Fare il mare
di Marta Santomauro

Dalle finestre di Villa Liliana il sole entra di sbieco, disegna trapezi giocando con le ombre sul pavimento verde, illumina fette di corridoi bianchi profumati di pulito sintetico, un perfetto mix di detersivo alla lavanda e di luoghi che vivono con le finestre sigillate.
Agata inizia il giro di routine con lentezza, stanza dopo stanza, spinge piano la porta socchiusa, butta dentro la testa e si assicura che sia tutto a posto. Controlla che i respiri muovano su e giù il lenzuolo all’altezza del petto.
Da quella volta che Lorenza ha trovato il signor Giordano secco sul materasso, morto così senza un rumore, ha il terrore di trovare qualcuno che abbia smesso di respirare.

Sono le tre meno un quarto. L’ora del riposo.
Stanza 12, tutto regolare. Eliana russa forte per le sigarette fumate di nascosto dentro il bagno, ma sembra che la nobildonna nel letto lì di fianco, la duchessa Rognoni, non la senta proprio, stordita dalla doppia porzione di risotto al radicchio con cui si è rimpinzata a pranzo.
Stanza 14, Gigliola è agitata da qualche ricordo buttato fuori dal sonno, si gira e si rigira senza pace. Carmen, invece, dorme come un angioletto, senza far rumore.
I deambulatori, in fila indiana, seguono la linea del corridoio come sentinelle prima del cambio della guardia.
Lucia fuma una sigaretta sull’orlo della porta anti-incendio, si sfrega i talloni con i talloni parlando al telefono con il suo nuovo fidanzato, in un’abbuffata di mi ami, ma quanto mi ami?
La porta della 16 è chiusa con la maniglia. Agata la abbassa piano, cercando di non fare rumore.
Evelina è seduta sul letto.
Si volta e le sorride, con gli occhi che luccicano, la spazzola tra le mani.
«Evelina, non riposi?»
Lei si gira verso la finestra e si guarda in uno specchio che non c’è, riprende a spazzolarsi.
Canticchia qualcosa sottovoce.
Si pettina i capelli come se fosse la prima volta.
Sono ragnatele argentate, oscillano in controluce. Sottili e fragili. Le forcine nere sono i ragni che penzolano, agganciati qua e là.
Con la spazzola accarezza uno a uno quei fili lunghi, ma senza toccarli davvero.
Guarda un punto lontano fuori dalla finestra e sorride con gli occhi liquidi, continua a canticchiare.
«Cosa canti Evelina, dimmi, mi sembra una melodia che conosco, ma non ne sono sicura…»
Evelina non smette di sorridere, «na nananana nana… na nananana nana», sembra appoggiata su una nuvola e Agata riconosce il motivo dolce che canticchiava sempre sua nonna parlando di De Sica, il Vittorio né, minga quel giupìn de su’ fiö. Nella stanza 16, ad Agata sembra sempre di tornare un po’ a casa.
Rimane lì un attimo, fermando il tempo alle storie di quando era una bambina.
Parlami d’amore Mariù…
Evelina intanto si è alzata e ha aperto l’armadio.
Da quando è morta Angela, la sua vicina di letto, tutto quello che c’è nella stanza è diventato di sua proprietà. Quella donna di Piacenza non aveva nessuno, se non un figlio lontano di città e di testa, e le sue poche cose occupano ancora metà dell’armadio: la vestaglia color cipria, due camicie da notte, identiche e molto grandi, un piccolo beauty case, le scarpe e il cappotto con cui è arrivata, l’odore di naftalina. Sembra felice, Evelina, di aver raddoppiato il guardaroba. Dell’assenza della compagna, invece, pare non essersi nemmeno accorta.
Tira fuori la camicia da notte di Angela, bianca, sottile sottile, con un nastro leggero azzurro che ricama il collo.
«Cosa dici, Nani, ti piace?» e se la appoggia davanti come se fosse nel camerino di un negozio e stesse mostrando un abito da sera.
«Per cosa, Evelina?»
«Ho l’appuntamento romantico…» dice maliziosa.
Agata scoppia a ridere sul letto e le guance della donna si fanno immediatamente rosse.
«L’appuntamento romantico?»
Evelina la guarda tra il risentito e il trasognante.
«Sì, certo Nani… vien su il Corado oggi!» dice proprio così: il Corado, «ma non lo dire all’Attilio, se lo sa el me masa
«E chi è il Corado, Evelina?»
«Ma dai, Nani, non mi scherzare, che ti parlo sempre del Corado! Il Corado Marchesi, il mio amore grande!»
Luccica tutta, dietro la pelle bianca. Luccica dentro.
Agata la ascolta, mentre srotola il nastro di Corrado. Come una storia che ha raccontato un milione di volte e che lei colpevolmente non ricorda.
Come una storia che non ha raccontato mai a nessuno.
È un’adolescente che scrive sul diario segreto, una ragazzina con il cuore pieno e le parole fitte che devono traboccare.

