Mi basta il tempo di morire
di Silvia Cannarsa

Me ne stavo seduta ad aspettare il mio turno dalla ginecologa e controllavo le notifiche del cellulare. Continuavo a pensare a tutti i vecchi del mondo che si offendono perché fin dall’alba dell’adolescenza stiamo attaccati ai telefonini. Agli squilli, prima, e ai vocali da sei minuti, adesso. Effettivamente, nella sala d’attesa eravamo in quattro e, a parte me – legittimata a guardare il telefono, dato che avevo appena evitato una crisi di panico in via Sacchi –, anche tutti gli altri avevano il naso incollato allo schermo. Per distinguermi, avevo voglia di tirare fuori il libro dalla borsa e urlare: «Io ve lo giuro che di solito leggo» anche se non era vero, non del tutto, perché erano mesi che mi portavo dietro quel tomazzo da milleduecento pagine che avevo sì e no aperto. Ma cosa ci potevo fare se non mi acchiappava più niente? Ci avevo provato. Cristo, ci avevo provato davvero ad appassionarmi a qualcosa che non fosse il mio lavoro, le mie amiche o me stessa, ma ero arrivata alla conclusione che quel periodo della mia vita fosse fatto così, non esisteva altro, né la politica, né la musica, né la cultura, perciò dovevo smetterla di arrovellarmi: come tutti i periodi, anche quello sarebbe passato. No?
«La signora Rosso?»
«Mhm» ho fatto senza alzare la testa, continuando a scrollare la home di Facebook. Ho registrato solo lateralmente che la segretaria mi stava dando della vecchia.
«È il suo turno.»
«Ah.» Mi sono alzata di colpo, rovesciando la borsa con dentro assorbenti, caramelle, un panino mezzo mangiato e il libro di milleduecento pagine, intonso. Mi sono messa a raccogliere tutto.
«La dottoressa la sta aspettando.» Si è girata e se n’è andata sbatacchiando la coda di cavallo, tronfia.
Che stronza, ho pensato. Però aveva ragione lei, sempre con ‘sto cazzo di cellulare in mano.
Sono entrata nello studio.
Era il 20 agosto. C’erano quarantadue gradi all’esterno. Il palazzo dell’Ottocento nel quale la dottoressa Giovis aveva lo studio era un forno con mobili antiquati, o antichi, non sapevo scegliere. Era la prima volta che andavo da lei, me l’aveva suggerita un’amica, e mi ha colpito la sua stretta di mano da strangolatrice. Era una cinquantenne bassa e baffuta, con splendidi denti bianchi tutti uguali e dritti. Di certo ascoltava cantautorato italiano, mi sono detta, Battisti, e di certo non faceva fattura. Che poi anche a me piace Battisti, e comunque sulla fattura mi sarei impuntata.
«Nome e cognome» ha dichiarato la Giovis mentre apriva una tabella Excel sul suo computer anni ‘90. Lo ha detto, non lo ha chiesto.
«Alice Rosso.»
«Peso.»
«Cinquantasei, tipo?»
«Se non lo sa lei. Dopo verifichiamo. Fuma.»
«Sì?»
«Quante.»
«È stato un periodo stressante. Sette, otto al giorno?»
La Giovis ha arricciato il naso, e io mi sono rimpicciolita sulla sedia.
«Alice, facciamo chiarezza, perché qui mi sembra che stiamo giocando. Al prete si dicono le cazzate, alla ginecologa si dice sempre e solo la verità. Quante.»
Ero diventata un puntino minuscolo, ormai. «Venti, ma di tabacco, non quelle vere.»
La Giovis ha tentennato prima di scrivere sulla tabella, poi ha aggiunto la voce: incallita.
«Voglio smettere però» ho sussurrato. La mia voce era un filo di imbarazzo.
«Mestiere.»
«Eh, questa non è facile. Cameriera, per ora. Le spiego: lavoro in un locale che è anche un’associazione culturale e io organizzo gli eventi, però sto anche dietro al bancone, o servo ai tavoli, se c’è bisogno vado pure in cucina, però non so bene come definirmi.»
La Giovis non ha reagito. Ha scritto: cameriera/in cerca
«Rapporti sessuali.»
«Eh, ogni tanto, no?»
«Ha una relazione stabile.»
«Mhm. Sì, da cinque anni, più o meno?»
«Lui la tradisce.»
«Oddio, spero di no?»
«Lo fate protetto.»
«Ecco, è proprio per questo che sono qui.»
La Giovis ha scritto: NO.
Io ho sospirato, guardando lo schermo del computer.
«Quanti anni ha.»
«Chi? Io? Lui? Io ne ho ventott-no, ventinove.»
La dottoressa si è tolta gli occhiali e ha intrecciato le dita, posando le mani sulla tastiera del pc.
«Direi che a questo punto, a quasi trent’anni, nel 2019, dovrebbe sapere che si devono usare i contraccettivi, se si vuole evitare una gravidanza. Lei la vuole evitare, no?» Ha pulito le lenti degli occhiali e li ha indossati di nuovo. Serissima.
Io intanto mi torcevo le mani: «Sì, certo, certo che la voglio evitare. Non so cosa mi sia preso. Sono stata attenta tutta la vita, ma tipo ossessiva, eh? Non so, davvero. Voglio rimediare.»
A quel punto avrei accettato qualsiasi cosa mi avesse prescritto: pillole, spirali, anelli, cerotti. Anche il cianuro, così la chiudevamo lì.
«Alice, lei non me la racconta giusta. Mi dica, ha una nuova relazione.»
