Io, lui e tutti gli altri
di Giorgia Bernardini

Sabato notte ho dormito con un uomo appena conosciuto. Anche se dal 24 di maggio non facevo che dire di aver chiuso con questo genere di avventure. Raccontare di sé, far convergere tutte le direttrici della conversazione verso il tema «coppia», dare un segnale per un bacio gradito e guidare sino a casa.

Mi ero ripromessa di chiudere con le romantiche gare a tappe perché dopo aver ripetuto questo gioco un numero imprecisato di volte un partecipante in particolare è andato via lasciandomi nel silenzio totale, lo stesso che secondo Walcott circonda la testa di Beethoven.
Quando racconto (a un’amica, alla psicologa o a chiunque abbia voglia di ascoltarmi per più di sette/otto minuti) di me stessa ­– vista dall’esterno, quasi in terza persona – alla fine di questa storia, racconto di un ragazzo che se ne va via a cavallo della sua bicicletta dopo aver scoperchiato tutti i miei vasi di Pandora.
Non il vaso di Pandora. Ma tutti i vasi di Pandora.

Solo in seconda istanza racconto di un’altra fantasia, che finalmente vede me come protagonista. Una donna di trent’anni siede per terra a gambe incrociate, di fronte a una batteria di vasi di Pandora tutti scoperchiati. I coperchi sono alla base dei vasi e aloni della consistenza del fumo di un falò di ferragosto aleggiano tutt’intorto. Sono i suoi punti deboli che fluttuano nell’aria; e ancora avvenimenti a cui nel corso degli anni non è riuscita a dare una spiegazione. Persone che non ha ancora perdonato o che non perdoneranno mai lei. Il futuro che pensava si sarebbe costruita e invece è rimasto un muro a secco incompleto, come quello che un’estate ha visto lungo una strada di campagna sarda.
La donna non sa bene cosa fare quindi resta seduta e osserva rovesciarsi fuori il contenuto dei vasi senza muovere un dito per rimettere tutto dentro.

L’uomo con cui ho dormito si chiama Giacomo ed è arrivato a Berlino venerdì notte dopo il lavoro. Si è incontrato a Milano con un suo amico dei tempi delle scuole medie e insieme sono venuti a trovare Leo. Leo è un mio amico, ed è così che io e Giacomo veniamo a sapere l’uno dell’esistenza dell’altro.
Quando lo vedo per la prima volta sul profilo di Facebook – è Leo a mostrarmelo circa una settimana prima, in tempi ancora non sospetti – penso: non mi piace.

O meglio. Non mi piace come una ragazza single sui trent’anni ritiene che non gli piaccia un uomo che si fa un autoscatto di fronte alle gole del Mississippi con le braccia spalancate di fronte al nulla, vestito come un modello della pubblicità di Decathlon. Una versione goffa di Raynold Messner nella posa dell’uomo dell’infinito di Friedrich. E neppure le altre foto mi fanno cambiare idea: in una è troppo in carne mentre in un’altra ha i capelli troppo lunghi, anche se in genere sono affascinata dagli uomini con la chioma raccolta in una coda.

Sabato sera esco di casa per raggiungere Leo e i suoi amici. Lascio sul tavolo i piatti della cena. Il bagno è ancora così come l’abbiamo ridotto io e la mia amica che è stata in visita per tre giorni, ormai il fine settimana precedente. Batuffoli di polvere si rincorrono agli angoli del corridoio ogni volta che apro la porta per uscire o entrare in casa. In genere divento maniaca della pulizia se ho pianificato di ricevere visite. Questa è, a posteriori, una prova che Giacomo non mi è piaciuto.

Poi, sono uscita di casa struccata. E questa è un’altra prova.

Viaggio in metro masticando rumorosamente una gomma. Alla fermata di Nollendorfplatz, dove vivo, salgono in direzione Warschauer Strasse nell’ordine: una coppia gay vestita in tuta di lycra, uno in fucsia, l’altro giallo evidenziatore; un uomo alto due metri, che indossa una tuta in vinile e una maschera da cane con il muso tappato da un pezzo di scotch isolante nero, che tiene per mano un ragazzino che forse avrà ventidue, ventitré anni e oltre a un paio di boxer neri e una sacca della Nike, porta Doc. Martens lunghe fino a metà polpaccio. A Kurfürstenstrasse si aggiunge un biondino efebico, nudo eccetto per una serie di cinghie di pelle che gli attraversano le natiche e si incrociano sul petto, passando per i fianchi.

