L’angolo tra Baja California e Medellín
di Catherine Foulkrod

Secondo i dati ufficiali ci sono al momento ben quarantamila zombie che devastano il Messico.

1.

L’arredo mostra lo stesso cattivo gusto di uno studio medico. «La decoración tiene el mal gusto de un consultorio medico.» È quello che Time Out Mexico diceva del locale, un’osteria in stile spagnolo chiamata Salón Covadonga nel quartiere Roma Norte di Città del Messico, un ritrovo per anziani che giocavano a domino sotto un’illuminazione asettica prima che scrittori e artisti trovassero i tavoli delle dimensioni giuste e con la loro insopportabile prolissità spingessero i nonnetti ad andarsene. Quindi eravamo lì, la sera presto del giorno dopo Capodanno, a bere tequila e fare una bella chiacchierata. Fu lì, con i gomiti appoggiati al tavolo e lo sguardo di chi la sa lunga, che il poeta ci raccontò la storia della coppia nella vasca da bagno.
Due giovani, un uomo e una donna – o forse erano un uomo e un uomo; él y ella o él y él, non ho afferrato i pronomi spagnoli –, avevano chiuso la porta del bagno per tenere fuori i cani. Ma lo scaldabagno stava perdendo monossido di carbonio e gli amanti a un certo punto non riuscirono più a respirare, ebbero le convulsioni e morirono con i pugni stretti, i loro asciugamani intatti sul ripiano. I loro corpi furono trovati alcuni giorni dopo da un amico che dovette scacciare i cani affamati per entrare nell’appartamento. Fortunatamente o sfortunatamente, dipende da cosa vi suggerisce l’immaginazione, quei cani non erano riusciti ad aprire le porte.
Questi erano i nostri pensieri morbosi mentre pagavamo il conto e uscivamo dalla Cova, ed è qui che inizia la nostra storia. Andammo a cena in un posto là vicino chiamato El Parnita. Tra le altre cose ordinammo tacos di nopal. Il nopal è un buon punto da cui cominciare perché è su un cactus di nopal, cioè su un fico d’India, che è stata costruita Città del Messico. O meglio, come abbiamo imparato alle elementari, è stato sul cuore strappato via dal petto del figlio di una sacerdotessa, il suo organo di gladiatore germogliato su una cengia e trasformatosi in un nopal, che l’infausta aquila della bandiera e della leggenda infilzò con i suoi artigli un serpente e marcò il luogo che i messicani avrebbero chiamato Tenochtitlán.
Anche la nostra storia comincia con i nopal perché mentre li mangiavo venni sopraffatta da una certa gioia, ed è sempre il momento in cui ti rendi conto che ti stai divertendo che la festa inizia a rovinarsi. A quel punto è già troppo tardi. Hai perso il momento giusto per andartene e la notte adesso non rimarrà un ricordo appagante, ma diventerà amara, tesa, interminabile. O, massacrando le parole del poeta Jack Gilbert, siete avvisati: il nostro rischio maggiore è la delizia.
Quindi stavamo mangiando nopal e parlando di cose meno morbose e all’improvviso acquisii consapevolezza delle nostre risate. Pagammo, uscimmo, salimmo in macchina. Era ancora presto, ma ce la stavamo prendendo comoda per via degli sforzi pagani di festeggiare il nuovo anno che erano durati fino al mattino inoltrato del giorno prima; un’alba incontratasi con la sera, un paraplegico che balla la cumbia.