Ho sobbalzato, in quell’istante conscia che chiunque avesse voluto vedere ciò che stava succedendo nella mia vita, lo avrebbe visto. Se ero riuscita a tenerlo nascosto per mesi era solo perché le persone intorno a me erano distratte dalle loro vite.
Accarezzai l’idea di mentirle, fingendo di essere la ragazza che ero sempre stata, una tipa a modo che aveva attraversato tutte le fasi della crescita ed era ora un’adulta coscienziosa che pagava le bollette e non dimenticava di versare l’affitto il cinque del mese, che non faceva scadere le uova in frigo e faceva la raccolta differenziata, carta, plastica, umido, secco, torturandosi all’idea di non avere un deposito per l’olio esausto vicino a casa. Una che al liceo non si era mai data malata per non passare di latino. Una che amava il suo fidanzato e non lo avrebbe mai tradito.
Peccato che da un paio di mesi non fossi più quella lì. D’un tratto mi ero resa conto di quanto fossero stati belli i miei primi ventott-no-ventinove anni, quando ero la cara ragazza che tutti i genitori avrebbero voluto avere come figlia. Non troppo secchiona, non troppo ribelle.
Ho cominciato a sudare, ma i quarantadue gradi c’entravano poco: era sudore freddo. Mi sono guardata intorno in cerca di una via d’uscita. I mobili di legno scuro – antiquati nel gusto, sì, indubbiamente antichi, comprati da un antiquario e fatti restaurare – erano soffocanti. Il cielo fuori dalla finestra – anche gli infissi erano antiquati, antichi e restaurati – era il cielo plumbeo di un agosto afoso, schifoso, puzzolente e pieno di cemento moscio. Dietro al paravento cinese – autentico o no? – c’era il lettino per la visita, freddo e alto, con lo schermo per le ecografie di tutte quelle future mamme insopportabilmente felici con i loro maritini felici e le loro dosi di ormoni della maternità, anche loro felici.
«Sì, ho una relazione. Una relazione extraconiugale.»
«Ma lei non è sposata.»
«Be’, allora lui ha una relazione extraconiugale con me.»
La ginecologa ha annuito. «Capisco» ha detto.
Avrei voluto urlare: «Ma cosa vuole capire lei?» Cosa vuole capire lei che ascolta Battisti tutto il giorno e se ne sta lì, a guadagnare migliaia di euro senza fare lo straccio di una fattura e se ne torna a casa coi suoi baffi e i suoi denti dritti e la sua stretta di mano da carcerato, per fare cosa, poi?, per ascoltare a ciclo continuo Il tempo di morire, motocicletta, dieci acca pì, tutta cromata, è tua se dici sì.
Il mio problema è che ho il cuore malato, e so che guarirei. So anche di amare un altro, ma che ci posso fare, sono una disperata perché lo voglio amare.
Stanotte. Adesso. Sì. Mi basta il tempo di morire-ire.
Ho raccolto le idee, ho respirato a fondo, ho smesso di cantarmi Battisti e di accusare la mia incolpevole ginecologa dei miei errori.
«Non sono incinta» ho detto contro ogni logica.
«E le dispiace.»
«È una domanda?»
La Giovis ha scosso la testa.
Qualche giorno prima avevo cominciato a piangere sullo zerbino di casa, con la chiave nella toppa, incapace di aprire la porta. Continuavo a pulirmi le scarpe, singhiozzando come un vitello appena nato. Compiangevo la mia intera esistenza, consapevole di avere il ciclo; sapevo che nell’arco di dieci minuti mi sarebbe venuto da ridere, e poi magari da urlare, eppure non potevo fare a meno di piangere pensando che quel ciclo fosse una manna dal cielo, perché avevo davvero paura di essere incinta.
Non vedevo l’ora che arrivasse, quel ciclo, ma il suo ritardo era l’unica testimonianza della lunga e intensa scopata della settimana prima. E non volevo, proprio non volevo lasciarla andare, perderla tra le cose che succedono, dimenticata e sepolta sotto tutte le assurdità che uno fa nella vita. Volevo conservare quella sensazione di pienezza, avere dentro qualcuno che non vuoi che si separi da te. Quella mano sulla guancia, quella risata dentro lo stomaco.
Ma poi il ciclo era arrivato, puntuale come sempre, anzi leggermente in anticipo. E mi ero stupita. Cristo, non volevo certo essere incinta, certo non di qualcuno che non avrei potuto avere. E pure potendolo avere, di sicuro non avrei voluto farci un figlio subito. A maggior ragione, se non lo potevo avere. Ecco, esatto. A maggior ragione se non potevo stare con lui.
La ginecologa mi ha fatta sdraiare sul lettino e mi ha visitata.
«Ha proprio un bell’utero» mi ha detto. «E guardi che belle ovaie.»
«Grazie mille» ho risposto prontamente, come una brava ragazza, e ho guardato il monitor, vedendo il mio utero pulsare, le sue pareti elastiche rimbalzare contro l’ecografo. Era proprio un bell’utero.
Mi ha prescritto la pillola e mi ha stretto la mano.
Quando sono uscita, la segretaria mi aspettava sorridendo. La sua coda di cavallo tronfia mi sembrava un po’ meno rigida di prima, morbida sulla nuca.
«Sono duecentoventi. Con fattura» ha detto.
Alla faccia. Ho sorriso di rimando. Ho aperto il portafoglio, pregando. C’erano centoquaranta euro, dentro.
Mi sono mordicchiata le pellicine dell’anulare sinistro.
«E senza?»

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