Il Pilota e la comunità brasiliana
di Aniceto Fiorillo

«I brasiliani belgi» erano circa diecimila, suddivisi tra Bruxelles, Namur ed Anversa; erano meno dei brasiliani d’Inghilterra ma sempre di più dei brasiliani d’Italia. Anche i brasiliani avevano capito che in Italia tirava una brutta aria. Vi dirò di più, molti dei «brasiliani belgi» avevano avuto come prima esperienza europea proprio l’Italia ma subito avevano fatto le valigie per il più ospitale Belgio. In terra belga ebbi la fortuna di conoscere approfonditamente la comunità brasiliana. Analizzando la loro tipologia di emigrazione, capivi che come altri emigravano per avere una vita migliore. La loro emigrazione aveva caratteri temporanei, durava quattro, cinque anni per poi ritornare in Brasile. I brasiliani avevano un amore smisurato per la propria terra e soffrivano di una forte saudade che li costringeva a tornare in Brasile. Parlando con i brasiliani mi ero reso conto che ognuno di loro aveva una piccola fattoria da gestire in Brasile, il loro sogno era di comprare quante più vacche era possibile, di costruire una fazenda e di diventare fazenderi. L’idea non era malvagia, anzi aveva la sua logica. Andare in Brasile a crescere vacche. Carlitos, che in Belgio lavorava come muratore, ne possedeva circa trenta e alla cinquantesima vacca avrebbe fatto le valigie e sarebbe ritornato in Brasile con sua moglie e i suoi due figli; il mio parrucchiere gay, Sosinho, ne aveva soltanto diciotto, ed era geloso degli altri, che ne avevano molte di più

Il migliore di tutti era il Pilota: il Pilota era al di sopra di tutti «i brasiliani belgi» che avessi conosciuto. Il Pilota rappresentava un sogno, anzi, per meglio dire, il Pilota era il sogno.
Il Pilota, in realtà era Gomes do Santos, quarantasei anni, proprietario terriero in Brasile e titolare di un’impresa di pulizie in Belgio, denominato il Pilota per il suo sogno: diventare pilota d’aeroplani. Conobbi il Pilota a una festa, in una tipica festa brasiliana a base di carne, fagioli, riso e jupiler (birra). Quando lo vidi, subito incominciai a ridere. Il Pilota, alto circa un metro e sessanta, con una leggera pancetta da imprenditore, era fidanzato con una ragazza che minimo in altezza gli dava quindici centimetri, aggiungendo i tacchi i centimetri arrivavano a venticinque. La sua donna si chiamava Maria, italiana, laureata in Economia, lavorava come manager alla Canon, bellissima ragazza e personalmente mi chiedevo che cazzo ci avesse trovato nel Pilota. Sul Pilota tutto si poteva dire tranne che fosse bello, forse aveva il fascino del quarantenne. Il Pilota era un irregolare, sans papier. La sua azienda contava la bellezza di quindici dipendenti, molti dei quali erano brasiliani, altri portoghesi, alcuni cileni. Il suo business si rivolgeva a piccole, medie ditte, a complessi abitativi. Il Pilota, non so se fosse davvero laureato in legge come diceva fieramente, ma di una cosa era certo: oltre a essere un sognatore era anche una volpe. Soffriva di uno sdoppiamento di personalità, di giorno materialista, di notte sognatore. Si immaginava pilota di aerei, di un suo aereo privato, e di volare per il cielo del Brasile accompagnato dalla bandiera brasiliana e da Maria, che quando ascoltava il Pilota dimenarsi tra i suoi sogni quasi si metteva a piangere.

