Come ho perso la guerra

Autore: Filippo Bologna
Casa editrice: Fandango
Pagine: 268

Tra autobiografismo e finzione, Filippo Bologna esordisce con una storia di provincia, lotta e vincoli famigliari. Anche in Toscana, in un piccolo borgo bagnato dalle acque termali, si combatte una guerra che ha attraversato tutta la seconda metà del secolo, quella alla globalizzazione, qui incarnata da una società di sfruttamento delle risorse acquifere, l’Aquatrade. Il progresso divora i paesaggi, sfigura le architetture, cancella le memorie. Ma non quella di Federico Cremona, rampollo della più importante famiglia del paese, che nelle campagne ancora intatte allestisce la sua resistenza armata inseguendo con lo sguardo del passato il paese che fu. La resistenza stessa si rivela un viaggio nella memoria, un impossibile tentativo di riappropriarsene, non tanto attraverso la lotta armata, da leggersi piuttosto in chiave simbolica, quanto attraverso l’autoanalisi, che porta all’amaro bilancio della sconfitta. È in quest’ottica che si può comprendere l’apparente cesura che si staglia tra la prima parte del romanzo e la seconda, parti che apparentemente seguono percorsi diversi, o che quantomeno non sembrano adeguatamente supportati dalle esigenze narrative, ma in realtà unite dal tema della memoria e dalla sua modificazione. La prima parte è dedicata all’ “agiografia” della famiglia Cremona, del “bisnonno che frustava i contadini”, della tenuta di famiglia, un castello medievale rifatto e insieme motivo di orgoglio e di imbarazzo, del nonno e di suo fratello. Federico, voce narrante e alter ego dell’autore, riconduce la saga degli antenati al tempo dell’azione attraverso un’interpretazione antropologica, forse un po’ grossolana, dei caratteri di dominanza/recessione mendeliani, facendosi interprete delle personalità del nonno e di suo fratello, un’altra declinazione del “voglio, voglio, voglio”, dell’ansia di agire, che trova nell’Henderson di Bellow un recente e autorevole patriarca. Federico si fa carico della lotta per preservare il borgo natio dall’invasione dei nuovi barbari capeggiati da Ottone Gattai, titolare dell’Aquatrade. E qui si apre la seconda parte, quella della resistenza, della critica alla globalizzazione, l’endoscheletro del romanzo. Le diverse fasi della lotta, prima democratica poi armata, porteranno alla dolorosa presa di coscienza della sconfitta.
“Bisogna desistere, arrendersi al consumismo, al conformismo, al turismo, alla delocalizzazione… arrendersi a tutto. La resa porterà alla vittoria finale, ne sono sicuro”. La rivoluzione reazionaria diviene resistenza passiva e strumento propositivo, chiave di lettura per una comprensione più ampia del fenomeno della “glocalizzazione”.
Bologna porta avanti la sua battaglia anche attraverso le scelte stilistiche e la lingua del romanzo. Il libro si apre con una citazione da Bianciardi, al quale l’autore è stato paragonato. Lo scrittore grossetano è stato feroce e ironico critico dell’Italia industrializzata del boom economico e Bologna sembra volersi porre sulla sua scia in una linea continua, citandolo come autorevole nume tutelare.
Le scelte stilistiche divengono oggetto di riflessione problematica, e la necessità di opporsi all’omogeneizzazione della globalizzazione (anche linguistica) si traduce nella ricerca di una lingua che si fa, a tratti, antica (come osserva Nesi nella quarta di copertina) ed esuberante. Tuttavia rispetto a quella di Bianciardi risulta meno efficace, perché quasi del tutto scevra da plurilinguismo e contaminazioni dialettali, che Bologna sembra non riuscire a padroneggiare, rinunciando così a dar forza all’autoctonia che pervade il romanzo. Questa sensazione di incompletezza si può adattare anche all’architettura del libro, la cui suddivisione in capitoli estremamente sintetici e spesso solo descrittivi toglie slancio alla narrazione, la quale sembra risentire della mancanza di una armonia che unisca le sue diverse parti, alcune (la storia d’amore del protagonista) trattate con troppa poca accuratezza. La sensazione che si ha a fine lettura è di avere a che fare con un narratore di sicuro valore, con un romanzo antico e contemporaneo, ma ancora lontano dalla perfezione. Questo esordio ha in sé tutti i limiti e i pregi di un’opera prima. Un solo romanzo non basta per fare entusiastiche previsioni sul futuro di un giovane narratore, tanto più nel caso di Bologna, che tanto attinge dall’autobiografismo. Ma è un bel romanzo questo, e il talento narrativo dell’autore riesce spesso a incantare. Vale la pena abbandonare il sudoku sulla spiaggia per leggerlo.
Lorenzo Gramatica
Questo articolo è stato pubblicato in recensioni. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

Scrivi un Commento

Il tuo indirizzo Email non verra' mai pubblicato e/o condiviso.

Puoi usare questi HTML tag e attributi: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>