Milano siamo noi
di Domenico De Musso

«Fa male?»
È concentrato sulla mia faccia. Suda.
L’ago va su e giù, penetra sotto la pelle dello zigomo; quando ripassa le linee sfiora l’osso.
Resto immobile, non posso fare altrimenti. Ti muovi un po’ e vai in giro con uno sgorbio in faccia per tutta la vita.
Un diamante sotto l’occhio destro: sto quasi pentendomene. E non è solo per il dolore. È il ronzio dell’ago: quando ti tatui la faccia lo senti rimbombare nelle ossa.
Concentrarsi sulla musica; playlist trap. Ma non riesce a distrarmi. Il ronzio: giù, fino alla colonna vertebrale.
Sdraiato sul lettino vedo due cose: il soffitto dello studio e Nico. Ma il soffitto è nero, senza spunti, e i tatuaggi sulla faccia di Nico li ho imparati ormai a memoria.
Mi viene in mente quella volta che eravamo andati a fare casino in un locale e ci aveva provato con una tipa che gli aveva detto che sembrava un cinghiale. Da allora lo chiamiamo tutti così. 
Mi scappa da ridere e inizio a tremare per trattenermi.
Nico solleva l’ago come se stesse giocando all’Allegro Chirurgo e improvvisamente mi fosse suonato il naso.
«Cazzo fai?»
Niente, non riesco. La ridarella.
«Sei scemo» dice.
Nico si sistema sullo sgabello e aspetta che passi.
«Scusa.» Caccio fuori aria dalla bocca per darmi una calmata.
«A che pensavi?»
Glielo dico e ride anche lui, ma un po’ se la prende e poi precisa che comunque la tipa se l’era scopata, si era fatto prestare un po’ di soldi da un nostro amico e le aveva offerto così tante birre che alla fine lei era ubriaca marcia e nemmeno si era accorta di aver aperto le gambe.
Approfitta della pausa; beve un sorso d’acqua da una bottiglietta. Diventa serio.
«A proposito» mi fa. «Hai parlato con Gianni?»
«Ti dico dopo.» Mi si stringe lo stomaco, ridarella passata.
Mi chiede come va con i ragazzi. Gli rispondo che si fa casino e si canta e tutte le solite cose. Poi se sono pronto per domani.
«Sono sempre pronto il giorno prima di una partita.»
«Il fatto che sia un derby?» mi chiede.
«Cambia poco.»
«È da parecchio che non vengo con voi.»
Vorrei dirgli che potrei farlo entrare come ai vecchi tempi. Gli dico di ricominciare, invece.

Quattro canzoni della playlist; Nico finisce. Piega la testa di lato, osserva il lavoro.
«Vai a guardarti.»
Allo specchio: ho un alone rosso sulla guancia. Nell’alone, il diamante. Linee nette e pulite, non troppo spesse. Proprio come lo volevo.
«Non hai perso la mano» dico e mi mordo il labbro perché sta arrivando il momento.
«Eri tu quello bravo in disegno.»
«Era il resto che mi fregava.»
Il liceo artistico puzzava sempre di umido, l’aula di disegno ancora di più. La pelle sullo zigomo mi brucia. La sfioro con un dito.
«Lì la cicatrice ci mette di più a guarire» dice.
Usciamo dal retro e ci avviciniamo al bancone.
«Comunque, una domenica di queste ci vengo, in curva.»
«Quant’è?»
«Ma niente, per te? Ti pare?»
Agita una mano.
«Senti» dice. «E con Gianni allora?»
Scuoto la testa. «Non ne vuole sapere.»
Guardo l’orologio sulla parete. Manca un minuto alle nove.
«Vi ho chiesto una settimana.» Già piagnucola. «Che cazzo.»
Il rombo di una moto fuori dallo studio.
«Ho sempre pagato in tempo» dice.
Due colpi alla porta. Negli occhi di Nico un sentore di merda. È una statua mentre vado ad aprire. Entrano i due metri e centoventi chili di Sandro detto la Bestia.
Nico lo fissa e poi torna a guardare me.
«Gioele, che cazzo. Una setti-»
«Gianni non sente cazzi. Non te la vuole dare, la settimana.» Non ce la faccio più, devo andarmene da qui.
«Gioele» mi fa Nico, e lo dice con lo stesso tono delle volte che faceva le cazzate con gli altri al quartiere e poi arrivavo io e tutti lasciavano perdere. Non è mai stato uno furbo. Ma stavolta io sto dalla parte degli altri.
La Bestia mi guarda, vuole cominciare. Ha un bomber così grande da entrargli un martello nella tasca interna; e infatti ne tira fuori uno. Il martello vuol dire ossa. Probabilmente la mano. Rompere una mano per farsi dare i soldi; romperne due in cambio di un’altra settimana. Faccio per uscire. Non posso sopportare la mano di Nico sfracellata.
«Dove vai?» mi fa la Bestia.
«Non puoi fare da solo?»
«Sono cose che si fanno in due.»
Guardo Nico, sembra un bambino. Puro terrore. Non posso farci niente.
«Sei il doppio di lui, i conti tornano.»
La Bestia guarda il martello.
«Gianni non sarà contento.»
«Non sei obbligato a dirglielo.»
«Non sgarro con Gianni.»
È una risposta che darei anch’io. Ma è la Bestia, diosanto. Abbiamo fatto insieme decine di lavori come questo, mi aspetto che capisca la mia situazione.
«Me la vedo io» mi fa, poi. Mi indica la porta con il martello. «Non hai più le palle.»
La voce di Sandro detto la Bestia è peggio del suo martello sulla mia testa. Torno indietro. Farsi rispettare, prima di tutto.
«Ripeti» lo affronto.
«Ti conviene fare quello che dico.» Nella sua voce qualcosa di quasi invitante, come se cercasse di farmi ragionare.
Lo guardo da sotto a sopra. Tra noi una differenza di almeno trenta centimetri e una cinquantina di chili. Mi sveglierò con qualcosa di rotto. Rincaro la dose per darmi coraggio.
«Non mi dici cosa devo fare, cocainomane di merda.»
Poi tutto succede troppo in fretta: lo scalpiccio dei passi di Nico, lui che esce e ci chiude dentro a chiave. Veloce come un cane che scappa dal padrone violento.
Smetto di respirare. Saremo morti, se non troviamo Nico prima che Gianni sappia che un coglione del genere è riuscito a scapparci.
Ricomincia a battermi il cuore.
«Sfonda la porta» dico a Sandro.
Ma anche con un martello usato da una bestia ci mettiamo una ventina di minuti.

