Marialuce
Andrea Tarabbia

Arturo Bergia è un compositore classico in crisi. Per rilanciarsi, dovrà comporre una sonata per pianoforte. Ma la sua è una crisi creativa profonda, senza soluzione, tanto insormontabile da essere quasi fisica. «Sono una balena morta. Sono un occhio cieco» ripete. Sotto lo sguardo vigile di sua moglie, la Marialuce che narra la storia del suo annientamento, il Maestro percorrerà un ripido declino verso la follia, tra sinestesie assordanti e mutilazioni reali. Andrea Tarabbia, nel suo stile asciutto e analitico, ci racconta con questa suite narrativa senza tempo un’emblematica storia di violenza domestica, di amore asettico che consuma, in un’intimità che si scompone preparandosi a un olocausto finale. Un libro in cui la passione si trasforma nella devozione di Marialuce, e l’abnegazione nell’impossibilità d’amare questo Grande Compositore Decaduto.

Marialuce uscirà a giugno per Zona editore, nella collana Novevolt. Di seguito ve ne presentiamo un estratto.

***

Poco prima di cena, ieri sera, T*** è tornato a casa molto pallido in volto. Senza togliersi il cappotto è entrato in cucina, dove stavo tagliando una zucchina, e mi ha detto Non ci sono più, Marialuce, le ha portate in casa. È rimasto in piedi aspettando che dicessi o facessi qualcosa, ma io ho continuato a tagliare la zucchina. Mi hai sentito?, ha detto allora, ho detto che le taniche di benzina non sono più nel giardino. Ha tirato fuori da una tasca una piccola macchina fotografica digitale, l’ha tolta dalla guaina protettiva e l’ha accesa. Non mi credi, ha detto, guarda. Non sapevo che T***, nelle sue perlustrazioni, avesse anche scattato delle foto alla casa. Nella memory card ce n’erano in tutto una sessantina, prese dai vari angoli del giardino: in nessuna si vede la sagoma di Bergia, e le ultime quindici, poi, inquadrano tutte la porzione di patio visibile da fuori, con lo zoom molto ravvicinato. Sono tutte uguali l’una all’altra, salvo che per l’altezza dell’erba. Vi compaiono due grosse taniche di benzina, appoggiate al muro dove tenevamo Firulì quando cominciava a fare caldo. Nelle ultime due, scattate poco prima, il patio è sgombro. Magari le ha portate in garage, ho detto, ferendomi l’indice con il coltello. T*** ha preso da un armadietto il disinfettante e mi ha tamponato il taglio, che non è profondo ma è fastidioso. Mentre mi metteva un cerotto, mi ha detto che Arturo non poteva averle portate in garage, per via dell’erba alta. Cosa vuoi che facciamo?, mi ha chiesto poi, Non lo so, ho detto, Possiamo chiamare la polizia, Forse è l’unica cosa che ci rimane da fare. La prima cosa che ho fatto dopo aver detto questa frase è stata buttare le zucchine tagliate in padella. Non so cosa dire, forse non riuscivo a pensare. T*** si è tolto il cappotto e si è seduto al tavolo, come se aspettasse la cena. Mi è sembrato che mi guardasse il collo: la stretta di Bergia mi ha lasciato due piccoli segni, poco più che due graffi. Ti fa male?, mi ha chiesto, e io non sapevo più a quale parte del mio corpo si riferisse. Abbiamo mangiato le zucchine e un po’ di formaggio con una calma irreale, e per tutta la cena nessuno dei due ha parlato. Quando abbiamo finito, T*** ha riordinato la tavola e ha caricato la lavastoviglie. Quello è il momento della sera in cui di solito mi siedo al pianoforte e suono qualcosa in sordina, oppure mi sdraio sul divano e aspetto T***. Questa volta sono rimasta in cucina con lui, appoggiata a un pensile. Il cellulare ha suonato ed entrambi siamo trasaliti. Ho pensato fosse di nuovo Cerutti, ma non era lui. Ho risposto senza dire nulla, e dall’altra parte ho sentito silenzio, e poi chiamare il mio nome.
