Un complottista
di Matteo Moscarda

Nell’istante in cui Paolo si scaglia verso il mendicante mi torna in mente Doina Matei, la ventunenne romena che nel 2007 ha ucciso una coetanea, alla Stazione Termini, infilzandole un occhio con la punta dell’ombrello.
Doina era nata nella Bucarest esangue dell’ultimo Ceauşescu. Cresciuta nell’indigenza, con un padre che picchiava la madre ogni sera, a quattordici anni incontra Valentin e ci fa due figli, così, per farsi una famiglia sua, magari migliore. Ma Valentin viene arrestato e Doina perde la custodia di Adrian e Ionut. Per riaverli ha bisogno di soldi. Comincia a lavorare in un night club, dove da ragazza immagine a escort il passo è breve. Ma la paga non basta. Così Doina si lascia plagiare e vola in Italia, che nell’immaginario balcanico è il paese del riscatto. Qui, però, finisce a battere sulla Tiburtina. Racconterà: Quelle mani sporche di sperma mi insudiciavano il corpo, ma l’anima era altrove. Quella melma, quel fango che mi scorreva addosso erano cemento e calce per costruire il mio sogno più grande, la casa per i miei bambini. Dopo due mesi, durante un alterco in metropolitana, Doina sfonda l’orbita oculare della nemica con il puntale dell’ombrello, ledendole fatalmente l’arteria cerebrale. Fine dei giochi.
Io non ho pregiudizi sugli immigrati. I romeni, poi, mi piacciono particolarmente: il mio portinaio è romeno, la lavandaia è romena, e Max Blecher, anche lui è romeno. Il problema è che mi affascinano le assassine. Ai tempi di Erika ho aspettato mesi che diventasse maggiorenne per scoprire se aveva occhi sensuali quanto le labbra. È una cosa che tengo per me, o mi direbbero che manco di rispetto alle vittime. Certi feticismi ti sono concessi solo se conduci Porta a Porta.
Nell’istante in cui Paolo affonda il calcio nello stomaco del mendicante ripenso anche a quando un amico è stato sequestrato da tre romeni, sull’N1, quello notturno. Alla fine i romeni lo presero a simpatia e gli mostrarono la tecnica per sfilare i portafogli: il finto inciampo, l’urto, lo spalleggiatore che distrae l’alleggerito. Il mio amico ha protestato, finché non ha intravisto le lame sotto i loro giubbini. Quell’autobus lì non l’ha più preso.

Quando Paolo mi ha telefonato ho capito subito che c’era qualcosa sotto. Se un amico ti invita a pranzo senza preavviso o l’hanno licenziato o ha tradito la compagna. E infatti mi ha detto che gli hanno proposto un trasferimento in una filiale in Romania e che, considerate le teste già saltate, non può rifiutare. Sono i sintomi di una speculazione finanziaria, dice: il capo deve aver deciso di sfruttare la crisi per monetizzare l’azienda, incassare la rendita garantita e dedicarsi ad altro.

«Significa che rischi il lavoro?» gli chiedo.
«Per me tagliata ai ferri. Guardi, praticamente cruda. Sì. A meno che non mi trasferisco in Romania.»
«E lo escludi? Io tonnarelli carciofi e grana, grazie.»
«Sei mai stato in Romania?»
«No. Però sto leggendo uno scrittore romeno, sai? Una specie di Proust.»
«Tu non l’hai letto Proust.»
«Però so di cosa parla. Non bisogna leggere Anna Karenina per sapere come muore».
«Un po’ come dire che Kafka è kafkiano. Hai visto Il calamaro e la balena? Guardalo.»

Non so perché ci frequentiamo. Le nostre conversazioni sono faticose, lui è pedante, e quando parla di lavoro capisco solo le parole inglesi. Più di una volta ho pensato che mi usi per sfogarsi.