Stava guidando l’artista. Era il classico tipo responsabile; le strade vuote e l’assenza delle cinture di sicurezza posteriori ci facevano sentire a nostro agio, come se stessimo facendo una gita in famiglia. Lasciammo il poeta a casa sua con un saluto fraterno e ci inoltrammo tra gli alberi illuminati dal basso e i marciapiedi distrutti da una successione di terremoti. Stavamo facendo grandi piani per il giorno dopo. Forse avremmo visitato il museo archeologico per leggere i codici che narrano l’epoca in cui l’intera umanità venne divorata. O forse saremmo andati in periferia a vedere le torri senza finestre di Satellite City, dentro le quali l’uomo in bianco del film di Jodorowsky La montaña sagrada (La montagna sacra) siede in ascesi, circondato da capre impagliate e guardie del corpo tatuate con i segni della Cabala.
Ci fermammo al rosso. La frase di qualcuno venne interrotta. Fu come se una pietra mi colpisse dietro la testa.
Il mio braccio si sollevò passandomi davanti agli occhi e la fronte mi si piantò sul retro del sedile del guidatore. In seguito appresi che uno di noi stava gridando, ma tutto ciò che sentii al momento fu il silenzio di quella frase lasciata a metà. Stavamo girando su noi stessi, ci ritrovammo davanti il tratto di strada che sarebbe dovuto essere alle nostre spalle, poi tornammo indietro verso la luce rossa. Ora verde. La macchina si fermò di nuovo.
Il nostro coscienzioso autista era già balzato in strada e adesso stava urlando un numero di targa. Mi voltai per guardare la targa dell’auto che ci aveva tamponato, ma non riuscivo a leggerla. Il veicolo fuori controllo infilò contromano un senso unico e il volante si staccò. Riuscii a vedere l’airbag che si gonfiava. Il criminale in fuga si schiantò contro una fermata dell’autobus; il che aveva una certa logica, visto lo stato della sua auto.
Mi voltai verso la critica seduta al mio fianco sul sedile posteriore, ma non riuscivo a pensare a niente.
«Stai bene?» mi chiese in inglese.
«Sì» risposi. «Tu stai bene?»
«No.»
Il nostro coscienzioso autista infilò la testa nell’abitacolo. «State tutti bene?» chiese. Era davvero l’unica cosa che si potesse dire. La critica dovette aver risposto in spagnolo questa volta, perché non ricordo niente di ciò che disse, ma avevamo tutti i nostri arti e gli organi interni erano al loro posto e non c’era sangue e potevamo parlare e muoverci e… dov’era il passeggero davanti?
Scesi dall’auto e lo vidi: il curatore, con una sigaretta in bocca, camminava veloce verso il rottame alla fermata dell’autobus. «Fermo!» urlò il nostro coscienzioso autista. «Non sappiamo chi sia. Potrebbe avere una pistola.» Il curatore si fermò. Il nostro autista chiamò la polizia.
Si poteva già sentire la sirena di un’ambulanza, come se l’avessimo sentita per tutto il tempo. Il suono si fece più forte e il mezzo arrivò ballonzolando da dietro l’angolo e si fermò in una strana posizione. Il curatore accompagnò la critica dagli uomini vestiti da paramedici. La misero su una barella. Le misurarono la pressione sanguigna. Era alta.
I poliziotti arrivarono senza preavviso e uno di loro mi sorprese alle spalle, mi chiese il nome e di farne lo spelling. Il questurino si stancò presto delle mie vocali inglesi, così annotò frettolosamente un nome che ricordava il mio, ma non era corretto, e io salii sull’ambulanza per raggiungere il curatore e la critica, che adesso era assicurata alla barella. Il portellone dell’ambulanza stava per chiudersi ma il nostro coscienzioso autista fece un balzo in avanti e allungò la mano. «I tuoi occhiali» disse. «Li ho trovati per strada.» Presi le lenti, non si sa bene come ancora intatte, e capii perché i numeri della targa mi erano sembrati così criptici. E finì lì, le porte si chiusero. Lasciammo l’artista da solo all’angolo tra Baja California e Medellín.

