Lux mea lux
di Giulia Ottaviano

Tre vie per accedere alla città: dalla Germania, dalla Francia o dal Belgio. Ci vorrebbero le porte, come a Milano, delle antiche mura – seppur sbriciolate – a delimitare l’ingresso, oppure basterebbe il traffico. A Lussemburgo non si capisce. Dal fuori, al dentro, non cambia nulla. Le strade pressoché deserte, una casa ogni tre disabitata, un locale ogni chilometro con l’insegna della birra Diekirch blu o della Bofferding in verde, e le stesse sedie, di plastica scure, ai marciapiedi. E gli stessi tavolini, di plastica scura, squadrati con sopra un posacenere col logo Diekirch o Bofferding sul fondo. Questi locali non sono pub e non sono bar, né ristoranti o rosticcerie o birrerie. Vendono caffè scuro, lunghissimo e forte, come lo bevono i francesi; patatine confezionate. A volte i wurstel, serviti bolliti sul piatto di plastica senza contorno, accompagnati da bustine di ketchup, maionese o senape. Sul bancone lasciano sempre le noccioline, se gliele chiedi due volte riempiono la ciotola senza dire nulla. Le poltrone e la moquette puzzano di fumo. Sono posti frequentati soprattutto dai portoghesi. Ci vanno al mattino prima di sporcarsi le mani, e ci vanno dopo il lavoro con le dita lerce e le nocche spaccate dal freddo.
Le panetterie non esistono, quelle che sembrano panetterie sono in verità catene di «panetterie». Ogni mattina un camion scarica il pane prefabbricato, gli impiegati lo riscaldano in fornetti elettrici. Anch’io compro il pane lì da loro, a due euro. Passo le dita sul fondo della baguette perfettamente geometrico, a pallini. La baguette fatta con le formine, sa di alcool come i toast del super.
Andare al supermercato è l’unico impegno della mia giornata. Prendo l’auto con il cuore in gola per la paura di guidare, anche qui che le macchine son due in croce, e le strade tutte dritte con dei segni sull’asfalto da seguire come rotaie. Conosco topografia e toponomastica della città a memoria dopo una settimana. Parcheggio larga, e non fa niente perché tutti hanno il garage. Tutti posseggono un’auto, alcuni ne hanno una per la settimana e la Porsche o la Ferrari per il weekend. Il bus è per i poveri, per i portoghesi, e non passa mai.
Di giorno, per strada, non c’è quasi nessuno a parte gli adolescenti che fanno shopping tornando da scuola per le vie del centro e le donne coi passeggini e i bambini dentro i passeggini, assopiti, ad ascoltare i discorsi unilaterali delle proprie madri.
Tra i supermercati più di tutti mi piace il Cactus, perché hanno i prodotti italiani come la scamorza e ci trovo dei gran barattoli di lupini che mangio la sera mentre aspetto Gianluca. Alla cassa parlano solo lussemburghese, per preservare la lingua e la cultura. Imparo a dire moyen, buongiorno. Basta così. L’Auchan lo evito, ho paura dei parcheggi sotterranei, anche se hanno i posti auto antistupro riservati alle donne vicino agli ascensori. Provo ad andare in grandi centri commerciali situati a ridosso dei labili confini cittadini, provo il supermercato naturale dove finisco a comprare pillole di estratti di fiori contro la tristezza, gli sbalzi d’umore, la ritenzione idrica. E limoni da un euro l’uno. Ma non mi ci trovo, non capisco i detersivi bio con o senza acidi, con o senza profumo, con le etichette in tedesco.
A volte vado in due, tre supermercati al giorno. Da uno prendo il vino, dall’altro le verdure, dall’altro la carne. Mi spingo fino alla Francia, per spendere meno. Ma la Francia vicina al Lussemburgo è ancora più mesta del Lussemburgo. Ci sono i negozi chiusi per fallimento, le carte per strada che rimbalzano lungo marciapiedi vuoti, i negozi di scarpe da puttana, gli ex tossici senza denti che servono al bar in piazza. Quando c’è il sole provo ad andare al supermercato a piedi, così perdo tempo. Cammino per quindici minuti senza incontrare nessuno, senza trovare un posto dove fermarmi, una vetrina carina con due vestiti e una borsetta, un bar. Allargo il giro e finisco tra le mucche, qualcuno che passeggia a cavallo. Torno indietro vuota, con i surgelati da sistemare in freezer nelle buste. Magari la prossima volta vado a correre, penso.