«E no, cazzo! Ho chiesto che fosse “praticamente cruda”.»
«E io ho riferito al cuoco. Gli ho detto “molto al sangue”.»
«Non ci siamo capiti. Io ho chiesto una tagliata “praticamente cruda”.»
«Guardi, non si alteri. Noi facciamo “cotta”, “al sangue” e “molto al sangue”. La sua è “molto al sangue”. Inclini il piatto, ce n’è un litro, di sangue.»
«E no, anche la presa per il culo no» urla Paolo, e si alza. Poi, infilando la giacca: «Non è colpa vostra, voi meridionali siete abituati a carbonizzare la carne per disinfettarla, come fanno gli indiani con le spezie per coprire la carne avariata».
«Io sono di Arcinazzo Romano.»
«Meridionali del cazzo.»

Ci sediamo da Burger King, dove quantomeno, dice Paolo, non ti illudono di poter scegliere. Io annuisco, ma sono ancora scosso. Non so gestire certe situazioni, ho imparato a evitarle, dopo che per anni mio padre ci ha portato al ristorante solo per lamentarsi: era una sua prerogativa, insieme agli antipasti masticava già gli improperi per un particolare, uno qualsiasi, che gli avrebbe permesso di sfogarsi.
Paolo mi ricorda mio padre. È vergine anche lui, sempre sarcastico ma capace di stupirti con slanci di generosità. Forse è per questo che lo frequento, per un’archeologia del mio irrisolto rapporto paterno, una riscoperta e una seconda – fallimentare – chance di fare pace con papà. Mentre lo osservo dare il terzo e il quarto calcio allo stomaco del mendicante ripenso alle batoste ricevute da quel tipo che aveva rigato la macchina di papà. È difficile, a volte, non parteggiare per i cattivi.
Per quel delitto Doina Matei si è beccata sedici anni di carcere: quando uscirà ne avrà trentasettenne. Intanto l’anno scorso ha vinto il concorso letterario Goliarda Sapienza e ora il suo racconto La ragazza con l’ombrello fa parte dell’antologia Volete sapere chi sono io?, pubblicata da Mondadori. Ovviamente è successo il putiferio. Il popolo della rete è insorto: un’immigrata uccide un’adolescente e noi la premiamo? Che poi il racconto non sia niente male, e che Doina si sia venduta per amore dei figli, tutto questo non conta: come dice qualcuno, lo straniero ha già in sé un capo di imputazione.

«Stronzate» mi interrompe Paolo, mentre scendiamo nella metro. «Hai sentito di quei due italiani che stanno scontando dieci anni in India per un paio di canne? E quel tizio nel paesino andaluso, che non solo gli hanno soppresso per errore i tre cani, ma s’è pure beccato quattro anni per tentata aggressione al sindaco? Poi da noi arriva una romena, ammazza una ragazzina e diventa Elsa Morante. Ed è il relativismo culturale di quelli come te a trascinare questo paese nella merda.»
«Addirittura.»
«Ma sì, perché ci mancano le palle, questo è. In quale altro Paese potrebbero attraccare i barconi con gli albanesi? C’avessero provato con la Germania, dai retta a me, un bella raffica intimidatoria, un centinaio di morti statistici, e poi vedi il calo esponenziale dei tentativi. No, da noi hanno persino il coraggio di paragonare i CPT ai lager. Dovrebbero ringraziare che non li accogliamo nelle fosse comuni, altro che CPT. Il problema di base è la nostra miserabile misericordia cristiana!»

