Gourmet
di Giuseppe Checchia

Per come è fatto lui, al pizzaiolo gourmet piace avere tutto sotto controllo: la lista delle ordinazioni, gli ingredienti sistemati in base ai tempi di cottura; impasti e birre artigianali accuratamente selezionati da produttori che usano materie prime locali, insomma niente malti canadesi, ucraini, ma solo frumenti italiani, accuratamente selezionati. Dopo tanti sacrifici e anni passati a imparare il mestiere, il pizzaiolo gourmet possiede finalmente un locale tutto suo, piccolo ma ben arredato, ci sono perfino dei quadri alle pareti che testimoniano il suo senso estetico.
Eppure, nonostante il bel locale e gli ingredienti di prima qualità, ogni volta che entra un cliente il pizzaiolo gourmet ha un tuffo al cuore e deve usare tutte le sue forze per guardare negli occhi colui che in fin dei conti è solo uno che ha fame, uno pronto a sganciare denari, un essere umano con le sue paure proprio come il pizzaiolo gourmet. Però che farci se si sente terribilmente insicuro, se arrivano i dubbi e iniziano a sudare le mani, che magari la pizza è cotta male oppure senza accorgersi nell’impasto è andata a finire l’etichetta del pomodoro Belmonte, che farci insomma se la sua mente in automatico, da sempre, pensa che l’errore è dietro l’angolo, e ogni volta rischia di essere fatale.
Per queste ragioni le parole escono dalla bocca tutte traballanti e l’istinto, quel maledetto istinto che l’accompagna fin da bambino, gli suggerisce di servire in fretta il trancio che l’indice del cliente sta indicando forse da troppo tempo, per poi scappare in cucina a controllare la cottura delle pizze appena infornate o la consistenza molliccia dell’impasto del giorno dopo, anche se non c’è proprio nulla da controllare. È per non restare da solo con il cliente che il pizzaiolo gourmet si nasconde in cucina, nell’unico angolo che non è visibile dall’esterno, dove lava le mani guardandosi in uno specchio sporco di farina ma perfino laggiù si sente osservato, sente addosso il suo sguardo che osserva se stesso, che lo giudica impietoso proprio come quello del cliente che adesso lo chiama dall’interno. E di nuovo l’insicurezza stringe il cuore del povero pizzaiolo gourmet, perché magari il cliente si lamenta della cottura o dell’etichetta che vogliadio non è finita tra le noci di Macadamia e il gorgonzola di Novara, così urla un «Arrivo-o» che tradisce che se la sta facendo sotto. Eppure resta ancora un po’ davanti allo specchio, a giudicarsi, perché l’istinto suggerisce di nascondersi, che gli altri sono pericolosi, anche i clienti, soprattutto i clienti, basta un commento e buttano al vento anni e anni di selezione delle materie prime. Perché gli altri ti guardano dentro, ti osservano con un ghigno mentre annusano la tua paura, ma il lavoro è lavoro, si dice, e fa uno sforzo per tornare al bancone, un altro sforzo per elencare senza commettere errori i suoi ingredienti accuratamente selezionati, così selezionati forse proprio per vincere quella antica e consolidata paura di sbagliare che attanaglia il pizzaiolo gourmet da molto prima di diventare un pizzaiolo gourmet.
Per fortuna il cliente non si lamenta, ed è un bene, l’indice punta un altro trancio, quello con le patate del Fucino e il cacio di Pienza, e il pizzaiolo gourmet tira un sospiro di sollievo, quasi sorride, per la prima volta sente e ricorda che la vita è un’occasione, che è bella la vita, e avere paura è un gran casino, rovina sempre tutto. Allora serve in fretta il trancio e torna in cucina anche se non c’è nulla da controllare, così eccolo di nuovo davanti allo specchio a guardarsi e giudicarsi. Ma la pace che gli procura il non essere visto non dura, non può durare: poco dopo si sente di nuovo chiamare. Il cliente deve avere apprezzato, altrimenti perché ordinare un altro pezzo? Però stavolta vuol farsi dare un consiglio e a quella richiesta il pizzaiolo sente lo stomaco attorcigliarsi, le mani sudare, ma il lavoro è lavoro, così si fa forza e serve un trancio di quella che reputa la sua creazione migliore, un impasto di farine antiche, integrali, con fichi di Cosenza e alicette di Cetara, e osserva sottecchi l’espressione del cliente mentre addenta il suo lavoro che in fondo è la sua vita, e sente un terrore indicibile, che magari ora si accorge della goccia di sudore che è caduta nell’impasto, ma è impossibile, si dice il pizzaiolo, che lui ha il terrore delle gocce di sudore nella pizza, butta l’intera teglia se ha il minimo dubbio di contaminazione, invece gli altri pizzaioli non ci pensano proprio, lo considerano normale, nel locale dove lavorava da ragazzo, dove ha imparato il mestiere, il capo diceva che senza sudore la pizza viene una schifezza, ma il pizzaiolo gourmet non ci ha mai creduto, per lui stare a posto con la coscienza è un requisito fondamentale per far bene il suo lavoro, che già è tanto sostenere lo sguardo del cliente, già è tanto avere a che fare con quelli che guardano le sue pizze accuratamente selezionate con una curva sulle labbra che forse è derisione.