Milano è un semaforo che vuole essere rispettato. Circonvallazione da una parte all’altra della città, sperare in un’onda verde. Sono le nove e mezza, a un rosso mi accendo una canna. Devo calmarmi, pensare.
Spotify: qualcosa che mi faccia sentire meglio. Bluetooth, play: Gué se la prende con un tipo. Dal fondo della strada che incrocia la circonvallazione una macchina della polizia: sul parabrezza il blu dei lampeggianti e il rosso del semaforo.
Sono un coglione. Adesso capisco perché Sandro voleva che non andassi via.
Quando Gianni ci ha dato l’incarico, guardava me. Lo sapeva che Nico è un mio amico d’infanzia. Ma sa leggere negli occhi e io non sono un libro così complicato. C’è scritto che mi piacciono i soldi. Anche a Gianni piacciono, come gli piacciono le cose semplici da capire, tipo: se gli obbedisco farò strada; se farò strada, farò i soldi. Chi stava con Gianni e ha provato a cambiare la storia è durato due capitoli: inizio e fine.
Poi c’è un’altra storia, anche questa molto semplice: se devi dei soldi a Gianni, paghi. Nico ha perso il filo della storia, è andato fuori tema e non ha restituito in tempo il prestito.

La circonvallazione respira all’altezza di piazza Brescia, sorpasso qualcuno, Gué interrotto da una chiamata in arrivo. Sul display: «Bestia».
«A casa non c’è.» La sua voce è come se fosse in macchina con me.
«Dovevamo provarci.»
Sarebbe stato troppo stupido anche per Nico, ma Sandro ha pensato che valesse la pena. Con la moto è più veloce; arriverà al bar di Gianni insieme a me, faremo finta che non sia successo niente. Prendere tempo, pensare in fretta, risolvere un casino. Una fitta allo zigomo, sfioro la pelle con la punta delle dita.
«Vediamoci al locale.»
Sandro è nel giro da un paio di anni più di me. Ha capito subito che quella di Nico era una prova per il sottoscritto. Poteva dirmelo, avremmo evitato tutto questo. Ma va così, è un continuo non detto, un eseguire senza troppe domande. Un non fidarsi di nessuno. Forse anche la Bestia voleva mettermi alla prova.
Vorrei fosse un sabato come un altro.