***

Tutti dicevano che era bella, Evelina, con le guance rotonde e la vita stretta, i capelli chiari e soffici che sfuggivano dalla crocchia, come una stregoneria.
Milano negli anni Quaranta era un organismo in autocombustione, con le bombe inglesi che piovevano sulla testa e la capitale industriale in fermento.
Era la bella del paese in un posto che non era più un paese. Ma lei non credeva alla propria bellezza, non la vedeva.
Credeva solo nel proprio cervello, lo ripeteva instancabile al marito, ogni volta che lui cercava di convincerla, le donne possono non lavorare se gli uomini sanno portare a casa la pagnotta pronunciava Attilio orgoglioso.
Ma lei si seccava, il Signore mi ha donato la matematica, adesso io devo usarla ribatteva seria.
Faceva la segretaria per il ragionier Colombo in un piccolo studio contabile (era brava a fare i conti, questo lo sapeva), e l’ufficio in cui lavorava si affacciava sul Naviglio Grande, vicino ai magazzini della stazione Ticinese che stava nascendo.
Alle cinque di ogni pomeriggio, quando Evelina usciva dal lavoro e attraversava la Darsena, c’era sempre qualcuno lì fuori appoggiato al ponte, pronto con un fischio o un ciao bellezza. Ragazzi che la aspettavano per strapparle un appuntamento. Mosconi fastidiosi a cui lei regalava parole al vetriolo o assoluta indifferenza. Pensava di voler essere altro nella vita che carta moschicida.
Lui, invece, la guardava e basta.
Come un manichino, fermo sul marciapiede, scuro e profondo nel suo foulard rosso.
Ogni sera, per molte sere, lui l’ha guardata uscire dall’ufficio, con la schiena al muro, dritto e timido da sotto il bavero del cappello, le spalle strette nella camicia bianca con le maniche rimboccate fino al gomito, la fronte alta, le scarpe vecchie, però sempre lucide.
Allora lo guardava anche lei, spingeva gli occhi grandi e senza ciglia dentro i suoi occhi neri e si sono innamorati così.
Guardandosi.

Attilio lo aveva conosciuto in un rifugio degli alpini, durante una gita in Valtellina in cui lui scivolava con la faccia nella neve e lei scuoteva la testa e lo tirava su. Era il fratello della sua migliore amica, Margherita, ed era diventato suo marito proprio così: in modo goffo e con gli scivoloni.
Prima della Linea Cadorna e delle montagne assediate.
Il giorno in cui si sono sposati, Evelina ha capito che non sarebbe mai riuscita ad amare quell’uomo con la mascella dura e quella grossa ametista all’anulare destro, e mentre rispondeva sì, lo voglio davanti al prete e ai testimoni, nella mente chiedeva a Dio se c’era verso di farlo arrivare questo amore per Attilio, che forse era meglio per tutti. Ma Dio non aveva risposto.
Il cuore di suo padre, Enrico, era scoppiato una mattina di aprile, tra le mattonelle gialle del bagno. Uno smacco per un cuore di montagna che era sopravvissuto al massacro in Abissinia e avrebbe voluto esplodere solo sulle vette, tra la fanteria con la penna nera e il fucile carico.
Sua madre, Carla, aveva il sangue veneziano, la lingua lunga e una certa dedizione alla bonarda. Ma come cucinava risi e bisi lei, nessuno.
Insieme ad Attilio e sua madre, Evelina viveva a Porto di Mare, un sottoquartiere di Corvetto, l’ultimo avamposto milanese al limite della circonvallazione in cui il mare non sarebbe arrivato mai per colpa di un naviglio fallito, al quinto piano di un palazzo che segnava il confine con le periferie vuote. Ogni sera, Evelina appiccicava la fronte a quella finestra di via Cassinis e contava le navi, le stelle e i pescatori che un giorno sarebbero risorti dal Po.
Attilio le diceva che era matta a starsene ore, dietro un vetro, a guardare l’ombra che scendeva tra le campagne e i fantasmi delle fabbriche, «non hai di meglio da fare che guardare il niente?» borbottava strascicando le pantofole verso il divano.
«Non le senti le onde?» sussurrava lei. Poi chiudeva gli occhi e per l’ennesima volta interpellava Dio, gli chiedeva di intervenire. Inutilmente.