Zombie: la personificazione del deterioramento del tessuto sociale.

2.

«Portaci al centro medico Dalinde a Calle Tuxpan» disse la critica dalla sua barella.
«Non c’è nessun traumatologo di turno» disse un paramedico. «Vi portiamo in un ospedale militare privato. È vicinissimo.»
«Quell’uomo era senza dubbio ubriaco» disse il curatore, forse a nessuno. Stava guardando attraverso una finestra impossibile sulla fiancata senza aperture dell’ambulanza.
«Ho visto la faccia del tipo» disse l’autista dell’ambulanza. «Stava ridendo.»

Le autorità continuano a sostenere che stanno prendendo
le misure adeguate
per controllare la piaga degli zombie.

3.

Era dopo l’orario di ufficio in ospedale e il posto era vuoto tranne che per una signora all’accettazione con indosso un cappotto invernale sopra il vestito. Seguimmo la barella sotto le luci penetranti e fummo condotti di sopra. «Non lasciategli fare niente» sussurrò il curatore, «finché non sapremo quanto ci faranno pagare.» La nostra assicurazione non era valida fuori dagli Stati Uniti.
La critica fu issata su un lettino rigido in una stanza vuota non lontano dagli ascensori. Le misero un collare cervicale e qualcuno uscì per cercare un radiologo. Il posto sembrava a corto di personale. L’addetta all’accettazione, svolgendo la funzione di medico adesso, chiese: «Come vi sentite?» Il curatore e io ci sedemmo ai piedi del letto su sedie tipo quelle delle scuole e realizzammo che la domanda era per noi. «Probabilmente avrete subito un colpo di frusta» disse lei. «Anche voi dovreste fare una radiografia.» Il collo mi bruciava e il punto in cui il sasso o l’inerzia mi avevano colpito era intorpidito.
«Stiamo bene» disse il curatore. «Pensiamo di aspettare un po’ per vedere se cambia qualcosa. Potreste farci un preventivo per le cure?»
«Torno subito» disse l’addetta all’accettazione/medico e uscì.
«Questo collare mi fa male» disse la critica a un’infermiera che si stava lamentando. «Si può allentare?» Sentimmo il suono crudele del velcro. «Grazie. Pensa che potrei avere un bicchiere d’acqua?»
L’infermiera disse di no. «Non dovresti bere in stato di shock» disse. «Potrebbe venirti il diabete istantaneo.»
Il telefono della critica squillò e il curatore rispose. Diabete istantaneo, pensai, e sgattaiolai nell’atrio.
Il carrello di metallo nel corridoio aveva il ripiano superiore vuoto, ma quello inferiore era stato riempito con bricchi contenenti parti di siringhe usate. I pezzi non erano proprio aghi, ma più qualcosa che si stacca. Cappucci di siringhe? Coperchi per colla a presa rapida o silicone? Il carrello si rifletteva in una finestra che dava su una stanza di dimensioni bizzarre, uno spazio non abbastanza grande per un paziente né piccolo abbastanza per essere un ripostiglio. Uno spazio identico lo imitava dall’altra parte della sala. Entrambi vuoti. Spazi per macchinari mobili? Magari l’attrezzatura era tornata a casa per la notte?
Da una stanza in fondo al corridoio giunse il rumore di un respiro affannoso che catturò la mia attenzione. Una porta aperta mi invitava a entrare. Mi diressi verso la porta, preparandomi alla vista di un mostro bendato collegato a un polmone d’acciaio. Sbirciai attraverso lo spazio tra la porta e lo stipite e vidi un groviglio di gambe. Tre gambe, due tipi di collant, un pantalone. Feci un passo avanti per avere una visuale migliore. Il numero di gambe raddoppiò. Tre infermieri si abbracciavano su un letto e gemevano. Erano due donne e un uomo.

Sono le quattro del mattino: la luce viene fuori dalle finestre
dai televisori e dai computer di ogni messicano
rimasti accesi come lanterne
lampade devozionali che sono una preghiera insonne
affinché la notte degli zombie finisca
.

4.