Circonvallazione di nuovo incasinata, una vena che si svuota e si riempie di acciaio. Finalmente svolto a destra, entro nel vialetto che dà sul retro del bar di Gianni. Un coglione esce dal parcheggio, veloce, le ruote che fischiano, i fari alti che sobbalzano.
Spengo la macchina. C’è la moto di Sandro. Sulla porta Robi e Sergio; fumano una canna fissando un telefono. Mi avvicino.
«Guarda che bomba» mi fa Robi.
Sullo schermo: le foto dello striscione disegnato da me e che avevo detto ai ragazzi di ultimare. Un bel lavoro: Sant’Ambrogio con la tiara, il bastone e tutto in stile acquaforte seicentesca. Gli ultimi dettagli proprio come li volevo io. Ai suoi piedi: MILANO SIAMO NOI. Domani faremo un figurone. Poi Robi mi mostra i selfie che si sono fatti ancora con le bombolette in mano, in posa con il fazzoletto sulla bocca e il cappuccio in testa.
«Non si pubblicano le foto degli striscioni prima della partita» dico.
«Tranquillo, le postiamo domani sera» dice Sergio.
«Prepariamo delle stories per far vedere come abbiamo lavorato prima della partita.»
Faccio di sì con la testa.
«Il work in progress» mi dicono.
Entro nel magazzino sul retro del bar e saluto gli altri ragazzi. Sul pavimento, tamburi, casse di birra impilate fino al soffitto, espositori di patatine vuoti, le bandiere, due slot da riparare.
Lo striscione è steso ancora a terra, enorme. Dobbiamo fare le cose per bene. Coprirà tutta la curva, su Instagram faremo il botto.
Guardo un gruppetto di ragazzi che stanno bevendo birra in cerchio. Ok con il pollice. 
«Gianni c’è?» chiedo.
«È venuto a vedere e poi è tornato nel bar» mi fa uno di loro, e con la testa indica la porta che dal magazzino immette nel bar.
«Bravi, ragazzi.» Do una pacca sulla spalla al più vicino.
«Gli facciamo il culo, domani!» urla Robi, da fuori.
All’unisono tutti i ragazzi fanno «Uh!», come fossimo in curva, e poi ancora «Uh!», e lo ripetono. Il magazzino si riempie di eco. Applaudono per darsi la carica. Siamo una muta di cani eccitati.
Nel bar urto un cinese che sta giocando a una slot. Si volta, mi guarda, prova a farmi brutto con i suoi occhi piccoli. Poi capisce chi sono e torna a perdere soldi. Ai tavoli ci sono tre tizi; birra e Gazzetta. Habib sta lucidando il bancone; di fronte a lui c’è Sandro, sembra ancora più enorme, il piano di alluminio gli arriva ai pantaloni mimetici.
«Sei già arrivato.»
«Fai due Beck’s, dai» dice Sandro a Habib.
Habib le prende da sotto il bancone, le poggia sul piano e le stappa.
«Fatto adesso?» mi chiede Habib con un dito sotto il suo occhio.
Faccio di sì con la testa, sfioro la pelle, mi brucia. Sandro mi guarda. Prendo la prima sorsata di birra della sera.
«Con Gianni si può parlare?»
Habib allunga il collo verso la stanza di Gianni.
«Penso di sì. Prima è uscito uno, ma adesso mi sa che è solo.»
Finiamo le birre in un sorso. Entriamo da Gianni. Sta seduto dietro la scrivania, legge dal telefono. Ci sediamo di fronte a lui, lasciamo che finisca. Guardo le foto appese ai muri: Gianni in curva, Gianni che tiene in mano la sciarpa con il capitano, Gianni che dà la mano al presidente.
«Domani c’è il sole» dice e ci mostra lo schermo.
Accendo una sigaretta.
«È dicembre e sembra giugno. Mi piaceva quando a Milano c’era la nebbia. Era una sicurezza, mi faceva sentire tranquillo.»
Facciamo di sì con la testa.
«La logica. Inverno, freddo. Milano, nebbia.» Mi guarda negli occhi. «Il capo dice una cosa, gli altri la fanno.»
Legge le persone come libri. Mi do un contegno fumando come fanno nei film, gli occhi socchiusi e la testa un po’ inclinata. Non può sapere quello che è successo. È troppo presto.
«Ti sei fatto sporcare la faccia?» Fa una smorfia.
Butto fuori il fumo e mi tocco lo zigomo.
Cerco di sorridere: «Prima di spaccargli le mani, sì».
«Vi siete divertiti?» Adesso ce l’ha anche con Sandro.
«Tra una settimana vedrai che ti porta i soldi con la bocca. Le mani non può usarle neanche per farsi una sega.»
Gianni scopre i denti, gialli. Abbassa lo sguardo, apre un cassetto. Mette sulla scrivania, uno accanto all’altro, tre panetti di coca e un sacchetto di carta marrone.
«La roba va portata ai soliti.» Dal sacchetto prende una pistola; aspiro dalla sigaretta per ingoiare un brivido. «Questa l’ha parcheggiata qui il calabrese e la rivuole indietro.»
Infilo la pistola nella tasca del bomber.
«La vuole alle undici. Al solito posto.»
Faccio di sì con la testa e raccolgo i panetti.
«Mettili qui» dice Gianni. Mi porge una borsa di tela. La prendo, lui non la lascia. «Domani c’è il derby e voglio godermelo. Con il sole o con la nebbia. Anche se io preferisco Milano con la nebbia.»
Poi molla la presa.