Schöneberg è il quartiere storicamente noto per la cultura gay. La domenica mattina quando vado a prendere il caffè e decido cosa fare della giornata libera, coppie di uomini seduti uno di fronte all’altro si imboccano tra loro. Sfumazzano sigarette sottili e dietro una nuvola di fumo conversano bagnandosi di tanto in tanto la bocca con un succo d’arancia spremuto fresco. Adesso l’immagine dell’omosessuale borghese, che si conferma immancabilmente da un fine settimana all’altro, stride con ciò che sfila davanti ai miei occhi: gruppi di quattro uomini con il gilet di pelle portano a spasso al collare un uomo travestito da cane, che si muove solo al loro comando e cammina a quattro zampe spostandosi verso la direzione in cui lo strattonano.

Il punto di contatto fra le coppie borghesi omosessuali e il gruppo zoofilo si chiama Folsom; lo scopro mandando un WhatsApp ad Andrea, un amico italiano che come me si è trasferito a Berlino nel 2014:
- Andre ma c’è qualche manifestazione gay? Qui c’è più gente del solito in latex o vestita da cane o con il culo di fuori.
- Folsom.
- Che è?
- Gente vecchia in pelle e latex. Io e Marten siamo qui.
- Magari dopo faccio un salto e vengo a tastarvi il culetto.
- Vieni, ti aspettiamo, ma il nostro è coperto!

(Intanto digito «Folsom» su Google. La prima voce è: folsomeurope.info
Riporto dalla homepage: «Europe biggest fetish event with more than 20.000 fetish lovers»)
In questo clima d’erotismo sadico mi viene in mente che prima di uscire di casa mi sono masturbata, subito dopo la doccia, pensando per la prima metà al mio ex tedesco; in un secondo momento, mentre sto per concludere, mi metto a fantasticare su un istruttore che vedo in palestra ma con cui non ho mai parlato.
L’ho fatto per disinnescarmi; per evitare cioè di cadere in tentazione con il primo che mi capita. Altro segno che Giacomo, in foto, non mi è piaciuto.

Quando il treno della metropolitana dal binario sotterraneo sale in superficie, la notte ha quasi preso il sopravvento. Alle spalle dei palazzi che si allungano verso il cielo vagamente rosso, il sole impallidisce e il profilo della città immobile sembra un set giocattolo di cui scopro il nome (si chiama: 21027 Berlino) e l’effettiva esistenza sul sito lego.com. La linea della U1 si interrompe ad Hallesches Tor e per raggiungere Kottbusser Tor si deve prendere un autobus che ci aspetta fuori dalla fermata, sul ponte sopra la Sprea.

È proprio su questo ponte che il 31 gennaio ho conosciuto lo scoperchiatore di vasi di Pandora (da qui in avanti s.v.P.). Ci siamo salutati con un bacio sulla guancia (e NON con un abbraccio, come fanno i tedeschi) e subito dopo ha commentato con sarcasmo lo strappo al ginocchio destro dei miei jeans. Ha detto che sembravo mezza di Kreuzberg e mezza no, e non è che poi si stesse allontanando molto dal vero. Dal ponte ci siamo incamminati fino alla Zossener Strasse e abbiamo cercato un bar in cui bere qualcosa di caldo. Dovevamo vederci per un tè e invece non ci siamo lasciati fino a Pasqua.

Stasera, mentre mi dirigo da Leo, attraverso il ponte a testa bassa e se fino a un istante prima mi sento pronta per passare una serata piacevole, adesso sono nervosa, lievemente arrabbiata con me stessa. Nel corso dei mesi che da Pasqua mi hanno portato a oggi ho cercato di esorcizzare tutti i posti in cui sono stata con s.v.P. andandoci con qualcun altro e cercando di ridere più forte che potevo. Ma un ponte – mi chiedo ora – come si esorcizza?