Paolo è fuori di sé. Urla, non si preoccupa che lo sentano, e più dice stronzate più si infervora. Mi chiede se ho notato questi mendicanti a piedi nudi, avvolti da drappi lerci cuciti insieme a casaccio. Sono una novità del mercato dell’elemosina, dice, tutti con lo stesso saio, le stesse movenze, lo stesso sguardo folle – assolutamente finto. Ci dev’essere, da qualche parte nei bassifondi, una master per questuanti. Storpi, pazzi e disperati, li fanno in serie, tutti fasulli, come gli zoppi ai semafori o le rom col neonato, tutte con la stessa voce e la stessa storia. Recita, questa nuova stirpe di reietti, disposta a inscenare pantomime pur di non lavorare. I peggiori, dice, sono quelli che salgono sul treno a Napoli per fare colletta perché gli è appena successa una disgrazia: secondo lui, hanno corrotto le FS per fare sosta lunga nel capoluogo partenopeo.
È a questo punto del suo delirio che ci raggiunge, da qualche vagone più in là, una litania. È il canto sottomarino di un ubriaco. Ad accompagnarlo è un fetore di vomito, urina e infezioni. Poi eccolo: piegato a novanta gradi su un bastone da druido, strofinaccio bisunto in testa, il cappotto che è un cane scuoiato, gli stivaletti bucati sull’alluce: è il mendicante perfetto, dickensiano, è l’archetipo sceso in terra.
Quando varca la soglia del nostro vagone il puzzo si fa penetrante e la sua cantilena intuibile: «Buhonahea sighgnuhori, avhrehe unha mouhetiha, peffhavhoue». La mano, vibrante, bitumata, in un prevedibile guantino a mezze dita, tira dritto, imperterrita, quasi indifferente al bottino. Il passo è grottesco, inverosimile. Tanto che Paolo non ci crede.

«Ohi, tu, specie di aborto» gli fa. Il mendicante si zittisce, Paolo guadagna pubblico. «Falla finita, ok? Mettiti dritto, per favore.»
«Pa’, ti prego» invoco io.
«Cazzo, è ovvio che fa finta. Dico a te, cazzo, smettila di fare il buffone!»

Cerco di trattenerlo, ma la meccanica dell’odio si è innescata. Paolo dà un calcio al bastone e il mendicante si schianta sul pavimento del vagone. Scorrono le porte, siamo alla fermata Manzoni, alcuni scappano, chi deve entrare tentenna ma poi entra lo stesso, e si siede lontano.
Paolo intima al mendicante di alzarsi e di confessare l’imbroglio. Quello rantola e lo fissa. Non sembra spaventato, quando Paolo carica il primo calcio, mentre mi torna in mente Doina Matei e ho un brivido al perineo, mentre la gente tira fuori i cellulari per filmarlo. Al quinto calcio, però, il mendicante digrigna.
Il viso di Doina Matei mi paralizza. Ha un che di alieno: la fronte ampia e bombata, le arcate sopracciliari che convergono in un naso affilato, le gote scavate. Delle decine di foto scattate la sera dell’arresto ce n’è una che torno a fissare puntualmente. È l’unica frontale. Il suo sguardo è sconvolgente, ogni volta mi affonda una mano in gola, fino allo stomaco, e devo serrare le gambe per sopportarlo. L’espressione è impassibile, e la immagino così, di ghiaccio, anche davanti al sangue rigurgitato dal mendicante, adesso che Paolo si è calmato, che finalmente qualcuno l’ha placcato. Lasciamo il mendicante nel suo vomito, arriva la polizia, la gente ci indica, ma per le forze dell’ordine siamo invisibili.

Tornato a casa la prima cosa che faccio è cancellare tutte le foto di Doina dal portatile. Poi giuro a me stesso di tagliare i ponti con Paolo. Una settimana dopo mi telefona Carla, sua moglie, in lacrime: Paolo è ricoverato al Fatebenefratelli, con diverse costole rotte, un occhio che è uno scroto viola e non so cos’altro. Qualcuno, ieri notte, l’ha trascinato in un angolo e l’ha pestato a sangue. Eppure il medico dice che si riprenderà presto, il tempo di essere trasferito in carcere, dove sconterà sessanta giorni per istigazione a delinquere. La consolo un po’, con le solite banalità. Poi riaggancio, e ripenso a quando mio padre è entrato in ospizio, sorpreso da un aneurisma cerebrale, e di lui, del suo sarcasmo e dei suoi slanci di generosità, non è rimasto praticamente nulla. Non sono mai andato a trovarlo.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 21 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.