Io e Sandro usciamo dal locale passando di nuovo dal magazzino sul retro. I ragazzi non ci sono, saranno andati a mangiare qualcosa e poi a ballare. Un sabato normale. Sul pavimento, ad asciugare, Sant’Ambrogio. Lo osservo ancora un po’. Sul viso sono riuscito a rendere gli effetti della luce che viene dall’aureola dietro la testa; in queste cose sono un perfezionista. Non lo diceva solo Nico, che ero bravo in disegno.
«Che si fa?» chiede Sandro.
Apro la macchina e poggio sul sedile la borsa con la coca.
«Consegniamo la roba in giro.»
Sandro tira su con il naso; prima di uscire è andato in bagno.
Una scossa elettrica nel suo sguardo. «Voglio trovare quel coglione» dice.
«Ripassiamo a casa sua.»
«Tempo perso.»
«Farà comunque una cazzata.»
Lo spero. Accendo un’altra sigaretta, entro in macchina; quando Sandro si è fatto da poco, mi agita. Fumo con la portiera aperta, un piede fuori e uno dentro. Guardo un po’ di Instagram: devo distrarmi. Apro la borsa con la roba e prendo un panetto. Torno da Sandro.
«Tu la porti a Rho. Io Baggio e Quarto Oggiaro.»
Lui si infila la roba sotto il bomber. Mi guarda.
«Ci verrà in mente qualcosa» dico.

Comincio da Baggio. Normalmente per arrivarci ci vogliono non più di dieci minuti. Anche se con la gente che intasa le strade di sabato sarà quasi impossibile. Prima, seconda e terza tra un semaforo e l’altro. Clacson di chi si sente minacciato dai miei sorpassi. Collego il telefono allo stereo; un po’ di Lazza. All’altezza di un rosso la macchina accanto a me calcola male i tempi, frena di botto. Guardo dentro, un ragazzo e una ragazza muovono insieme la testa; sento i bassi del loro stereo, nonostante Lazza. La ragazza al sedile passeggeri si accorge che li sto fissando. Ricambia, non smette di muovere la testa. Il ragazzo fa capolino e mi fa un cenno; sgasa, due volte. Rispondo. Ridono, lui dà due colpi al volante con i palmi delle mani, lei solleva le braccia e si muove più morbida, a occhi chiusi. Altra sgasata; rispondo. Scatta il verde, le luci posteriori rosse mi schizzano davanti. Svolto a destra. Ho altri cazzi per la testa.

Baggio. Fermo al solito spiazzo. Guardo il display. Sono in anticipo, incredibile. Zona morta, nessuno mi sta aspettando in strada. Sento il flusso del sabato della circonvallazione. Guardo in su, al secondo piano del palazzo di fronte. La finestra è spenta. Comporre il numero; chiudere dopo due squilli. Ancora la finestra; luce. La sagoma di uno dei calabresi compare e scompare. Finestra di nuovo spenta. Accendo una sigaretta e mi godo un po’ di stories su Instagram. Dopo sei fighe mezze nude, bussano al finestrino.
Abbasso il vetro, il calabrese avvicina la faccia. Pelle bucata; sembra vaiolo. Mi si strizza lo stomaco; mi fa sempre questo effetto.
«Sei arrivato prima» fa il calabrese. Sussurra, come sempre, la voce è un bicchiere scheggiato.
«Sono uno veloce.»
Metto fuori la mano e mi dà la mazzetta di banconote. Sono giuste.
«Ancora che conti i soldi» dice.
«Sarà che sei juventino.»
Ride che sembra guaisca, gli do il pacchetto.
«Buona partita per domani.»
«Vaffanculo» dico, e mi tocco i coglioni.
Ride di nuovo e fa per tornare sui suoi passi.
«Aspetta.» Tiro fuori la pistola dalla tasca e quello resta immobilizzato. Fa un passo indietro.
«Che è?»
Resto con la pistola a mezz’aria, tenendola per la canna.
«Non è roba vostra?»
Non capisce, gli occhi due tagli; ho lo stomaco in bocca.
«Solo questa» dice, e muove il panetto di roba nell’aria. Mi fissa ancora, poi si gira e se ne va, lento come un animale malato.
Rimetto la pistola in tasca e mi sistemo meglio sul sedile. Sono tentato di chiamare Gianni. No, gliela riporterò quando avrò risolto con Nico: è questo il mio problema, adesso. E se dicessi tutto a Gianni? Provare a mettermi la coda tra le gambe, ammettere che è stata una mia debolezza. D’altronde anche lui può sbagliare, l’ha fatto con la pistola al calabrese. Butto via la sigaretta. No, è fuori discussione.
I fari di un’auto che si è staccata dalla circonvallazione mi illuminano per un attimo e poi torna tutto semibuio, mentre parcheggia più in là.
Riprendo il telefono. Guardo altre stories, distrarsi per concentrarsi. Una figa tutta tatuata, la riconosco, è Serena, la ragazza di Nico. Guardo il suo profilo. Le altre sue stories: Serena in bikini con lo sguardo da troia; Serena che fa vedere il culo; Serena sdraiata sul letto con Nico, un ventaglio di banconote da cento in una mano e con l’altra il dito medio all’obiettivo. Guardo da quanto tempo l’ha pubblicata: un’ora. Un’ora fa erano insieme, a casa di lei.
Una portiera si apre e si chiude: da un’auto, forse quella appena parcheggiata, scende qualcuno.
Bastava aspettare che Nico facesse una cazzata, Sandro aveva ragione.
Rimettere in moto. Ripartire a razzo. Chiudere in fretta la questione.
Qualcuno mi chiama. Mi pare di riconoscere la voce; forse il calabrese che ci ha ripensato sulla pistola, forse no.
Non me ne frega un cazzo. Devo fare presto.