Mi trasferisco senza conoscere una parola di francese, tutti mi dicono che ci vuole sei italiana, ci metti poco, due chiacchierate e via. Ma io non ho nessuno con cui chiacchierare, non ho nemmeno la tv da ascoltare. I corsi intensivi di lingua nelle scuole private costano settecentocinquanta euro per due mesi. Mi iscrivo alla CCPL, la confederazione della comunità portoghese del Lussemburgo, dove un corso di lingua per disoccupati costa otto euro al mese, ma io lo pago trenta perché non voglio scrivere sul modulo che sono disoccupata. I miei compagni di classe sono portoghesi e brasiliani, gli uomini lavorano nelle costruzioni e hanno delle panze, le donne negli alberghi dalle cinque del mattino a mezzogiorno cambiano le lenzuola, sprimacciano i cuscini e grattano con lo scopino il fondo del cesso. Sono la più brava della classe, scrivo dialoghi per allenarmi: da la coiffeuse, entretien d’embauche. Vorrei far pratica di ciò che scrivo dal boucher, ma la carne la prendo al Cora, due filetti magri impacchettati tra il cellophane e il polistirolo.
Al corso stringo amicizia con una coetanea polacca. Anche lei si è trasferita qui perché il suo fidanzato ha trovato lavoro nella terra promessa. Ha gambe lunghissime, uno sguardo sincero ma sempre rivolto verso il basso. Non mi invita al suo matrimonio. Si sposa a maggio in Polonia, mentre le magnolie in fiore mi fanno sorridere per una settimana. Dorota non parla inglese ma sa raccontarmi dei dispetti che le fa la suocera, in francese, ci capiamo. A luglio lascia il corso, ha trovato lavoro come badante a Bertrange, una cittadina di diecimila anime vicina.

Io mando curricula. Mando ad Amazon, alla Ferrero. Non supero un primo colloquio telefonico con un’azienda produttrice di antenne satellitari. Alla società Dante Alighieri (quattro sedie al piano superiore di una pizzeria) le due sciure con cui faccio il colloquio mi chiedono quanti esami di glottologia ho dato all’università. Io racconto loro la mia carriera passata, con finto entusiasmo, e le vedo irrigidirsi. Faccio amicizia con i vicini di casa italiani, e provo a uscire con amici di amici che si sono trasferiti qui, ma sono tutte facce di merda che lavorano in banca. Il 12 di ottobre nevica, a novembre comincio a lavorare in una libreria-caffetteria italiana.
Il proprietario è veneto. Mi paga in nero. Vendo libri scolastici in italiano ai figli del Parlamento Europeo che vanno alla scuola internazionale, regalini di Natale, Harry Potter e panettoni importati per gli expats nostalgici. Non ci sono soldi per ordinare le nuove uscite, mi arrangio come posso a sistemare la vetrina, aiuto a disporre le sedie per gli eventi: una presentazione sui fiori di Bach, il corso di lussemburghese del martedì sera, la degustazione di formaggi piemontesi, baby yoga il sabato mattina. Il cameriere francese fa un cappuccino discreto, la cameriera è pugliese con seno e sorride sempre; a volte l’accompagna il fidanzato. È molto più grande di lei, sui quarant’anni. Si siede al tavolo e sta lì per ore a sorriderle come un maniaco. Ha la faccia ignorante e non capisce le mie battute. Lavorava come muratore, adesso è mantenuto grazie allo chômage.