Che si chiamava Corrado Marchesi, l’aveva scoperto rovistando nelle carte dell’ANA di Milano, dove aiutava come volontaria alla segreteria. Le montagne Evelina non le aveva mai scalate né difese con il fucile, ma conservava un rispetto e un amore forte per quelle genti con il pennacchio che rappresentavano suo padre, e si dava da fare per tenere viva la sua memoria tra gli alpini.
Leggendo quel nome su quella lista, per la prima volta Evelina aveva pensato al destino, se era vero che esisteva e cosa ci stava lì a fare.
Corrado Marchesi, colonna leggera della Brigata Julia, non sorrideva affatto da quel ritratto acquoso sul modulo che siglava l’arruolamento nell’ARMIR.
Il giorno in cui lui si era presentato in segreteria per firmare le ultime carte, una bomba era esplosa, ma non era la guerra. Quel giorno di agosto del 1942 la bomba era il cuore di Evelina. Per non far vedere la detonazione, aveva impostato lo sguardo sfrontato, le spalle dritte, il mento alto. Ma le mani la tradivano.
«Allora vai, sei sicuro?» gli aveva detto come se si stessero parlando da una vita, girando tra le dita nervose la penna con cui lui avrebbe dovuto siglare l’arruolamento.
«Di sicuro so solo che stasera ti porto a cena» aveva risposto Corrado svelto, prendendole la penna. Le loro mani si erano scambiate elettricità.
A Evelina era scappato un risolino, «ma allora ce l’hai la voce! E io che mi pensavo avessi solo occhi!» e avvicinandosi si era accorta di quei tre capelli bianchi disegnati tra le basette, le era sembrato di cominciare a conoscerlo davvero.
«Dimmi dove abiti che alle otto vengo a prenderti» aveva fatto lui serio, schiarendosi la voce e raddrizzando il foulard. Era una voce di gola, densa.
«Oh no, no. Le donne per bene non escono la sera!» e aveva girato la faccia verso la finestra per non far vedere che sulle sue guance era sbocciato un fuoco grande.
Lui giocava con la barba nera, fitta, «allora verrò la sera e aspetterò che faccia giorno. Dimmi dove e ci sarò finché non scendi».
«Guarda che io abito al confine con il niente, dopo Corvetto non si può fare nulla mentre si aspetta, moriresti di noia…»
«A Corvetto c’è il mare, dicono.»
Gli occhi di Evelina erano naufragati.

Quella sera, dalla finestra di via Cassinis, Evelina non guardava più un orizzonte lontano. Guardava in basso, cercando un triangolo di stoffa rossa e una barba nera. Attilio russava forte dal divano.
Sua madre, Carla, ogni tanto metteva il naso nella stanza, «che succede lì fuori che stasera non ti stacchi più?»
«Niente mamma, niente. Guardo.»
«Oh, ben-bòn!» esclamava, «una figlia con le visioni, ho fatto una figlia con le visioni!»
Poi tornava in cucina, a finire i piatti e il bicchiere di bonarda.
Il puntino di Corrado era fermo, appoggiato al muretto di cemento armato. Si accendeva e spegneva a intermittenza insieme alle Milit senza filtro.
A metà notte, Evelina aveva spalancato la finestra. Poi si era fermata davanti allo specchio, aveva ripassato le labbra con il rossetto rosso che teneva nascosto nella borsetta e non usava mai, si era accarezzata le guance con mani che non immaginava sue. Aveva aperto l’armadio e indossato il vestito a fiori verde e blu. Aveva fatto una giravolta, di nuovo davanti allo specchio. Sentendo i passi di Carla nel corridoio si era infilata di corsa sotto le lenzuola, vestita, pronta per l’appuntamento romantico appena avrebbe fatto giorno.
Dal soggiorno era risuonata la vibrazione del vetro, lo sfregarsi del serramento contro il serramento, il toc della maniglia che girava, chiudendosi, poi di nuovo i passi di sua madre in corridoio.
Il puntino di Corrado aveva aspettato molte ore, nel buio e nella luce. Erano passate molte navi, ma Evelina no.
Quella mattina, lei non era scesa, non era andata al lavoro. Quella mattina, sua madre era rimasta nel letto, «oh ben-bòn!» aveva sussurrato Carla. Poi, per colpa di quell’ischemia, nel letto ci sarebbe rimasta quasi trent’anni.
Il puntino di Corrado era partito per le rive del Don, con le scarpe pesanti e il pensiero di non sapere neanche il nome della sua donna.