Posti che ho esorcizzato:

- Ä – Weserstrasse 40, Neukölln: è la birreria dove s.v.P. mi accarezza i capelli dicendomi che non sa cosa sono per lui, un’amica? Un’amica con cui c’è del romanticismo? Siamo più o meno a metà febbraio e nonostante non sappia dire né a me né a se stesso che cosa io sia per lui, sostiene che la cosa giusta è continuare a vedersi.
- Tempelhofer Feld – Tempelhof: trascorro l’intera mattina del giorno di Pasqua sdraiata sul prato a fumare; fisso il cielo e tengo il cellulare sulla pancia (muto, ma con la vibrazione) in attesa che s.v.P. mi faccia sapere se ha intenzione di trascorrere il giorno con me, così come in realtà avevamo già pianificato. Si farà sentire intorno alle tre, dopo che io avrò fumato dieci sigarette e mi sarò rifiutata di mangiare per pranzo o di sorridere di fronte a qualsiasi tentativo di un’amica di tirarmi su il morale.
- Bohnengold – Reichenberger Str. 153, Kreuzberg: dico a s.v.P. di darmi la mano che gliela voglio leggere. È palese che si tratti di un trucco da quattro soldi che attuo per prendergli la mano, ma per amor proprio decido di spingermi finché posso. La guardo accigliata e dopo pochi secondi sentenzio: avrai tre figli, lo vedo dalle pieghe ai lati della mano. Poi guardo la mia e dico: io ne avrò zero, non ho pieghe. Lui mi intima di smetterla con questa stupidaggine, se le cose stanno così non avremo mai dei figli insieme. Mentre lo dice sembra quasi importargli qualcosa, mi guarda come se gli avessi strappato di bocca una verità che io ancora non so ma di cui lui è già da tempo al corrente.

L’autobus mi lascia poco distante dalla fermata di Kottbusser Tor. Arrivo al tavolo di Leo e dei suoi amici nel giro di un paio di minuti. Mi presento e assisto allo spettacolo di me che cerco di prendere posto accanto a Giacomo. Mi stringe la mano, ma io dimentico subito il nome. Parlo molto, racconto della giornata al lavoro, dei tipi umani particolari che ho visto in metro e sono contenta che ormai sia già buio, così il viola delle mie occhiaie, i contorni del mio viso impreparato a conoscerlo, si perdono nella luce fioca emessa dalle candele da the.

Leo paga il giro per tutti e ci dirigiamo verso la Reichenberger Strasse. Tagliamo il Kottbusser Damm; alla mia destra, sotto gli alberi bassi, siedono uomini sulla cinquantina, con la pancia dura e i denti ingialliti dal tabacco. Uno di loro sta parlando in turco con un ragazzino sui tredici, quattordici anni che ascolta svogliato, guarda verso di noi senza dire una parola. Da una fontanella fuoriesce uno zampillo senza energia. Quell’angolo della strada è fuori dalla Kreuzberg che fa rumore di raggi di bici e di bassi sincopati che escono dalle cuffie. Non ci sono mai donne, su quelle panchine. E gli uomini fumano parlando l’uno con l’altro o stanno in silenzio giocando a backgammon.
All’ingresso di Bohnengold c’è un uomo enorme, anche lui turco (lo so dal naso, dagli occhi amigdaloidi, dal tedesco che termina in schhhhh). Mi guarda dentro la borsetta, mentre i ragazzi vengono tastati dietro la schiena, sulle cosce e le gambe. Giriamo per il locale, la pista da ballo aprirà un’ora dopo. Decido di sedermi proprio accanto al tavolo in cui quella sera ho letto la mano a s.v.P.
Nonostante stasera il tavolo sia vuoto io vedo l’immagine di me innamorata come non sono mai stata, seduta a fianco di un altro che ritira la mano, fa un passo indietro. Vorrei alzarmi e andare ad abbracciarmi. Mi sento divisa. Allo stesso tempo siedo a questo tavolo e all’altro; nello stesso istante sono più giovane di sette mesi ma anche più vecchia. Sono accanto a un uomo che amo ma con cui non farò mai l’amore, sto brindando in onore dei fine settimana a Berlino insieme a un altro che non amo ma che da lì a poco varcherà la porta di casa mia.