Il modo migliore per conoscere i brasiliani erano le feste. Le feste dei brasiliani erano una delle cose migliori che il Belgio potesse offrirmi, in primis erano «free», e in più era assicurato cibo e divertimento. Alle feste erano presenti tutti, e chi aveva i figli li portava con sé, e i bambini erano costretti a rimanere fino alle cinque del mattino. Ricordo che la prima festa a cui partecipai si svolse presso la casa del Carlitos, andai in compagnia di Josè, di mio fratello e Leninha. L’abitazione del Carlitos si trovava nei pressi dell’arco del cinquantenario, una villetta di due piani con giardino retrostante. Il Carlitos si trattava bene, del resto essere muratore in Belgio rendeva. A volte pensavo che se avessi avuto il dono di rinascere, mi sarei scelto un lavoro pratico: l’ elettricista, l’ idraulico, quei lavori che rendono. Ma gli eventi, il corso della vita, ti portano a percorrere altre strade. Ritornando al Carlitos, oltre ad avere una casa con due piani, il Carlitos aveva una moglie e due figli: Gustavo e Antoninho.
I suoi due figli, di cinque e sette anni, frequentavano regolarmente la scuola elementare, parlavano francese tres bien e il processo di integrazione filava liscio come l’olio anche se soffrivano come dei cani a stare in Belgio. Le feste dei brasiliani rispecchiavano le loro personalità, piene di colori, di gioia, di balli e di cibo. I brasiliani potevano essere accomunati un po’ ai napoletani, pensavano solo al divertimento; il lavoro e le preoccupazioni abitavano lontano. Di politica, non sapevano nulla e nulla volevano sapere, lavoravano, si divertivano. Una volta si parlava dell’11 settembre, quando d’ un tratto arrivò il Carlitos, che, sentendo 11 settembre, fece riferimento alla data di nascita di Ronaldo. Di Bin Laden e del terrorismo poco ne capivano, vivevano in una sorta di beata noncuranza di come il mondo stesse andando.

Erano così, feste e vivere alla giornata. Quando mi parlavano delle loro famiglie, non vi dico i disastri familiari. In media, una ragazza brasiliana di ventitré anni alle spalle ha già un matrimonio, un divorzio e un bambino da sfamare in Brasile. Se la mia povera nonna li avesse potuti ascoltare, di sicuro avrebbe esclamato: o signore mio, mai peggio. Di disastri ce n’erano svariati. Tanto per citarne uno, vi era il disastro del Belardo. Il Belardo, che di professione era muratore, lavorava con Carlitos, aveva ventisei anni, aveva un fisico simile al portiere del Milan Nelson Dida, alto circa un metro e novanta con un peso di settanta chilogrammi. Lo chiamavano Mister 48, era il numero di vacche che possedeva, ed era fidanzato con Lima, impiegata nell’azienda di pulizia del Pilota. Il Pilota dava lavoro un po’ a tutti. Il Belardo era stato sposato e divorziato, due volte, aveva due figli in Brasile e una nuova moglie in Belgio. La cosa che più mi divertiva era proprio il loro atteggiamento nei confronti della vita. Era per tutti un manicomio senza fine, una famiglia allargata che contava sei, sette figli, due mogli, due madri. Non si capiva niente. Incontravi una donna di mattina e di sera ti chiedeva di sposarla.

Intanto la festa continuava
Subito entrai nel vivo, capii che quella sera sarebbe stata una sera di grandi disastri, nel senso di grande conquiste. Dopo una settimana di lavoro al call center, dove ti contano anche i minuti per pisciare e i secondi per cacare, volevo solo distrarmi con delle donne brasiliane. Mi buttai letteralmente nella movida, tra canti e drink, riuscii ad avvinghiarmi a una ragazza bionda, mai vista prima. Mi ricordo che parlammo poco, anche perché masticavo poco il portoghese e poi francamente di parlare non ero molto attratto. Incominciai a baciarla dal collo e finii con le labbra, tra me pensavo: anche questa sera mi sono guadagnato il mio pane quotidiano. Intanto mi accorgevo che il tasso etilico delle persone che stavano al mio fianco non accennava a diminuire e anche le grida e la musica aumentavano in maniera esponenziale. Preso dalla bionda, ero completamente in un’altra dimensione. Proprio mentre la confusione era al massimo, si sentì il campanello suonare e all’improvviso il silenzio si impadronì della casa. Carlitos si avvicinò a mio fratello e lo pregò di andare ad aprire. Io, mio fratello, Josè e Maria eravamo gli unici regolari della festa, gli altri, i brasiliani, tutti irregolari. Io e mio fratello andammo, aprimmo e ci trovammo di fronte due agenti in divisa, di età compresa tra i venti e i ventiquattro. Ci presentammo.

