedersi tutti i giorni, finché non si accorsero che erano sempre più soli anche se stavano insieme. Così le propose di andare a convivere. Lei gli chiese se fosse sicuro. Gli chiese di prendersi un po’ di tempo per pensarci meglio. Cinque minuti dopo lui le rispose che era sicuro. E le disse che era sicuro anche il giorno dopo, e il giorno dopo ancora. Così lei lo invitò a cena a casa sua per il venerdì sera seguente, e alla fine della seconda bottiglia di vino, appoggiati sul divano, gli disse come si chiamava, chi era e qual era stato il suo vero lavoro per quasi quindici anni. Guido le domandò se aveva intenzione di ricattarlo. Lei gli rispose che non aveva capito. Lui si infilò la giacca e tornò a casa. Non si fece più sentire. E lo stesso fece Catrinel fino a una sera di settembre dell’Ottantanove, quel momento in cui il suo mondo stava iniziando a crollare. Guido rimase in ascolto, ma non le rispose. Il giorno dopo, tuttavia, si presentò a casa di lei. Catrinel voleva parlare, ma lui iniziò a spogliarla e lei non lo fermò. Nudi sul letto, lei gli disse che da più di un anno aveva ripreso il suo vecchio lavoro. Guido le domandò se lui era ancora un suo lavoro, lei scosse la testa e provò ad abbracciarlo, ma lui rimase inerte. Allora lei provò a parlarci, ma lui restò in silenzio. Il ventidue dicembre lei si fece trovare sotto casa di lui. Gli disse che aveva bisogno del suo aiuto. Guido aveva una copia dell’«Unità» in mano e le rispose che non c’era niente che potesse fare.
«Una cosa c’è» insisté lei. Così lui la riaccompagnò a casa, e in salotto lei gli spiegò che niente di tutto ciò che conosceva, esisteva più. Gli disse che era stanca. Gli disse che aveva paura. Infine, gli disse cosa aveva intenzione di fare. Guido andò alla finestra, iniziò ad agitare le mani e ad alzare il tono di voce. Provò a discuterne con lei e ad abbracciarla, la pregò di attendere qualche giorno, ma lei continuò a rimanere in silenzio, e così comprese che era sicura. Andò ad aprire le manopole del piano cottura, poi si sedette sul divano e avvolse la testa con una busta di plastica. Quando iniziò a fare degli spasmi, Guido tolse le mani che aveva davanti agli occhi e si mise a cavalcioni su di lei. Al che le strinse la busta intorno al collo utilizzando i lembi di plastica, e lei si aggrappò ai suoi avambracci in tensione fino a smettere di respirare. In quel momento lui iniziò a singhiozzare. Si guardò intorno, strappò un foglio di carta da un quaderno appoggiato su un mobile in salotto e scrisse: «Non esiste casa per i diseredati». Lo lasciò sul tavolo in cucina, e lì prese le chiavi di casa che gli aveva lasciato Catrinel. Si chiuse il portone alle spalle facendo tutte le mandate. Erano le cinque di mattina e anche Milano a quell’ora era deserta. Si mise in macchina e, in una traversa distante poche centinaia di metri, trovò un bidone dell’immondizia ancora pieno, in cui gettò il mazzo di chiavi. Infine, mise in moto l’auto per tornare verso casa.

La mattina del ventisette dicembre Guido è in macchina, fermo davanti all’entrata della questura in via Fatebenefratelli. È il suo turno, ingrana la marcia e il piantone lo saluta abbassando il capo. Fa una svolta a sinistra e parcheggia nel primo posto libero sulla destra.
Entra nel suo ufficio e si posiziona alla scrivania, dove trova il referto del medico legale e una comunicazione da parte del comune di Pordenone.
Nel primo c’è scritto: «Nessun segno evidente sul corpo. Laringe e faringe normali, nessuna pressione applicata. Nessun segno di violenza sessuale. Causa della morte: asfissia autoindotta.»
Nel secondo, invece: «Non si ravvisano parenti stretti di Silvia Verdin nel comune di Pordenone a cui poter notificare la notizia del decesso».
Guido li inserisce entrambi nel fascicolo. Poi prende a scrivere l’annotazione a conclusione delle indagini da consegnare al pm.
In quel momento entra Romani nella stanza. Guido lascia cadere la penna e fa leva sullo schienale della sedia.
«Aveva ragione lei, Romani, era suicidio.» 
«Quindi aveva ragione anche lei, commissario. Non ci sono omicidi in via Solferino.»

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