Non riesco a distillare l’istante esatto in cui io e Giacomo abbiamo deciso che avremmo dovuto trovare un momento per noi. Durante la serata ci siamo avvicinati e poi allontanati. E dato che nessuno di noi due sembrava avere nulla in contrario, ci siamo avvicinati di nuovo.
Adesso siamo seduti al bancone del bar, io e lui. Leo e l’altro sono rimasti a ballare. Dietro di noi la pista da ballo è quasi piena. Qualcuno balla da solo, due ragazze sorseggiano birra al lato della pista, sedute su un divanetto. C’è molto fumo, la musica non è ancora decollata. È presto, credo l’una e mezza. So tutto questo perché l’ho registrato prima. Prima di andare a prendere posto al bancone, ordinare un Riezling e una Augustiner e iniziare a parlare di relazioni a distanza senza però avere alcuna motivazione apparente per farlo. Mi guarderò intorno solo una volta, quanto basta per notare che il barista continua a riempire i bicchieri uno dietro l’altro, con gli occhi sgranati. Non abbassa mai le palpebre e prima di dire il prezzo delle bevande tira su con il naso e ribalta le labbra verso sinistra, come un bacio a stampo che gli fa ribrezzo.
Ci parliamo così vicini da non riuscire a mettere più a fuoco i nostri occhi. Ma il segno non è nemmeno questo, quanto il fatto che dopo settimane mi dimentico anche di quel tavolo, della mano nella mano. Ed è il desiderio ciò che mi ripaga; questo modo inconfondibile che hanno gli occhi quando ti vogliono. Sono loro i primi a penetrarti; tutto il resto è solo autopsia di qualcosa che si è vissuto dieci, venti, enne volte. Sento me stessa affermare di essere dispiaciuta che Giacomo debba tornare in Italia. Gli faccio digitare il suo numero sul mio iPhone, gli scrivo «ciao!» su WhatsApp e mi alzo in piedi, lo spingo per la spalla e gli dico che è meglio tornare dagli altri.

***

Adesso è il momento in cui mi bacia. E questo ricordo mi piace incubarlo in un alone di silenzio.

***

Anche se ho bevuto tre bicchieri di vino a stomaco quasi vuoto decido di prendere una Car2go. Non ho mai guidato non essendo nel pieno delle mie facoltà, ma mi è subito chiaro che è una cosa che avrei dovuto fare molto prima dei trent’anni. Sono su di giri; quando passiamo in mezzo ai palazzi di Potzdamer Platz gli dico: «Guarda, quella è la torre della Deutsche Bahn progettata da Renzo Piano». Al semaforo rallento senza strattonare e non faccio in tempo a sollevare il piede dal freno che Giacomo mi prende il mento e mi avvicina a sé per baciarmi. Mi scosto gentilmente, non è un rifiuto ma mi preme indicargli con il dito la Philharmonie in lontananza, illuminata con i fari in pompa magna. È gialla e spigolosa come una bella domenica estiva a Berlino. La città vista dall’auto è impeccabile. Prendiamo un verde dietro l’altro e siamo sotto casa mia in anticipo sul tempo previsto da Google Maps. Il parcheggio è ampio, con grande agio metto dentro la Classe A presa a noleggio. Portare a casa un uomo in auto, mi sento adulta.

Arriva un momento, quando salgo le scale di casa e l’uomo sta alle mie spalle, in cui mi volto a guardarlo. Accade sempre al giro della prima rampa, quando è stato fuori dal mio campo visivo per un tempo che seppur breve è comunque abbastanza da farmi sentire insicura. Mi sembra il momento più delicato; se qualcosa va storto l’ho perso per sempre. Siamo una versione sghemba di Orfeo ed Euridice in cui io sono il Lui che si volta andando contro la volontà degli dei ma la mia Euridice non rovina nell’Ade subito, scomparendo per sempre. Perché questo accada, in genere sono necessarie un paio d’ore. Prima dobbiamo passare dalla mia camera da letto.