Sandro è già alla Barona, sotto casa di Serena. Gli ho dato l’indirizzo: ci sono stato un paio di volte.
Gli faccio vedere la storia di Instagram.
«Quel coglione sta con questa?» mi fa Sandro.
«Li vedi quei soldi?»
«Sì, ma sono di Gianni.»
Serena divide la casa con una tipa. Sono tutte e due modelle: tette rifatte, riviste di tatuaggi, OnlyFans. A volte fanno le troie per feste private.
«Un’ora fa potrebbe essere stato qui» dico.
«O magari c’è ancora adesso.»
Citofono a caso. Risponde un tipo. Dico di essere di Deliveroo. Mi risponde che non ha ordinato nulla. Mi scuso e dico che devo aver sbagliato, non è che nel frattempo mi potrebbe aprire comunque il cancello? Ci casca. Facile.
Prendiamo l’ascensore e arriviamo al pianerottolo. Non ho una strategia, solo voglia di finirla presto. Busso. Passi che strusciano sul pavimento.
«Chi è?»
Non riconosco la voce di Serena. Mai avuta una grande memoria con le voci.
«Sono Gioele, l’amico di Nico.» Sandro non è a portata di spioncino. La porta si apre. È l’altra tipa.
«Ciao.»
La Bestia scarta veloce, le tappa la bocca, la immobilizza sul pavimento. Martello in mano, la parte piatta poggiata sulla testa della tipa. Chiudo la porta alle nostre spalle.
«Sei sola?»
La ragazza fa sì con la testa. Singhiozza, lacrime che rigano il viso. Ha una canotta che mostra le spalle e il petto completamente tatuati. Riconosco anche lo stile di Nico. Ha i capelli rosa, la ricordavo bionda. Anche così, struccata e con i pantaloni della tuta, è una figa assoluta.
La lascio lì con Sandro per dare un’occhiata in casa. Il corridoio, un ripostiglio, il bagno: vuoti. La stanza di Serena: nessuno. Una scrivania di fronte all’entrata, sotto una grande finestra: cercare un biglietto, un appunto, qualcosa che mi dica dove sono andati. Niente. Vicino alla scrivania, sempre sotto la finestra, il letto della foto. Mi sdraio.
Guardo il lampadario di bambù che pende dal soffitto, spento. Mi viene una vampata di paura.
No. In piedi. Devo. Finire. In. Fretta.
Torno nell’ingresso. «Nico è stato qui oggi?»
La figa fa no. Sandro le dà un colpetto di martello sulla tempia. Accendo una sigaretta, la tengo tra le dita come una candelina.
«Lo sappiamo che è stato qui almeno un’ora fa. Dove sono adesso?»
Scuote più forte la testa. Sandro si mette a cavalcioni su di lei per tenerla ferma. Mi inginocchio e premo la punta della sigaretta sul collo della tipa. L’urlo esce ovattato dalla mano della Bestia. Sento l’odore della pelle bruciata.
«Dove sono Serena e Nico?»
Lei continua a piangere. Le punto la sigaretta sullo zigomo. Difficile lavorare con la faccia bruciata. Strabuzza gli occhi, stavolta fa di sì con la testa, a strappi.
«Se ti toglie la mano urli?»
Boccheggia, sembra percorsa da scosse elettriche, non so neanche se riuscirà a parlare.
«Nico è stato qui oggi?»
«No… no… non lo so… non lo so…»
Sotto shock. Non ho tempo per aspettare che si calmi.
«Dove sono Serena e Nico?»
Niente.
La metto giù più facile. «Sai dov’è Serena?»

