Ciò che resta
di Elisa Sabatinelli

Avevi trent’anni l’ultima volta che ti ho visto, ed eri morto.
La prima volta che ci siamo conosciuti ne avevamo sedici.
Sono entrata in classe a metà ottobre accompagnata dal preside, arrivavo da un’altra scuola che avevo mollato perché c’era troppa matematica.
La nuova scuola era obiettivamente molto bella, con tante guglie che spiccavano verso il cielo di Barcellona, una grande scalinata ad angolo e alti portoni marroni; un patio interno distribuiva un chiostro e tutto intorno le aule.
Tu eri seduto in ultima fila, una schiuma di capelli neri ti copriva gli occhi fino ad arrivare al mento. Maglietta nera, catena sui pantaloni, penna infilata dietro l’orecchio. Un libro chiuso sul banco. Nient’altro.
 Oggi prendo la metro e penso che dovrei farlo più spesso per fissare visi e cercare il tuo.
Quel primo giorno di scuola ti avevo subito trovato. A ricreazione ti chiesi il nome, poco tempo dopo aggiunsi il tuo contatto su Messenger. Ti chiamavi soulflytribe_666. Eri bello come il diavolo. Volevo sapere se avevi la fidanzata, mi dicesti di sì e che urlava tanto.
«Come urla tanto?»
«Sì, è bellissima e urla tanto. È una chitarra.»
Chiusi la chat in assenza di risposte.
Uscivi con un gruppo di amici tutti con una media di capelli fino al collo. Anche io avevo i capelli lunghi fino al collo. Almeno una cosa in comune la avevamo. Vestivo tutta colorata perché volevo essere hippy. Tu mi hai detto che quelli come te gli hippy se li mangiano. L’hai detto così, con la sigaretta tra le labbra appoggiato a un muro alla James Dean con lo zaino su una spalla sola. Ti ho guardato e basta, in assenza di risposte come mi hai lasciato tante volte; eri arrivato a capofitto nella mia adolescenza per lasciarmi interdetta, per sconvolgere i miei piani e la mia testa, per ribaltare tutti gli schemi, cancellare i pregiudizi e costruire nuove direzioni. Avresti fatto di me un’altra persona che assomiglia di più a quella che oggi sono e che allora non ero. A marzo arrivarono le rondini sopra il patio della scuola, faceva già caldo e alla ricreazione stavi sempre seduto all’ombra sotto i portici. Ti piaceva passare inosservato, evitavi qualsiasi cosa che potesse metterti in luce, anche un raggio di sole. Io continuavo a perseguitarti imperterrita, incuriosita. Sola.
Mi piaceva studiare, a te non serviva quasi e anche se la professoressa di letteratura ti sbatteva ripetutamente fuori dalla porta perché non avevi un atteggiamento decoroso, tu eri uno dei più bravi. Il tuo migliore amico diceva che eri come un Porsche tenuto in garage. Era faticoso per te venire fuori, non ne avevi molta voglia, preferivi passare pomeriggi interi ad ascoltare musica e spegnere mozziconi di sigaretta nei piatti tra gli avanzi del pranzo.
Sono diventata parte del tuo gruppo perché ero molto diversa, quasi l’opposto ed ero una cavia da studiare. Tu con me non ci volevi stare, invece tutti gli altri sì e mi facevano la corte perché ero bionda e mezza straniera.
Finalmente arriva il venerdì, il giorno in cui si esce a Marina, un quartiere tra il mare e la parte industriale della città, ritrovo di metallari, rockettari e punk. L’appuntamento sarà sempre davanti alla scuola, sulla panchina di legno, il segnalibro dei nostri pomeriggi. Quella panchina c’è ancora e quando passo davanti penso che un pomeriggio deve ancora arrivare, domani. Lei è rimasta lì a fare da segnalibro tra quello che c’è stato e quello che verrà, in mezzo alla piazzetta, in attesa di altri venerdì.
Camminiamo verso Marina a passo svelto, attraversiamo un pezzo di città compatti come uno squadrone, parliamo e ridiamo.
Avete almeno una toppa di un gruppo sul vostro maglione nero, ai piedi Dr. Martens, siete tutti maschi fatta eccezione per la fidanzata di uno di voi che veste gonne voluminose con pizzi, si trucca di nero e ha una mèche viola tra i capelli; mi spiegate che non è heavy-metal ma gotica. Ci appiccichiamo etichette una dietro l’altra, eppure siamo tutti uguali in questa gioventù che oggi è solo un sospiro.