La prima volta che s.v.P. sale le scale per venire da me io sono già in casa, lo aspetto sul pianerottolo. È venuto a scusarsi dopo avermi dato buca a un appuntamento che ci eravamo dati tre giorni prima e a dirmi di non essere in grado di fare l’amore con me. Sale l’ultima rampa con le labbra serrate, le tempie sono gonfie come quelle di un cane che non vuole mollare l’osso. L’azzurro degli occhi – in genere tendente al grigio tanto che dentro di me l’ho soprannominato Glauco – è torbido. In quei due mesi li vedrò così solo un’altra volta: sono le tre del mattino e mi sta urlando contro di non riuscire a provare sentimenti per me, per se stesso, per nessuno.
Da lì in poi ogni volta che aspetto qualcuno sulla porta di casa mia, ogni qual volta l’ospite gira e si accinge a salire l’ultima rampa di scale, per un istante rivivo quel momento. Sovrappongo gli occhi torbidi da faccia di cane agli occhi di chiunque altro. È come se spalancassi le braccia per accoglierlo nuovamente, cercando di volta in volta di perfezionare una frazione di quel momento fino a dargli i connotati che avrei voluto io.

Giacomo è il primo a essere se stesso. Non penso che scapperà, né lo sovrappongo a s.v.P. Mi volto a guardarlo perché mi piace guardarlo e poi controllo divertita se magari sta fissando il mio sedere che gli ondeggia davanti al viso.

Ricordi sparsi del dopo:

- Giacomo che mi toglie di mano la sigaretta e la fuma senza aspirare, come un sigaro.
- Io che seguo il profilo del suo tatuaggio sul fianco sinistro e sono sorpresa di non averlo notato prima.
- Lo spessore del suo torso, che mi sembra il torso maschile più protettivo su cui io mi sia mai appoggiata.
- Lui che sposta la tenda di lino beige di camera mia per vedere se si è già fatto giorno e sembra che lo faccia per la centesima volta, come se stesse sdraiato sul mio letto da sempre.

Imbarazzato mi dice di dover tornare in albergo, come se voler dormire nel proprio letto dopo tutto sia offensivo. Quando mi offro di accompagnarlo alla fermata della metro mi dice che non serve, posso restare al caldo, ma intanto io sto indossando la tuta da ginnastica e gli occhiali da vista. Passando davanti a una vetrina, pochi minuti dopo in strada, mi vedo bellissima, con le occhiaie e i riccioli schiacciati. Non sto pensando a niente. Sorrido. Cammino verso la fermata di Nollendorfplatz e non mi sto facendo nessuna domanda.

Tutte le domande se le è portate via s.v.P. una notte a Kottbusser Tor, quando mi ha messo sulla U1 e se ne è tornato alla sua vita a cavallo di una bici a scatto fisso. Ho passato tutta quella notte ai bordi del letto con le braccia incrociate sulla pancia. La mattina dopo sono andata al lavoro con le labbra inferiori segnate dal solco violaceo degli incisivi. Ho cancellato il suo numero, l’ho ripreso dalla chat di WhatsApp e l’ho salvato di nuovo, per poi eliminarlo definitivamente pochi minuti dopo. Ho iniziato a fumare molto, ho smesso lo sport e la mia alimentazione sana; mi sono tolta tutti i bracciali e gli anelli sottili e ho ripreso in mano Siddhartha di Hesse e Paura di volare della Jong. Ho continuato a lavorare – perché questo non potevo proprio smetterlo – e ho iniziato a frequentare i cimiteri di Berlino più spesso del solito. Negli anfratti fra il lavoro e ciò che faccio per me si è depositato un affetto nei confronti di me stessa che giorno dopo giorno ho iniziato a chiamare risposta: la respinta da parte degli altri è una forza propulsiva che mi avvicina sempre più a me.

Note a pie’ di pagina per me stessa:
Il silenzio che lascia un uomo quando esce dalla mia vita non mi fa più paura. È solo un modo come un altro per far trascorrere il tempo che gli altri mi strappano via dalle dita.
Quando escono da casa mia si portano via un brandello di me. Tutti, indistintamente. Ma è quando li accompagno a Nollendorfplatz e dico «Ciao» che mi rendo conto ancora una volta di essere tutta intera.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 23 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.