La corruzione è stata definita il soffocamento della società civile; può spremere l’ossigeno fuori dalle persone e costringerle a serrare i pugni. Quel capodanno successe qualcosa di strano che forse non si è più ripetuto o forse è la norma lì. Le compagnie assicurative erano complici. I poliziotti erano complici. Lo zio ubriaco dell’autista ubriaco, be’, fu più o meno una sua idea.
Vedete, i pagamenti bancari automatizzati che avevano elargito denaro alle compagnie assicurative senza intoppi per anni si erano improvvisamente bloccati. I computer tradirono il nostro autista e l’uomo che ci aveva colpiti, solo loro due, e proprio nella stessa notte. O, come qualsiasi persona con un minimo di istruzione può immaginare, gli assicuratori che arrivarono sul luogo del nostro incidente si rifiutarono di pagare. Stava quindi agli autisti raggiungere un accordo. Ma prima che le negoziazioni iniziassero quella notte, un pagamento importante era già avvenuto. Il parente ubriaco dell’autista ubriaco aveva corrotto la polizia.
«Non abbiamo visto cos’è successo» dissero i poliziotti e si tirarono indietro, mettendo in chiaro che non c’era nulla che potessero o volessero fare.
«Noi abbiamo visto cos’è successo» dissero i residenti le cui finestre davano sull’incrocio.
«Voi siete parte interessata» risposero i poliziotti. «Le vostre motivazioni sono sospette. Non prenderemo le vostre deposizioni.»
«Allora mi ha chiamato per fiancheggiarlo» ci disse il poeta, seduto su una panchina nell’atrio dell’ospedale. L’illuminazione adesso arrivava dal bar. Le luci sul soffitto erano state spente e le lampadine di Natale pulsavano sopra di noi, a un ritmo da discoteca. «Si è reso conto di essere solo con la famiglia dell’autista ubriaco e che né la polizia né gli assicuratori erano dalla sua parte.»
«Ci crederesti?» continuò il poeta. «Mentre parlavamo, c’è stato un altro incidente nello stesso identico punto. Un enorme camion si è ribaltato. Un disastro. Le persone si sono fatte male sul serio.»
«Spostatevi da qui» disse uno degli assicuratori al poeta e all’artista. «Questo posto è pericoloso.» Il poeta in quel momento era senza cappotto e tremava sotto i segnali stradali ammaccati di Baja California e Medellín.
Forse tra le fiamme o almeno tra i fumi di quel camion ribaltato, il nostro coscienzioso autista trovò un accordo con lo zio ubriaco dell’autista ubriaco. Diverse centinaia di migliaia di pesos (una somma a quattro zeri in dollari americani) sarebbero state depositate sul conto del coscienzioso autista come risarcimento per l’auto distrutta e perché la sua compagna (la critica) era in ospedale con Dio sa quali lesioni. Lo zio gli avrebbe messo a disposizione una nuova Lexus di sua proprietà come garanzia finché i soldi non fossero arrivati, a patto che il nostro coscienzioso autista promettesse di non portare l’autista ubriaco in tribunale. Un contratto che dichiarava tutto questo fu abbozzato forse nello spazio bianco dei fogli dell’assicurazione conservati nel vano portaoggetti. Il poeta probabilmente rabbrividì ancora di più quando lesse il documento, perché si riferiva al nostro autista come «el finado», un termine che lo zio ubriaco pensava significasse «la vittima», ma che in realtà significa «il defunto».
Il nostro coscienzioso autista firmò l’accordo. Chiamò un taxi. Lui e il poeta/guardia del corpo seguirono quello che speravano fosse un non-troppo-ubriaco zio in un’area residenziale benestante dall’altra parte della città; una colonia riguardo la cui progettazione si rincorrevano voci di affari loschi, un posto dove qualcosa di buono o qualcosa di inimmaginabile li aspettava in un garage.
Come fu quel lungo viaggio verso la Lexus non lo so e lo posso solo immaginare. Quello che so è che, più o meno alla stessa ora, il corpo della critica passava attraverso la luce dei raggi x e il curatore e io facemmo una passeggiata. L’addetta all’accettazione/medico aveva preparato una stima di quanto sarebbe venuto a costare farci controllare il collo; ma le parole non erano scritte correttamente e i numeri sembravano quasi al rovescio, quindi decidemmo di rinunciare a tutte le procedure e di curarci con una sigaretta. Passeggiavamo alla ricerca di un po’ di tè per dare sollievo alle nostre gole.
La strada di fronte all’ospedale era buia, vuota, e tutte quelle altre cose su cui tua madre ti mette in guardia quando parla delle città di notte. I nostri corpi erano ancora condizionati dall’incidente; eravamo stanchi morti e iper-vigili. Il minimarket era vicino ma non riuscivamo a vederlo. C’è quella vecchia iperbole di un isolato che sembra lungo chilometri. Una qualsiasi immagine violenta sarebbe potuta passarci per la mente, avrebbe potuto attraversare i nostri corpi, ma quello a cui pensai fu una storia che avevo sentito, o travisato, o letto, su un fruttivendolo. Da qualche parte in questa città, in una giornata di sole, qualcuno, forse con indosso un’uniforme, aveva rovesciato un carretto della frutta per intimidire il commerciante. Nessuno aiutò il fruttivendolo, anche se tutto ciò che gli dava da vivere era stato rovesciato e adesso era sparpagliato, ammaccato, sgocciolante sull’asfalto.
Il minimarket, pur essendo un ventiquattro ore, era temporaneamente chiuso perché stavano pulendo. Le persone all’interno eseguivano una pantomima di pulizie e non potevano aprire. Cercammo di convincerli, ma un uomo attraverso il vetro spiegò che non era possibile avere nemmeno l’acqua calda per un tè. Quindi tornammo all’ospedale. Anche questo chiuso. L’addetta all’accettazione arrivò nel suo cappotto dopo che bussammo per un po’ e tolse il catenaccio. Entrammo. Il poeta era al piano di sopra con la critica, ma adesso non era orario di visite perciò non potemmo raggiungerli. Cercammo un posto in cui collassare lontano dalle lampadine intermittenti di Natale, trovammo una sala d’aspetto distante dall’atrio, con le luci accese. Corpi addormentati – forse le famiglie delle vittime o i parenti dei morti – erano distesi sui divani e sul pavimento. Qualcuno alzò la testa. Spegnemmo la luce.