I bar di Marina sono vecchie fabbriche, muri alti a mattoncini e travi a vista, tavolate piene di metallari che scuotono la testa avanti e indietro quando attacca una nuova canzone dagli speaker tenuti ad altissimo volume. Qualcuno gioca a dadi o backgammon. Tu ordini una birra e poi un’altra, ti accendi una sigaretta e poi un’altra. Andiamo fuori dal locale e ci sediamo sugli scalini. A Marina ci sono tanti scalini, di edifici, di montacarichi, di scale d’emergenza. Non fa mai freddo e quando cala la sera fa quasi più caldo e c’è una luce arancione che irradia le facciate delle fabbriche vuote. Salutiamo amici, stiamo tanto in strada, camminiamo sotto i lampioni gialli, sopra i ponti, senza orologi né noia.
Io non ricordo di cosa parlavamo, ma parlavamo tanto ed era bellissimo e arrivava subito l’ora di tornare a casa e si contavano già i giorni che ci separavano dall’altro venerdì.
Dopo le birre andavamo al Razzmatazz ma solo uno di noi faceva la fila lunghissima per entrare, poi usciva veloce e ci appiccicava il timbro che gli avevano fatto fresco sul palmo della mano a tutti noi. A un certo punto hanno tolto il timbro e utilizzavano una luce fluo di merda e non abbiamo potuto più barare.
Non ci siamo più andati.
Un giorno ti ho convinto a baciarmi sotto l’androne di un edificio vicino alla scuola, e poi ti ho convinto anche il giorno dopo. Così siamo diventati la coppia più stramba della scuola e il preside che era una specie di prete mi mise in guardia dall’angelo nero.
Con te ho guardato Barcellona dall’alto affacciati dal balcone di casa tua che dava su una tangenziale e poi un seguito di tetti e antenne fino al mare. Al mare ci siamo andati a Formentera e abbiamo dimenticato la patente tutti e due, abbiamo girato l’isola in bicicletta. In bicicletta andavamo al Parc de la Ciutadella a sdraiarci sull’erba e ho una foto di te scattata con la macchina analogica di tuo padre che mi avevi regalato per il mio diciannovesimo compleanno. Abbiamo festeggiato uno, due, tre, quattro, cinque, sei compleanni insieme perché tu sei nato quattro giorni dopo di me. Un anno ti ho regalato il biglietto per il concerto di Gamma Ray che era il tuo gruppo preferito e in mezzo al caos io sono riuscita ad addormentarmi appoggiata alle gradinate, ma tu mi amavi lo stesso. Senza pretese di cambiarmi, stavamo insieme. Per te era importante l’essenza. Eppure mi hai mutato nel profondo. Le prime manifestazioni, le case occupate, la pila di libri sul tuo comodino, i pomeriggi al Carrer Tallers da un negozio di dischi all’altro. Barcellona. La bisboccia, la prima sigaretta, la prima sbornia, la prima volta. Tu sei questo e tanto altro. Tu sei me e non lo saprai mai.
Una mattina di quindici anni dopo una chiamata ha spazzato via la scuola, l’androne e la panchina; è stato come strattonare la tovaglia apparecchiata della domenica e far cadere violentemente gli amabili resti. Come sparare a un albero in primavera e far precipitare i frutti maturi. Si è fatto autunno e inverno in un colpo solo.
Mi sono sentita incredibilmente vecchia.
Ricordo alla perfezione com’ero vestita, cosa guardavo quando è suonato il cellulare e ho visto comparire sullo schermo il nome del mio migliore amico, che è anche il tuo. Ho avuto un presagio di morte che sono riuscita a evitare per cinque minuti, non rispondendo. Poi mi ha richiamato, mi ha detto, blaterato qualcosa mentre il mio cuore impazziva e calciava in gola.
Torno indietro: i pomeriggi di studio, un balcone sulla tangenziale, ti tagli i ricci nel lavandino del bagno perché dal parrucchiere non sei mai andato. Le ascelle sudate per acchiappare l’ultimo autobus della serata, la filosofia dei tuoi giorni fatta di solo presente e tanta vita con gli amici, concerti e festival. Mi infastidivo perché non ti compravi mai dei jeans nuovi, portavi quelli delle medie un po’ più bassi in vita così arrivavano alle caviglie.
Non ti ho mai visto arrabbiato ma ciò che mi sorprende di più era la tua capacità di essere speciale e comune allo stesso tempo. Come potevi essere così diverso dal resto eppure perfettamente adattabile a tutti? Trovavi qualcosa da salvare in ogni persona. Questo mi faceva molto arrabbiare, invece. Salvavi sempre tutti.
