Vini al bicchiere birre in bottiglia
di Bianca Lupi

Dopo il settimo bicchiere mi sembra tutto uguale. Non importa che dentro ci sia vodka, gin, rhum o acqua perché, tanto, già dal terzo non ci capisco più niente. È questa la dura sorte di chi fa finta di essere astemia, ma beve e poi si sbronza perché, alla fine, astemia lo è davvero.
Questa sera, però, io e la mia amica Iaia abbiamo due buone scuse per festeggiare (attitudine che nel nostro gergo ha una sinistra assonanza con dimenticare). Dobbiamo infatti esaltarci (fino, appunto, a scordare ogni cosa) per due eventi epocali nelle nostre esistenze.
La prima è la mia promozione da fidanzata in stage a single a tempo indeterminato. Oggi pomeriggio il mio quasi-uomo mi ha mollato senza la minima riserva, dopo che gli ho lasciato ventidue messaggi in segreteria perché, per ben quaranta minuti, era stato irraggiungibile al cellulare. Per quanto ci pensi, però, non riesco a dargli torto: deve averlo terrorizzato l’escalation di rabbia e ossessività. Il primo messaggio, infatti, era gentile e disponibile, ma più passavano i minuti (anche i secondi, a dire il vero) più la mia paranoia montava allucinata e così, alla fine, l’ultimo si era condensato nella velata minaccia: «Appena ti becco ti spacco la testa, con chi stai scopando, stronzo?». Superfluo dire come ha reagito lui (minacciando la denuncia di stalking e di raccontare in pubblico le mie passioni sessuali) e del perché io sia ora davanti a un boccalone pieno di una bevanda azzurra con chiazze gialle dentro la quale galleggiano sparuti dei cubetti di ghiaccio a forma di pene.
La seconda (parte della seconda) è che Iaia, la mia migliore amica, oggi ha scoperto di essere lesbica. Cioè, non l’ha proprio scoperto. Diciamo che sua madre ha inavvertitamente letto un messaggio che la sua compagna (memorizzata sotto il nome “Amore”) le aveva scritto sul telefonino e ha immediatamente realizzato, visto che parlava al femminile, che il partner di cui fino a quel momento Iaia le aveva parlato aveva le tette. Quindi oggi è come se Iaia avesse scoperto, per la prima vera volta, che non è più etero. Non mi metto neanche a raccontare quello che è successo a casa sua. Anzi, siccome sono una pettegola, lo faccio: la madre legge il messaggio dal cellulare lasciato per sbaglio sul tavolo da pranzo, inizia a piangere, poi pensa che forse ha letto male, chiama il padre e lo fa leggere anche a lui, lui inizia a bestemmiare («Lo sapevo, lo sapevo che era lesbica! A che cazzo di donne piace il calcio?», urla), poi dice che forse è davvero un errore, allora chiama il fratello che abita dall’altra parte di Roma, gli fa fare (con la promessa di pagargli eventuali multe e autovelox) la traversata della città con il traffico di punta (perché la gente sta partendo per il ponte), chiede spiegazioni, il fratello resta basito, urla a sua volta, tira un paio di calci alla porta, due o tre testate al muro e quindi si illumina: telefoniamo e vediamo se la voce è quella di un uomo o di una donna. La conversazione dovrebbe – da quanto sono riuscita a capire sommando le lacrime della madre, del padre e del fratello di Iaia a quelle di Iaia stessa e della sua ex-compagna – essere andata così.
«Pronto, ma chi sei?», domanda il fratello.
«Come chi sono?», chiede scocciata la Fede (il nome dell’amore-ex-compagna-lutto-momentaneo) che pensa a uno scherzo.
«So’ er fratello di Ilarria, e tu? E tu chi cazzo sei?».
«Io sono Federica, la fidanzata di tua sorella».
«Come che? Ma che stai ‘a di’, stttrronza! Mi’ sorella mica è fradicia!».