Il cliente ha terminato il terzo trancio, butta l’incarto e chiede il conto, meno male. Solo allora il pizzaiolo gourmet riconosce in lui un ragazzo di nemmeno vent’anni. La legge non scritta dei pizzaioli vuole che chieda «Tutto bene?», che in teoria è solo una mossa di marketing, ma per quello gourmet è una spada di Damocle che fin dall’inizio penzolava sopra la sua testa. Così batte lo scontrino e chiede «Tutto bene?», ma lo fa con una mezza vocina che il cliente neppure sente, così deve ripetere, e ripetendo alza troppo la voce, quasi grida. Il ragazzo lo guarda un po’ stranito, «Buonissimo» risponde, ma al pizzaiolo gourmet non basta, non può bastare, non dopo tutte le fatiche e gli anni e le materie accuratamente selezionate. «Sicuro che l’impasto era cotto bene?» chiede un po’ in ansia. «Il pomodoro bello croccante?» Il ragazzo aggrotta la fronte, assicura che era tutto ottimo, ma al pizzaiolo sembra di aver colto una vena ironica in quel «Buonissimo» detto in automatico. «Davvero se c’è qualcosa che non va, dimmi, ti prego.» Il ragazzo paga mentre il pizzaiolo non ha ancora ricevuto una risposta, e d’un tratto si sente distrutto, gli crolla addosso il locale, nonostante la primissima qualità la pizza non è buona come aveva sperato, altrimenti il cliente l’avrebbe detto da sé «Buonissimo», invece se non era per la sua domanda se ne andava e magari non tornava più, sarebbe passato alla concorrenza, e a quel punto, il pizzaiolo gourmet lo sa, a quel punto sarebbe stata la fine, gli anni e i sacrifici e le migliori selezioni di ingredienti sarebbero andate a farsi benedire, e allora non sarebbe restato che chiudere battenti perché quel mestiere non era fatto per lui, ma se fare il pizzaiolo non era per lui allora che gli restava, a che serviva il bel locale piccolo ma accogliente, i quadri alle pareti?
«Facciamo così», quasi urla richiamando il cliente che è già con un piede in strada. «Facciamo così» ripete il pizzaiolo mentre gli restituisce i soldi, perché lo sa che la pizza non era all’altezza, che faceva schifo, e per come si sono messe le cose un cliente non è proprio in condizioni di perderlo, meglio perdere un piccolo guadagno che un cliente che magari domani porta altri clienti. Il ragazzo intasca i soldi stupefatto, ripete poco convinto che non è necessario, davvero tutto era ottimo, però i soldi se li riprende e una prova più schiacciante di quella per il pizzaiolo gourmet non ci potrebbe essere. Meglio perdere un piccolo guadagno che un cliente, soprattutto se è l’unico della giornata, si dice il pizzaiolo mentre chiede mille volte scusa, scusa per l’impasto indurito, scusa per il pomodoro ammollato, per le noci sgusciate male, e scusa per il sudore, sì, nonostante le accortezze, nonostante le teglie buttate in via precauzionale, il sudore nella pizza ci è andato, ed è per questo che il cliente non ha detto «Buonissimo» di sua iniziativa, dal cuore, ma ha aspettato che fosse lui a domandarlo. Il ragazzo si smarca imbarazzato con un «Arrivederci» che ha il sapore di un addio, lasciando finalmente il pizzaiolo gourmet da solo nel suo locale ben arredato, davanti alle pizze selezionate ma evidentemente non abbastanza, a guardare la cassa vuota, ma è meglio così, si dice, che almeno adesso non deve sforzarsi di essere un altro, ed è proprio allora che sente il puzzo di bruciato, che più del sudore e degli ingredienti processati male, è la vera nemesi di ogni pizzaiolo.
La cucina è piena di fumo bianco e nero, ovunque: è già arrivato al bancone, alle pizze. Così il pizzaiolo raggiunge quello che fino a un momento prima era il suo paradiso di invisibilità, apre lo sportello del forno elettrico, tira fuori la teglia bruciata e nel fumo si sente per la prima volta a suo agio, nascosto, anche se il respiro ne risente, poi butta la teglia, spalanca la finestra per far pulire l’aria. «Tutto bene?» grida un passante allertato, grida all’interno, il pizzaiolo lo sente e non risponde, perché sa che quella domanda è una falsità, proprio come la risposta del cliente, e non risponde, resta nel suo angolo nascosto anche quando il fumo è ormai ridotto a una nebbiolina. Ma in quella ritrovata visibilità, il pizzaiolo si mette a pensare che il fumo non è la nemesi di nessuno, il fumo è buono, più buono certamente della sua pizza venuta male. Il fumo ti nasconde. E si avvicina al forno rimasto aperto, rimasto acceso, che è vuoto, come è vuota la cassa dietro al bancone, né lo spegne, resta immobile davanti a quel forno di seconda mano che sarà suo tra qualche anno di rate, quel forno che è la sua storia, la sua vita, ma che gli ha dato solo dolori, solo pizze venute male, ed è sempre più vicino, col mento all’altezza dello sportello incandescente perché la pizza cuoce a centoquaranta gradi, proprio come la pelle diventata rossa come il pomodoro Belmonte, friabile come gli impasti antichi, e ora sa come si sentono le sue pizze, sente il dolore, sulla faccia e nel cuore, per quella partita che sapeva persa in partenza eppure ha voluto giocare lo stesso, illudendosi che la qualità degli ingredienti fosse sufficiente e invece si sbagliava, e lo capisce adesso che la testa è dentro al forno e la pelle si abbrustolisce come un gorgonzola tirato fuori in ritardo, come la pizza che ha buttato, e con gli occhi vede la ventola del forno, proprio come le sue pizze, non fa che girare, finché gli occhi stessi non diventano di gorgonzola, incapaci di giudicare, nemmeno davanti allo specchio impolverato di farina, perché non ci sarà più nessun cliente, nessun impasto a guardargli dentro, a conoscere la sua paura, non più.

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