Gli agenti ci invitarono a favorire i documenti, «Italiani» disse uno dei due agenti. Quando una persona ti dice «italiano» non sai mai se lo dice in modo ammirato o in modo schifato, nel nostro caso era in modo ammirato. Il più piccolo dei due si chiamava Michele, era figlio di emigrati italiani in Belgio. Ci disse che era calabrese, incominciammo a parlare dell’Italia e di altre piccole cose. Entrammo subito in sintonia. Era fatta, avevamo evitato il peggio, e il peggio significava perquisizione dell’appartamento con relativa espulsione del proprietario, ossia di Carlitos, che avrebbe finito di collezionare vacche.
Dopo aver salutato gli agenti, tornammo dentro. Trovammo solo desolazione. Dei brasiliani nemmeno l’ombra. Eravamo rimasti solo io, Josè, mio fratello e Maria. Io e mio fratello ci guardammo come per dire che cazzo è successo? All’improvviso, mio fratello udì la voce di Carlitos: «Ancimo, Ancimo, Ancimo». Stava per «Antimo», i brasiliani avevano un problema con la t. Carlitos aveva scavalcato il muro di cinta della sua abitazione per paura di essere rispedito in Brasile e gli altri avevano seguito l’esempio. Il Belardo si era nascosto al piano superiore. La ragazza bionda, dileguata, non la vidi più. La moglie del Carlitos aveva trovato rifugio su un albero di limone. Maria andò alla ricerca del Pilota. Si trovarono e si abbracciarono.

Maria e il Pilota
La storia del Pilota e di Maria era degna di una trama da soap opera sudamericana, non mancava niente: l’ amore, la separazione, i litigi, le riappacificazioni. Tutto ciò andava avanti da due anni, più o meno. E poi c’era la madre di Maria. La prima volta che la madre di Maria vide il Pilota, mise sottosopra tutta la regione di Bruxelles. «Hai perso la testa» ripeteva alla figlia, «non sai cosa fai, un brasiliano! Quelli sono dei mascalzoni, e poi cosa ti ritrovi? E se fai un bambino? E se quello decide di andarsene in Brasile, tu cosa fai?»
Maria accusava il colpo e con la testa china diceva: «Hai ragione, è una ragazzo che non fa per me, domani lo lascio».
E lo lasciava pure,ma il giorno seguente erano di nuovo insieme.
Il Pilota era un bravissimo ragazzo, ma con enormi difetti. Un po’ duro di comprendonio. Era un tipico brasiliano con tutti i pros and cons della situazione: vita sregolata, orari che non esistevano, voglia di divertirsi. Tipica filosofia brasiliana, oggi sono vivo e sto bene, e chi se ne frega delle altre cose. Mentre la madre, ovviamente, per Maria voleva soltanto il meglio. Come qualsiasi madre. Immaginava la figlia sposata con un manager, uno di quelli che ha un reddito considerevole, una casa in montagna e all’occorrenza anche al mare. E invece, chi si ritrovava come genero? Il Pilota. Un brasiliano, un clandestino che, a parer suo, voleva sposare la figlia solo per sistemare i propri inghippi burocratici, ottenere la cittadinanza e i relativi benefici.
Arrivò il giorno in cui Maria ebbe la brillantissima idea di portare in Italia, a Natale, in un piccolo paese del sud, il Pilota. Arrivarono il ventuno di dicembre, sarebbero dovuti ripartire il tre di gennaio. Voli Virgin express, compagnia low cost. Il piano fu rispettato solo da Maria, Il Pilota abbandonò l’Italia molto prima, a causa di una futile discussione con Maria. La discussione fu soltanto un pretesto. Il Pilota era ormai stufo di Maria, dei genitori di Maria, dei fratelli di Maria, e aggiungerei anche del paese di Maria. Respirava una brutta aria, l’aria di chi sa di non essere ben accetto. Così, dopo soli tre giorni di permanenza, aveva fatto le valigie ed era tornato a Bruxelles.