Secondo la mia fedele ricostruzione, che potrebbe essere paragonata con successo al consueto plastico di “Porta a Porta” seguente omicidio o strage od orgia, i due hanno cominciato a insultarsi dandosi reciprocamente dei bugiardi, dei figli di puttana e cose così. Alla fine il fratello ha chiamato Ilaria (con la madre e il padre che urlavano, piangevano, bestemmiavano, come degli amichevoli rumori di sottofondo) e le ha detto che era meglio se non tornava più a casa per un bel pezzo congedandola con «’A stronza, pensavi che non t’avemo scoperto?».
Anche Federica ha chiamato Ilaria, e ha detto esattamente le stesse cose. L’ha mollata senza giri di parole (anche perché ne ha usate solo due: «Ti lascio») e le ha anche fatto notare di come per nove lunghissimi anni lei avesse detto di aver fatto outing, mentendo senza il minimo pudore mentre «mi guardavi negli occhi».
Insomma, una di quelle situazioni nelle quali il terribile detto «Tutto viene a galla» si dimostra più veritiero che mai.
La colpa però, credo, non è né mia né di Ilaria. La colpa è delle cose che vanno troppo veloci, troppo lente, poi ristagnano, quindi si muovono isteriche, e ritornano placide. Non dire una cosa per troppo a lungo fa supporre che ormai sia assodata per i più; ed è questo che è successo con Iaia. E forse anche con me.
Insomma, adesso siamo qui, in questo bar di Centocelle con i nostri errori e le nostre paure, che sono identiche a quelle delle due ragazze di fronte a noi (che alla fine siamo sempre noi, ma riflesse nello specchio) e anche a quelle distanti chilometri e chilometri. La paura di restare sole, di non essere accettate, di ingrassare, di perdere i capelli, di ridurci come surrogati di Platinette, di non essere poi capite, e dimenticate, e odiate. Un sacco di paure che si confondono, fino a diventare una cosa sola.
Adesso siamo solo una ragazza mora (io) con grandi occhi nocciola, lunghi capelli neri, sei chili di troppo, un imbottitissimo reggiseno a balconcino che lascia spuntare due seni decisamente fuori misura da una canottiera da marinaio (avete capito bene, una di quelle a reti che usano i pescatori del Sud per andare in discoteca la domenica pomeriggio) e poi un’altra ragazza (Iaia) con dei capelli a spazzola biondi, una montatura nera e spessa da intellettuale, un vestito microscopico che lascia intravedere tutta la biancheria (eventualmente) indossata.
Cosa potremmo pretendere dalla vita?
E cosa potremmo pensare di imparare da questa situazione?
Prendo il bicchiere e lo tracanno tutto. Un po’ di alcolico mi esce da dentro la bocca e cola lungo la scollatura, freddo e bagnato. Mi inizia a girare ancora un po’ la testa. Vado in bagno, Iaia viene con me e si trascina le borse dietro (perché i ladri sono sempre in agguato, come gli stupratori). Dentro la microscopica toilette mi abbasso fino a guardare da vicino la candida, meravigliosa, intonsa tazza di porcellana del cesso. Mi sembra un’amica in questo giorno del cazzo nel quale tutto è andato storto, e al quale seguirà un’altra giornata ancora, e poi una nuova di nuovo, e così via, fino a far esaurire tutti i giorni della mia vita come la lista di vini e birre scritta a mano su una lavagnetta e appesa maldestramente sopra la porta del bagno. Guardo l’elenco, i caratteri si confondono, li leggo ma non li capisco. E poi vomito, e Iaia vomita di seguito a me. E i nostri succhi gastrici mischiati con l’acqua, il rhum, il gin e salmone, salsiccia, stracchino, rucola, grana, melanzane, si disperde sul pavimento a scacchi.
Mi appoggio traballante alla parete e mi sembra di scorgere il viso di Francesco, anche Iaia sembra guardare interessata l’ammasso confuso di noi sulle mattonelle. Osserva con interesse e poi, puntando il dito su una montagnetta scura, ride.
«Ma quella è la Fede», dice e io annuisco.
Non ci resta che selezionare il nostro vomito acido. Camminare fra le rovine dei nostri resti corporei per ricostruire, grazie all’amica sbornia, i pezzi di vita saltati. In un mosaico di passato, presente, futuro e nausea e paura ci addormentiamo appoggiate alle pareti del bagno, soffocando di puzza, ma speranzose.

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