Tiro da tre
di Eleonora Bassi

C’era questa cosa, che io volevo del melone, un martedì sera, e l’ortolano stava proprio oltre il cancello di casa.
C’era da farsi i quattro piani a scendere ̶ okay ̶, e poi a salire, con almeno due meloni in una busta.
Se dovevo togliere il pigiama, fare i quattro piani, rifare i quattro piani, rimettere il pigiama, tanto valeva farlo per due meloni.
Non mi preoccupava mica il peso, dei meloni. Non il peso su di me.
Era il sacchetto, a preoccuparmi. Si sarebbe tirato, fino quasi al cedimento.
Ogni singolo piano avrei pensato al sacchetto che si allentava e si allentava, e poi si sarebbe rotto.
Questo, moltiplicato per quattro.
Sarei rimasta con un sacchetto rotto e la voglia di melone svanita.
Era così che mi passavano le voglie. Era così che mi passavano le voglie da circa tre mesi.
Due mesi e mezzo, forse.
Alle feste c’era da sapere con chi tornare a casa, e c’era da saperlo prima di andarci, prima di scegliere l’abito e la piega.
Quel martedì sera lì, era uno qualsiasi, alla fine ero scesa.
Piano tre piano due piano uno. Terra. Bottone. Cancello.
L’ortolano si chiamava Le mele.
Aveva una figlia a cui ero simpatica, perché portavo il suo stesso nome. Il 21 febbraio le avevo detto: «Buon onomastico» e lei aveva fatto un sorriso che non mi aspettavo, per un augurio così banale.
Aveva occhi azzurri, mica di un azzurro classico. Secondo me era anche un buon partito. Le mele lavorava molto.
Da allora io ero diventata Quellasimpaticacheabitaquadifronte, e quando avevo la febbre mi portavano la frutta a casa, piano quarto.
Di solito veniva un silonese, senza tanti problemi di sacchetti.
Ma questo non c’entra con la faccenda dei meloni.
E insomma i meloni sul banco erano tanti, e c’era da toccarli, premendo sulla buccia con le dita ben distanziate fra loro.
Era una cosa che potevano fare tutti, ma mica tutti la sapevano fare.
Un po’ come il tiro da tre.
L’ortolano mi diceva: «Devi tastarli così, per capire quanto sono maturi, e scegliere quello che fa per te», e intanto io puntavo i piedi, sistemavo le gambe, aperte quanto il bacino, cercavo quell’invenzione strana chiamata baricentro, che le cose senza equilibrio si capiscono meno ̶ così dicevano a basket ̶ e quella lì era una posizione che ti aiutava.
Certo, ti aiutava se ci stavi lontana, dalle cose, insomma, se stavi oltre la linea del tiro da tre.
Io nelle cose mi ci ficcavo, e allora spesso la storia del tiro da tre non funzionava mica.
Il primo melone non mi convinceva, così ho fatto scorrere il pollice sulla buccia, nella parte in cui le linee bianche si intrecciano.
Nel tiro da tre molto dipende dal pollice. Da come scegli di posizionarlo.
Il mio pollice è piegato su se stesso, e allora non c’è tanto da fare.
Servono un paio di palleggi, prima. Assestarsi. Non sempre ne ho il tempo.
È una cosa fra me e il canestro, difficile da spiegare.
Il sole era sparito da un po’, e l’ortolano non smetteva di guardarmi, o forse era solo un’impressione mia, così, mentre il pollice si sistemava, ho detto: «Sto cercando di capire se è una voglia di meloni maturi».
L’ortolano ha scosso un po’ la testa, dicendo: «Eh, se prendi un melone maturo devi averne voglia almeno oggi e domani».
«Pensavo di prenderne due.»
«Eh, allora oggi, domani e dopodomani.»
«Anche se non sono da sola?»
«Ah… se non sei da sola no. Questo cambia le cose…»
Comunque io vivevo sola in una casa popolare.
Era una casa di ringhiera tutta gialla, in una via che di nome faceva Giangiacomo, ma era una via breve.
Il mio monolocale era in fondo a un corridoio tipo quelli delle navi Siremar.
Luci intermittenti al soffitto e cabine a destra e a sinistra. Come fossero dentro, lo potevi solo immaginare.
Io non stavo sulla ringhiera, però la guardavo, dalla finestra.
L’agente immobiliare aveva detto: «L’appartamento AFFACCIA…».
Non ho ancora capito se sulla ringhiera sia meglio affacciare o viverci.
Poi ho scelto i meloni, e ho posato i sessantasette centesimi, per evitare il resto, sul piano di legno. La moglie dell’ortolano mi sorrideva.
Proprio mentre infilavo i miei meloni nel sacchetto, è entrata una ragazza. Un ragazzo l’ha raggiunta poco dopo, ma si capiva subito che erano insieme.
Il ragazzo parlava con il silonese, tenendo un piede sopra il gradino del negozio, mentre la moglie dell’ortolano mi diceva: «Guarda che peccato, questa città, che costringe due ragazzi bravi ad andarsene. Sono anni che vengono qui, e dopo ci si affeziona come a dei figli».
Io ascoltavo la donna, pensavo a mia madre, e intanto tenevo il sacchetto poggiato sul ginocchio destro. I meloni erano proprio tondi e scivolavano.
Ho sentito soltanto il ragazzo dire: «Torniamo a Rimini».
Allora ho diretto lo sguardo altrove.
Fuori, al lato opposto della strada, con le quattro frecce che ticchettavano, c’era una macchina blu con una coppia dentro. La coppia non stava parlando, guardava me, ed era chiaro che quelli lì erano vecchi, ed era chiaro che quelli lì erano i genitori del ragazzo. O della ragazza.
Ora lo sapevo: il sacchetto si sarebbe distrutto, lento, e allora anche la voglia di melone è evaporata.
Non faccio caso al respiro, mentre palleggio. Nemmeno se faccio un’entrata.
Sulla linea da tre, invece, sì.
Quando piego le ginocchia tiro in dentro l’aria. Poi salto e la butto fuori.
Ma fra aria dentro e aria fuori c’è un momento in cui trattengo il fiato, mentre i talloni si staccano da terra, e secondo me tutti lo fanno. Tutti. Anche Belinelli.
È lì che diventa una faccenda fra me, il canestro e la distanza.
Mi sono avvicinata alla ragazza e ho detto: «Scusate, posso regalarvi uno di questi?», porgendole un melone. Lei ha chiesto: «Perché?» e io ho detto: «Così».
La ragazza l’ha afferrato, l’ha messo nella borsa e non ha detto altro.
Non ha mai guardato me, e si è avvicinata al ragazzo.
Lei non lo sapeva, che anche io ero dentro la linea, mica oltre.
Le lacrime erano più rapide del solito, quel martedì. Una specie di scorrimento veloce.
Ho incastrato sotto il braccio il melone che mi restava, proprio all’altezza del gomito, e ho fatto quello che faceva paura.
Era una cosa che potevano fare tutti, ma mica tutti la sapevano fare.
Inclinare il polso. Sistemare il pollice.
Assestarsi.
Tornare a casa.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 29. Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.