Ci siamo buttati giù per le scale, siamo saliti in macchina e siamo partiti verso la casa. Tutto non sembra vero, tutto sembra costruito e finto. T*** guidava molto veloce e gli ho detto di rallentare per evitare che ci fermasse la polizia e ci chiedesse i documenti. È l’unica cosa che ci siamo detti durante tutto il percorso. Le mani mi sudavano, non so se per via del riscaldamento. Siamo usciti dalla cerchia dei viali per prendere la strada che porta ai colli e abbiamo visto, in lontananza, il bagliore del fuoco. Non abbiamo capito subito di cosa si trattava, perché il tratto di strada da cui sembrava provenire la luce era al buio, alcuni lampioni erano saltati e non riuscivamo a orientarci. Ci siamo fermati a qualche centinaio di metri dalla casa, senza scendere dalla macchina. Il cerotto era venuto via dal dito e ho cominciato a succhiare il poco sangue che usciva dal taglio. Il fuoco era già arrivato al primo piano, alla camera e ai bagni. Molte persone, per strada, urlavano e correvano, illuminate dalla luce del fuoco. Ho guardato tutto questo da dentro la mia bolla di riscaldamento e sangue e ottundimento. Anche T*** non ha parlato, rimaneva fermo con le mani sul volante e si era dimenticato di spegnere il motore. Ho tirato fuori il cellulare dalla borsa, ho chiamato l’ultimo numero. Per qualche motivo, c’era linea e dava libero. Ho lasciato scadere gli squilli, poi ho riattaccato. Il camion dei pompieri ci è passato di fianco. Alcuni minuti dopo sono giunte un’ambulanza e alcune auto della polizia. T*** voleva scendere dalla macchina ma gliel’ho impedito tenendolo per un braccio. Adesso le persone che erano intorno alla casa erano ferme sul marciapiede dall’altro lato della via, si proteggevano gli occhi con i palmi delle mani mentre alcuni pompieri transennavano un tratto di strada e cominciavano a sparare quel loro liquido biancastro da oltre le siepi. A qualche decina di metri da noi si è fermata la Mercedes di Cerutti; è sceso dalla macchina e a passo svelto si è avvicinato alle transenne. L’ho visto che parlava in modo concitato con uno dei poliziotti, e si metteva di continuo le mani nei capelli. Lo hanno fatto allontanare, si è messo a distanza di sicurezza e ha fatto alcune telefonate. Aspettavo che chiamasse anche me, ma non l’ha fatto. Alcuni pezzi del tetto sono crollati nel giardino, liberando alcuni lapilli che sono andati a morire sulla strada, innocui. Per un po’, né io né T*** abbiamo guardato l’incendio, perché ci facevano male gli occhi. Ho smesso di succhiarmi il dito, zuppo di saliva e ormai cicatrizzato. Adesso qualcosa di enorme mi opprimeva il petto, e ho abbassato leggermente il finestrino per far passare un po’ d’aria: il calore dell’incendio, che pure era lontano diverse decine di metri da noi, è entrato in macchina insieme al vento freddo di dicembre. Molte persone sulla strada si abbracciavano, alcune telefonavano. Sono arrivate altre auto, sono scese delle persone con le macchine fotografiche e i taccuini; è arrivata anche la piccola troupe di un’emittente televisiva locale. Qualche vigile del fuoco è entrato nella casa dando un calcio al cancelletto ed è stato inghiottito dalla mistura di buio e luce. Dal finestrino aperto ci arrivavano le voci delle persone che erano là fuori e l’odore acre della combustione. Dopo un tempo che non so calcolare, l’incendio si è placato, i vigili del fuoco sono usciti con le pompe flosce in mano, e sono rientrati nella casa accompagnando i paramedici e due barelle. Camminavano tutti lentamente, forse perché avevano paura. Sono usciti dopo pochi minuti, e una barella era vuota. Cerutti si è messo le mani sugli occhi, ha scacciato un tizio che gli si era avvicinato per fargli una domanda ed è risalito sulla Mercedes.

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