Eri uno vero che non guardava mai le apparenze, se ne fregava delle convenzioni e le cornici, eri un diamante puro. La camera dell’ultimo appartamento in cui hai abitato condividendolo con altri amici aveva solo un letto, qualche maglietta impilata alla rinfusa per terra, un comodino e alle pareti la foto di Spencer Tunick: avevamo partecipato insieme all’happening del fotografo in città. Nel 2003 studiavo fotografia e quando avevo saputo che veniva a Barcellona ti convinsi ad andare per sfinimento. Il mio punto forte era: «Se andiamo riceviamo la foto firmata!». Così passammo un sabato sera a bere tequila sul tuo balcone perché saresti andato solo se alcolicamente alterato. Ci presentammo a Montjuic all’alba; usciti dalla metro ci diressero dentro i capannoni della fiera dove c’era Spencer Tunick montato su una gru altissima che con un megafono dava indicazioni a tutti i partecipanti. Dovevamo sdraiarci nudi sull’asfalto in due diverse posizioni. A un certo punto iniziò un conto alla rovescia molto divertente perché l’idea era spogliarsi all’unisono per perdere l’imbarazzo. Uscimmo quasi tutti correndo in strada, noi due presi per mano sotto il cielo rosa di Barcellona aspettando la prima luce del mattino per lo scatto perfetto.
Le stampe arrivarono qualche mese dopo; una per te, una per me. Entrambe firmate.
La stessa foto ce l’ho appesa anche io sopra il letto e ha acquistato un’importanza vitale; la guardo e cerco il tuo corpo, vorrei riaverlo indietro insieme al tempo.
Ci siamo tanto amati senza pretese e futuro, amati nel presente follemente.
Oggi ho la convinzione che tu sia vento, invisibile come sei stato in vita, elegante, inafferrabile, silenzioso, non troppo comune.
Sei l’essenziale, niente oggetti, solo cuore e mente.
Nel viaggio in aereo da Milano a Barcellona ho pianto tutto il tempo nella disperata ricerca di comunicare con te adesso che ero più vicina al cielo.
Il giorno del funerale sono venuti a prendermi i nostri amici e io li aspettavo sul marciapiede guardando in alto verso il sole e ti parlavo insultandoti perché te ne sei andato senza salutare. Guardavo su con la convinzione che esiste un cielo e una vita al di là, come ci aveva insegnato il prete della scuola. E per una volta ci ho voluto credere che te ne stai seduto su un batuffolo morbido di nuvola a fumarti sigarette di zucchero.
Poi siamo saliti in macchina e ci siamo allacciati la cintura e abbiamo pensato che stupido modo di morire il tuo, in macchina, che per prendere la patente ti avevo obbligato e costretto a venire al corso con me.
In macchina abbiamo attraversato la città in silenzio lasciandoci alle spalle la nostra gioventù e tutte le nostre passeggiate.
Per salutarti mi sono vestita di nero, e ora che ci penso forse ti fa ridere vedermi di nero come non mi hai mai visto in tutti i nostri anni quando ero la pecora nera del gruppo vestita di bianco.
Affezionarsi ai corpi è qualcosa di tremendamente umano e per quanto mi sforzi a cercarti altrove, accettare di non vederti più mi riesce molto difficile. Quasi nessuno dei nostri amici è voluto entrare a vederti sdraiato inerte, attorniato da corone bianche di fiori; volevano tenere vivo, almeno nei ricordi, il sorriso sul tuo viso. Era diverso per me, sentivo l’impulso di abbracciarti, di parlarti, di vederti e tracciare nella mia testa una mappa indelebile della tua fisicità. Anche se mi ha fatto tanto male ho aperto il mio cuore e ti ho fatto capanna. Ti ho osservato attentamente sotto la teca di vetro ed eri ancora così bello, anche se qualcuno ti aveva tolto il sorriso che è vita. Ti ho parlato a lungo come se dormissi, volevo darti un bacio in fronte per vedere se ti svegliavi.
Amore, amico, fratello.
Ho piantato un fiore al ritorno a Milano. Ho infilato le mani nella terra bagnata senza guanti, l’ho sentita umida attaccarsi ai polpastrelli, mi è venuta voglia di buttarmi per terra per capire la vita. Tu ne hai avuta poca ma hai segnato quella di chi hai attraversato, così tanto che ora il vuoto lasciato è simile a un cratere.
Ti sei trasformato in una maglietta dentro al mio armadio, quando la indosso ce ne andiamo insieme di qua e di là.
Alla festa che i tuoi amici ti hanno organizzato non ho avuto il coraggio di venire. Non volevo tornare a Marina, entrare nei bar che frequentavamo, trovarli cambiati, piccoli, con altre persone dentro, magari con un’insegna rinnovata. Quello è il mio ricordo e rimarrà fermo ai nostri diciassette anni. Lì dentro ci siamo ancora noi con i nostri amici.
Mentre sali gli scalini dell’eternità, noi rimaniamo solamente comuni mortali.
Ora che sei eterno, nessuno ti prenderà più.

È molto difficile concludere qualcosa che non ha fine, almeno in me, perché anche se hai lasciato questo mondo per me sarai inizio, il punto di partenza, il pensiero di riscatto del domani, il piede giusto, il cielo rosa.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 23 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.