Di nuovo nel traffico. Semaforo verde, semaforo rosso, Milano gonfia di auto. Vorrei un sabato sera come tutti. Spaccarmi di birra senza pensieri e fare l’alba. Dormire e svegliarmi in tempo per la partita.
Ma ci sono le conseguenze di una debolezza da pagare. Sul display: mezzanotte passata da tre minuti e non sto facendo il coglione con le tette di nessuna tipa.
La coinquilina di Serena: tra i singulti, una specie di indirizzo. Serena è a una festa privata in un Country Club poco fuori Vimodrone. Dall’altra parte di Milano.
Di Nico non ha voluto dirci nulla. O forse davvero non sa nulla. Sandro è rimasto lì con lei. Se ha detto la verità staranno da soli per un po’ e poi lui andrà via. Se ha detto una palla, non ci saranno solo bruciature di sigarette. Ho ancora nelle orecchie l’urlo della ragazza. Voglio ricordarlo per un po’. Ho scelto questa strada. Non si torna indietro. Voglio sentire un urlo ogni volta che rischio di fare puttanate. Così da rimettermi subito in carreggiata. Dalle casse esce fuori lo squillo amplificato del telefono.
«Bestia» dico.
«Dove sei?» mi dice in vivavoce.
«Quasi in tangenziale.»
«Qui non si è fatto vedere ancora nessuno.»
«Avrà detto la verità.»
«Lo spero.»
«Cerca di stare calmo.»
«È qui davanti a me.»
«Magari ti dice qualcos’altro.»
«Non riesce ancora a parlare.»
«Cerca di stare calmo» ripeto.
Verso la tangenziale, Milano si sfilaccia. Il traffico quasi normale. Le case, pochi ectoplasmi sullo sfondo nero della pianura. Dentro: vita piccola, finestre spente. Fuori: solo io.

In quinta sulla tangenziale; dimenticare per un attimo cosa sto facendo. Guidare fluido, senza gli stacchi nervosi della città. Le auto che sorpasso: fanalini rossi e macchie di colore. Gioco a seminare tutti. Accelerare; velocità. Respirare.
Di nuovo il telefono. Gianni.
«Eccomi» dico.
«Avevo paura non rispondessi.»
Cioè?
Poi: «Com’è andata con la pistola?».
«Il calabrese non l’ha voluta.»
Gianni resta in silenzio. Poi: «Hai trovato solo il calabrese?».
Che domanda è? «Sì, come le altre volte.»
Ancora silenzio; le rotelle che girano nella testa di Gianni. «Dove sei adesso?»
Non mentirgli troppo: «Sto andando a Vimodrone. A una festa».
«Che festa?»
Ma che cazzo te ne frega? «Al Country Club. Una festa privata.» Provo di nuovo ad alleggerire: «Vieni a fare casino anche tu?».
Chiude senza rispondere. Non mi chiede neanche se ho fatto le altre consegne. Starà pensando al derby. Vorrei tanto pensarci anch’io.