Dopo la parentesi italiana, il Pilota e Maria avevano deciso che per un periodo di tempo sarebbe stato meglio non vedersi, ognuno per la sua strada. Maria con il suo lavoro da manager, il Pilota con il suo lavoro da imprenditore. Nelle mattine invernali, vedevi arrivare il Pilota al Caffè Belga, dall’alto del suo metro e sessanta, con sé aveva sempre una penna e una piccola valigetta. Era un tipo schietto, uno che dava del tu a chiunque e a qualsiasi cosa, ordinava il suo caffè e ripartiva. Gli affari del Pilota, a sentire gli altri, andavano a gonfie vele. Addirittura in giro si diceva che con la sua impresa di pulizie, oltre ad aver conquistato Bruxelles, ora si accingeva a invadere la città di Namur. Il business si era allargato e con esso sia il numero degli introiti che il numero dei dipendenti. Ora l’azienda ne contava ventisette. La relazione con Maria continuava con i suoi alti e bassi, e il Pilota poco se ne curava, ormai aveva occhi solo per gli affari.
Come altre mattine, anche quella mattina il Pilota si preparava per andare a lavorare. Prese il solito caffè, salutò gli amici, comprò il giornale, il Globo, all’edicola più vicina e incominciò a sfogliarlo.
Arrivò vicino al pulmino bianco Fiat, accese il motore e ripartì per il suo consueto giro.
Doveva prelevare otto operai e portarli allo stabile di Namur. Il punto di incontro per i primi quattro operai era fissato a Gare du Midi, il Pilota arrivò con dieci minuti d’anticipo, così, per uccidere il tempo, riprese la lettura del Globo.
Dopo dodici minuti, arrivarono le prime operaie e il Pilota fece cenno alle donne di muoversi perché erano in ritardo. Mancava la ragazza del Belardo, che era influenzata. Il Pilota ripose via il Globo e riaccese il motore per prendere gli altri operai. Il secondo punto di incontro, quello per gli operai portoghesi, era alla stazione Centrale. Aprì la porta scorrevole del furgoncino e li fece entrare. Prima di ripartire si fermò a parlare con un amico.
Quella mattina, nel furgoncino bianco Fiat, erano in otto. Lui, più sei donne tutte irregolari e un ragazzo, anche lui clandestino. Namur-Bruxelles erano circa trenta chilometri, che il pilota percorreva in cinquanta minuti parlando con i suoi operai. Arrivarono alle 8.45, scesero dal bus e gli operai iniziarono subito a lavorare. Il Pilota si fermò a parlottare con l’amministratore, che gli propose altri stabili da pulire. I prezzi del Pilota erano più che concorrenziali, tanto il Pilota mica doveva pagare le tasse! La conversazione si concluse con una stretta di mano e due sorrisi smaglianti. Pensavano ai numerosi affari che avrebbero potuto realizzare. L’amministratore si mise alla guida della sua autovettura e ripartì per nuovi lidi, il Pilota salì sul furgone, accese lo stereo e prese da un cassetto la merenda preparata il giorno prima. Si sistemò in posizione comoda. Alle 9.45 arrivarono i poliziotti belgi, che misero in pausa forzata ogni lavoratore. Sequestrarono tutto, partirono dalle cose materiali e finirono con le emozioni.
Quella mattina, la polizia distrusse il sogno del Pilota.
Aveva cercato di fermarli, di capire se si potesse fare qualcosa, ma era proprio tutto perduto. Gli otto operai e il Pilota furono condotti in caserma.
E così finì la permanenza del Pilota in Belgio.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 21 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.