A gennaio la libreria fallisce. Il proprietario è in difficoltà, mi dice: «Non riesco a pagarti», e mi illustra una teoria complottista secondo cui è stata la libreria italiana presente in un altro quartiere della città a mandarlo in rovina. Incontro la moglie settimane dopo e mi racconta che il marito ha avuto un infarto. Immagino il piccolo uomo stramazzare a terra rosso in volto e non so perché immagino abbia la medesima espressione sofferente durante un amplesso. Non è morto ma è ancora in ospedale. Mi interessa poco.

I mesi passano e mi abituo a non fare niente. Apre una gelateria italiana sotto casa, hanno il gusto zenzero, lo provo.
Gianluca mi dice che prima o poi andrà meglio. Lavora fino a tardi. Lavora nel quartiere del Kirchberg. Se ne parla molto a Lussemburgo del Kirchberg, è il quartiere del business, tutti, lavorano al Kirchberg. Ci sono le banche, gli studi, le istituzioni, i ristoranti e le palestre per chi lavora al Kirchberg. Di per sé è solo una via tutta dritta con degli alberelli nel controviale, non è lunga nemmeno un chilometro, si fa un gran parlare della costruzione della linea per il tram. La cosa migliore del Kirchberg, dicono, è che è a soli dieci minuti di auto dall’aeroporto, ma a me piace di più sapere che in mezzo a tutti gli uffici c’è un parchetto triste e grigio di brina d’inverno, dove però d’estate c’è un baracchino che vende le birre di una marca belga, imbottigliate dentro vetro bombato color ambra. Intorno al baracchino ci sono tre o quattro piste per giocare a bocce, e tutti giocano, con le pétanque. Si sdraiano sui teli, mangiano i panini al burro e formaggio.
Due volte l’anno due grandi parcheggi a ridosso del centro ospitano delle fiere. Vendono i dolcetti e le mele caramellate, fanno esibire su un palchetto un gruppo di merda. Mi ricordano l’infanzia, i passeggini per le bambole di metallo laccati di rosa appesi alle bancarelle. Delle due, la fiera più grande è un luna park che imbandiscono a giugno per festeggiare il Gran Ducato. Festeggiano con i fuochi d’artificio la periferia d’Europa, la terra promessa, la città dove guardi fuori dalla finestra e non c’è niente.

Ho messo casa in affitto su un sito. Offriamo, per massimo tre notti, quella che scherzosamente chiamiamo «la stanza del bambino», riferendoci a un tappeto marocchino che ho ereditato dai miei genitori, e che occupa l’intera stanza, altrimenti vuota.
Chiedono ospitalità soprattutto americani e asiatici. Viaggiatori in coppia o solitari che girano l’Europa. Fanno tappa a Lussemburgo perché vogliono mettere una bandierina in più sulla loro mappa digitale da condividere su Facebook, spesso non hanno idea di dove siano. Non sono viaggiatori particolarmente interessanti. Un tale, canadese, mi dice che Bruges gli è parsa molto più bella di Venezia e la prendo come un’offesa personale. Poi c’è un coreano convinto che il Lussemburgo sia la capitale di uno stato chiamato Europa. Un italiano in città per un colloquio, un californiano, una lituana coi brufoli.
Preparo a tutti per colazione il mio classico: il breakfast mediorientale. Un uovo sodo, l’hummus con un giro d’olio, qualche olivetta, la pita. Ci rimangono male, si aspettano la colazione italiana, il cappuccino che pensano si possa fare a casa, due risate. Molti mi chiedono se so fare il sugo bolognese, altri se è vero che il sugo bolognese non esiste.
Gianluca non incrocia quasi mai i nostri ospiti. Solo ogni tanto, mi trova in cucina a chiacchierare con loro. Entra, sorridente come sempre, mentre ancora si slaccia la cravatta e mi fa capire di voler andare a letto – di tagliare corto con un rapido sguardo. L’altra sera non l’ho seguito e mi sono trattenuta a parlare con Bedri, un ragazzetto turco di ventidue anni. Ho ascoltato le sue impressioni di viaggio e l’ho aiutato con l’itinerario delle settimane successive. Mentre parlavamo ho pensato che mi vergognavo della cravatta di Gianluca, e speravo non si fosse accorto. È partito al mattino presto, poco dopo che Gianluca si è messo in tasca le chiavi dell’auto e ha chiuso piano la porta sussurrando buona giornata amore mio. Ho fatto finta di dormire e non ho risposto, poi sono andata nella stanza del bambino e mi sono sdraiata sul materasso steso per terra tra le lenzuola ottomane. Dopo essermi masturbata sono scivolata piano piano in un sonno leggero.