Fine della tangenziale; uscita per Vimodrone.
Strade e incroci deserti. In giro nessuno. Sembra un pianeta abbandonato.
Dopo cinque minuti Vimodrone si dilegua.
Fila di lampioni arancioni ai due lati della strada. Capannoni bassi. Recinti alti di rete metallica, furgoni parcheggiati in fila, i nomi delle aziende su insegne lunghe illuminate dall’alto da faretti. Tutto dritto. È l’unica strada per arrivare al posto.
Accelerare. Finire questa storia al più presto.
Il Country Club tra i cespugli alti e gli alberi. Parcheggio. Metto la pistola sotto il sedile. Scendo. Una palazzina di due piani, mattoni rossi. Due tipi all’entrata. Uno grosso e uno ancora più grosso. Vorrei ci fosse la Bestia.
«Che vuoi?»
«C’è una mia amica dentro.»
Quello grosso mi guarda. «Vedi di andartene.»
È una festa per ricchi, dove si sniffa e si scopa. Non ho l’aspetto di uno di loro. Mi gioco la carta.
«Sto con Gianni Ducati.»
Clic.
Quello ancora più grosso inizia a muoversi da un piede all’altro. Non sanno che fare. In tasca ho la roba e la mazzetta di soldi del calabrese. Prendo due carte dalla seconda: una a te e una a te.
Apriti sesamo.
Dentro, l’ingresso è vuoto. Alla mia destra una scala che sale. Quello grosso mi fa cenno che la festa è su.
Due rampe, sulle pareti globi di luce illuminano affreschi brutti, con scene di caccia fatte male. Il corrimano è di marmo, freddo. Sento i bassi di una musica. Alla fine della seconda rampa, un’altra porta, un altro bestione. Mi guarda, altra carta da cento: via libera. Un piccolo corridoio con gli stessi affreschi brutti, poi una sala quadrata. Uomini e donne illuminati di rosso, viola e blu ballano davanti alla postazione del dj.
Musica densa e soffusa, come le luci. Movimenti lenti; alcuni sono in mutande, altri a torso nudo. Tette e schiene che si strusciano. Chi è vestito guarda o è ancora indeciso. Altri parlano a gruppetti di tre o quattro. Quando passo tra loro mi guardano. Una ragazza tatuata indossa solo le mutandine e balla su un cubo. Dall’altra parte della sala ce n’è un’altra. Fanno parte della festa, come la musica, le luci e i mobili. Vado sotto quella più vicina. Non è Serena. Evito di entrare in contatto con i corpi di chi sta ballando, mi avvicino all’altra ragazza. Niente.
Una porta, chiusa. Entro in un’altra stanza. Stesse luci e stessa musica che esce da alcune casse appese al muro, più soffusa. Anche qui gente, ma non balla e non parla. Un tipo sniffa coca da un tavolino, una donna fa lo stesso. In ginocchio, una ragazza tatuata e in mutandine lo sta succhiando al tipo che sniffa. Poco più avanti, su un divano, un’altra ragazza tatuata ha tra le sue tette la faccia di una donna in abito da sera. Mi avvicino, neanche mi notano. Non è Serena.
Altri divani, altri tavolini, gente in coppia o in gruppo. Sento la porta aprirsi. Un uomo e una tatuata, mano nella mano. Lei lo spinge piano su uno dei divani liberi.
Serena.
Dovrei dare nell’occhio, ma sono tutti troppo presi. Lei sta sciogliendo la cintura al tizio. Le afferro un braccio. Si gira, con lo sguardo perfora il viola, il rosso e il blu delle luci.
«Chi cazzo sei?»
Le do una sberla. Fanculo le domande. Lei si porta una mano sulla guancia.
«Dimmi dov’è Nico.»
Cerca di colpirmi con il ginocchio. Nuova sberla. Attorno a noi gli altri continuano a fare quello che fanno. Ma il tizio che sta con lei si accorge che il suo cazzo non è ancora nella bocca di nessuno, si alza, mi guarda, guarda Serena. Corre fuori, neanche si riallaccia la cintura. Ho poco tempo.
«Nico.»
Prova a restituirmi la sberla, le blocco il polso, e poi anche l’altro.
«Nico» ripeto. «Dov’è?»
Dura: «Non lo so». Poi un’incrinatura: «Non posso saperlo».
Non può?
«Ci siamo mollati una settimana fa.»
La lascio andare. Di nuovo la porta. Il tizio con il cazzo nei pantaloni e un bestione vengono verso di me. Vorrei tirare fuori il telefono e farle vedere la storia di Instagram.
Il bestione mi afferra per le spalle. Inutile resistere. I pompini e le sniffate continuano.