 ***

Un colpo di vento apre la finestra socchiusa. Lei continua a spazzolarsi i capelli.
Agata guarda l’orologio, «accidenti è tardissimo! Evelina sono le sei, il mio turno è quasi finito» si aggiusta il camice in fretta «io controllo che siano tutti svegli e pronti per la cena, poi vado a casa».
Evelina le sorride con gli occhi, «io invece stasera vado al mare».
Agata ride, «dormi bene» e le dà un bacio sulla fronte.

Il cortile di Villa Liliana è deserto. Le foglie di ottobre coprono il prato e il vento striscia freddo sul cielo rosso da un lato e indaco dall’altro, mentre il sole scende sulla periferia di Milano.
Dalle finestre della mensa arriva l’odore di minestra con zucca e porri.
Le sale un forte senso di nausea. Agata cammina a passo svelto per raggiungere il parcheggio dove Giorgio la starà già aspettando. Stringe tra i denti una radice di liquirizia, ci affonda gli incisivi dentro, e pensa a Matilde che a quest’ora avrà già fame, ai panni in lavatrice che devono essere stesi da due giorni. Pensa a una scusa da inventarsi con quell’uomo gentile che la viene a prendere al lavoro, le regala fiori e attenzioni che lei non vuole, pensa a come dirgli che l’amore è un’altra cosa, che non la condivideranno.
Sbuffa sovrappensiero, urta un ragazzo cingalese con un enorme mazzo di rose rosse in mano.
«Bella signorina, una rosa due euro» dice lui attutendo la spallata, immobile di fronte al cancello della Villa.
Non fa in tempo a scusarsi con il ragazzo, «Corado, Corado» sente chiamare dai cespugli di azalee che racchiudono il giardino.
Evelina è dall’altra parte del cancello, in punta di piedi dentro le ciabatte da camera, «Corado, son pronta», la sua voce sottile si perde nel vento, la camicia da notte enorme e leggera si riempie d’aria, lei la accarezza con entrambe le mani per placarla.
«Evelina sei matta! Cosa ci fai qui fuori!» grida Agata colta alla sprovvista.
«Corado, non ti muovere adesso scendo!» fa un cenno con la mano e fissa il ragazzo con le rose, le labbra sbavate di rosso.
«Evelina non farmi arrabbiare… Muori di freddo e non c’è nessun Corrado!»
«Oh, mamma lasciami in pace» le risponde rabbiosa, «non fare la solita guastafeste!»
Il ragazzo con le rose sorride impassibile, «compra una rosa. Una rosa due euro».
Agata gli lancia un’occhiata, come un ringhio, «vattene, forza! Tu non c’entri con questa storia!» e si mette a correre sul viale, controvento, chiama Evelina con il fiato corto e all’ingresso del cortile già si sta sfilando il cappotto per coprirla, portarla al sicuro, mentre gocce grosse come sassi iniziano a macchiare l’asfalto.
Vorrebbe cancellare quel rossetto che le sporca il mento, rompere quegli occhi di vetro, non sentire amarezza. Vorrebbe dimenticare quello che ha imparato oggi, che l’amore è quella cosa che diventi rossa, che non c’è tempo neanche di un bacio, che sverrai per la strada nel momento esatto in cui, sul fronte, una pallottola gli bucherà il petto. L’amore è quella cosa irrisolta che ci portiamo addosso, lì, dove non siamo potuti andare davvero.
Lei allunga le mani tra le sbarre del cancello, il ragazzo mostra tutti i denti gialli e le tende uno stelo.
«Signora, compra una rosa. Una rosa due euro.»
Un lampo taglia il cielo. Inizia a grandinare sull’auto di Giorgio, ferma in fondo al parcheggio.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 21 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.