Ogni tanto passeggio fino alla stazione. Ci sono i tossici coi pantaloni bucati, le prostitute, i kebabbari, le spogliarelliste che si fumano le sigarette davanti agli strip club, il McDonald’s, gli zarri pure qui, a sbavare sopra il nuovo paio di Nike Air, e le quindicenni che si fanno toccare i sederini secchi mentre il ragazzo di turno le dice ça te plait. Ti piace.

Gianluca vuol far l’amore solo al sabato perché in settimana torna tardi, durante la notte sogna del lavoro, e al mattino va troppo di fretta, si deve allacciare le scarpe. Si sveglia il sabato mattina e mi trova pronta, a volte piango piano, dico per l’emozione, a volte è così triste che mi chiudo in bagno a fare una lunga doccia per evitare di dargli un dispiacere. Durante il weekend non sappiamo mai dove andare. Abbiamo visitato un castello al nord del Paese, un’altra volta un orribile lago artificiale, c’era un sole pallido e una comitiva di italiani che giocavano a pallone lungo la riva ma si vedeva che morivano di freddo. Abbiamo visitato la Germania e la Francia vicina, a volte siamo stati fortunati e abbiamo trovato dei mercati all’aperto con certi contadini che vendevano la marmellata fatta in casa e delle mele che avevano il sapore delle mele. Altre volte pioveva forte e non trovavamo un bar dove fermarci e siamo tornati a casa.
Ultimamente finiamo sempre al supermercato, io mi innervosisco per un nonnulla, perché il pollo non lo voglio.
«Devi sempre fare casino?»
A me sembra di non fare alcun rumore.

Ho cominciato a correre lungo i campi vicini che ho scoperto per sbaglio. Ci sono le mucche, ci sono i cavalli, lungo la via vedo in lontananza dei cani e spero sempre siano randagi, che mi puntino, che mi mordano al fianco, che mi mangino la faccia. Alle loro spalle vedo comparire i padroni, di corsa anche loro.
Moyen, ci salutiamo.

Quand’ero piccola volevo sempre che mia nonna mi raccontasse la storia di Matteo e Carolina. La storia di una coppia di poveracci che venivano ingannati da due ladri crudeli. Questi, tramite un buco sul tetto, calavano più volte una fune dentro la casa dei due poveretti, recitando una filastrocca che più o meno faceva così: «Zu zu, zuchiti zu, un pezzo di pane vuole Gesù». I due poveracci di volta in volta, convinti che fosse un messo divino a far la richiesta, si adoperavano per legare alla corda ciò che gli veniva richiesto. Il pane, il vino, le fedi, i pochi risparmi sotto al materasso. Alla fine i due ladri dicevano calando la corda per l’ultima volta: «Zu zu, zuchiti zu, Matteo e Carolina vuole Gesù». E i due finivano per legarsi e consegnarsi ai due ladri, che di lì a poco li avrebbero uccisi. Non ho mai capito perché, dopo aver ottenuto tutto, i ladri volessero infine uccidere Matteo e Carolina. Fatto sta che mi sentivo come loro, mentre corda dopo corda, lasciavo andare tutto.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 23 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.