Scortato per le scale, spinto fuori. I due all’entrata fanno finta di non conoscermi.
Nico e Serena non stanno insieme da una settimana? Torno in macchina. Controllo che il pezzo sia ancora sotto il sedile. Mi sistemo. Accendo, parto.
Riprendo il rettilineo che mi ha portato fin qui; sembra cominciare e finire nel buio. I capannoni che attendono il lunedì per ricominciare a riempirsi di operai. Di nuovo le insegne illuminate dall’alto dai faretti.
E poi freno.
I faretti dall’alto. Il lampadario della camera di Serena. La luce. La luce della foto. Riprendo il telefono. Torno alla storia della troietta. Non può essere stata fatta alle dieci di questa sera. I loro visi non sono illuminati dall’alto. La luce proviene dalle loro spalle. Dalla finestra. È stata fatta di giorno. Sono un idiota.
Una chiamata in arrivo. Display: Bestia.
«La foto» mi fa.
Sto zitto.
«Gliel’ha fatta Samantha» dice.
«Chi?»
«La ragazza, qui. Gliel’ha fatta un paio di settimane fa.»
«E l’ha postata stasera.»
«Sì, dice perché Serena voleva fare pace con Nico e ha pubblicato la foto per farlo riavvicinare.»
Accendo una sigaretta.
«Abbiamo perso troppo tempo. Troppa fretta. Siamo stati noi i coglioni» dico.
La Bestia chiude. Starà già pensando a come salvarsi il culo.
Riparto. Nico potrebbe essere dappertutto. Si spargerà la voce. Comincio ad avere paura di quello che succederà.
Un’auto sta arrivando alle mie spalle. I fari alti. Veloce. Troppo veloce. Il mio specchietto adesso è invaso dalla luce dei fari. Accelera ancora. Cazzo. Accelero anch’io. Riflessi lenti. L’altro mi tampona; sento la testa spinta all’indietro. Provo a ripartire. Troppo tardi. Mi affianca. Sterza all’improvviso.
Mi colpisce.
Sono fuori strada. L’auto sbatte contro il cancello di uno dei capannoni. L’airbag esplode, sapore di plastica in bocca. La mia auto è spenta. Ho male a una spalla e a una gamba. Sento lo sportello dell’altra auto aprirsi e chiudersi. Poi qualcuno chiama il mio nome. Troppo confuso per capire chi è. O forse ho paura di capirlo.
Tasto sotto il sedile. La trovo. 
Nico apre la mia portiera.
«O tu o io» dice.
Ha una pistola. Non pensavo di poterlo mai vedere con un pezzo in mano. A chi l’avrà chiesto in prestito?
Vede la mia pistola, puzza di merda nei suoi occhi: è la seconda volta che gliela annuso.
O tu o io. Sparo per primo. Dritto nella pancia. Vaffanculo. Non se l’aspettava. Gli viene una specie di singhiozzo, guarda il buco nella felpa, cade in ginocchio.
Muore senza fare scena. Faccia a terra.
Esco dall’auto. Mi fa male una spalla e la schiena. Mi brucia la pelle dello zigomo.
Sento un brivido. Adrenalina e freddo.
Mi avvicino a Nico. Con un piede stacco la pistola dalla sua mano. Identica a quella che mi ha dato Gianni. sembra un’ombra sull’asfalto. Caricarlo nel bagagliaio non sarà l’ultimo sforzo di questa notte.
Guardo il cielo. Sta cambiando il tempo.

Parcheggio l’auto di Nico sul retro del locale.
Sant’Ambrogio verrà portato tra poche ore in curva. Faremo un figurone, sì. Ma non me ne frega un cazzo. Entro nel bar. C’è sempre qualcuno, anche alle due di notte. Un marocchino che spaccia il fumo per noi beve una birra; un nero gioca alle slot.
Gianni è dietro il bancone, di spalle. Ci sta lui, quando Habib torna a casa. Mi vede dallo specchio della vetrina.
«Che bevi?»
Alzo le spalle.
Poggio le due pistole sull’alluminio. Suono inconfondibile. Il maghrebino e il nero drizzano le orecchie e poi escono, uno in fila all’altro.
Gianni riempie un bicchiere di vodka. Guarda i pezzi.
«Mi hai deluso una volta. Ti ho voluto dare una seconda possibilità.»
Finisco la vodka in un sorso.
«Pensavo lo avessi ammazzato già dai calabresi, a Baggio» dice.
«Non è arrivato in tempo.»
«Il traffico del sabato può essere impossibile per qualcuno.»
«Hai detto a Nico che sarei stato lì alle undici, per ammazzarmi.»
«Ma ti ho dato una pistola.»
«L’hai data anche a lui.»
«Non potevo fartela troppo facile.»
«Poi gli hai detto di Vimodrone.»
Gianni versa ancora. Bevo.
«È venuto qui appena ci è scappato» dico.
«Sì, si stava cagando in mano. Ma ha avuto le palle di venire a parlare con me.» 
«Per trattare.»
«E gli ho proposto un gioco in cambio del debito.»
«Se mi avesse ammazzato davvero non te ne sarebbe fregato un cazzo.»
La sua mano aperta sbatte sul bancone, ma è come se mi avesse dato uno schiaffo in faccia.
«Tra i miei non ci può essere uno che si fa scappare un coglione così.»
Resto calmo; sono vivo.
Gianni guarda alle mie spalle, fuori, attraverso i vetri del bar.
«Piove.» Sorride. Versa anche per lui.
Non mi giro a guardare. Stavolta mi servo da solo. Bevo. Io e Nico ci siamo ubriacati la prima volta qui. Eravamo piccoli. Il quartiere era come una casa, solo molto più grande di quelle dei nostri genitori. Avevo pagato io, anche quella volta.
Del suo corpo Gianni avrà già deciso: una telefonata giusta, amici di amici, uno sfasciacarrozze che smaltisce tutto.
Io adesso sto con le bestie. E per le bestie gli sfasciacarrozze aprono anche di sabato notte.
Guardo l’orologio sulla parete. C’è ancora tempo. Voglio bere ancora. E ancora. E ancora.
Fino a non sentire più il bruciore sulla pelle.

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