«Siamo tutti zombie»: esibito
su magliette, graffiti, stampini, cartelli
.

5.

L’alba arrivò con noi che ci infilavamo dentro un taxi insieme al poeta; le gambe intorpidite, ma le mani rapide nell’afferrare le cinture di sicurezza. Ogni semaforo della città sembrava rosso. Arrivammo a casa dell’artista e della critica, e salutammo il poeta abbracciandolo come se fosse uno di famiglia. Aprimmo il cancello e vedemmo una Lexus nera che occupava l’intero vialetto d’accesso. Dovemmo assottigliarci per superarla. Salimmo nello studio dell’artista, dove c’era il letto per gli ospiti, per prepararci del tè.
Fu allora che l’artista ci telefonò per aggiornarci. La critica aveva contattato i genitori per dirgli dove si trovava. «Vattene subito da lì» le avevano risposto. «Quell’ospedale non esiste.» Era una specie di truffa. I suoi genitori le promisero che avrebbero fatto in modo che un vero medico, forse anche un traumatologo, l’aspettasse al Centro Médico Dalinde a Calle Tuxpan.
«E il collare cervicale» disse l’artista, «quelle finte infermiere gliel’hanno messo al contrario.»
Alla fine di La montagna sacra, l’alchimista in bianco, che tra l’altro è il regista Jodorowsky e ora è vestito di nero, rompe la quarta parete. «Ed eccoci qui, mortali, più umani che mai» dice. «Incominciammo in una favola, abbiamo trovato la vita. Ma questa vita è realtà?» Ordina alla cinepresa di zumare all’indietro. «No, è un film… Non dobbiamo restare qui, prigionieri. Dobbiamo rompere l’illusione.»
Uscii sul balcone con il mio tè e mi sentii come se aspirassi all’opposto: un passo indietro nella zona sicura dell’inconsapevolezza. Guardai il vialetto e vidi la Lexus al sole. Sentii dei bambini tirare sassi contro il cancello. Questa città che non conoscevo, e che ancora non conosco, era solo una veduta di tetti su chilometri e chilometri di asfalto scuro. Un cartellone accanto a una palma pubblicizzava il Jell-O alla ciliegia. «Sabrosamente nutritivas» c’era scritto. Nutrienti con gusto.
Diabete istantaneo, pensai.
Dicono che la cosa migliore per il tuo corpo dopo un trauma sia sdraiarsi, stare al caldo, riposare. Dicono che la cosa migliore sia stringersi al proprio compagno e cercare di rilassarsi. Rientrai e mi sedetti sul letto accanto al curatore. Forse tutto ciò di cui avevamo bisogno era un lungo bagno caldo.

Nota al testo
Tutte le citazioni che precedono i paragrafi sono tratte da Notes on a Zombie Cataclysm, del poeta di Città del Messico Luis Felipe Fabre, tradotto da Amanda Hopkinson per Words without Borders nel 2012.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 27 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.