Il topo sarà piccolo, grigio e innocuo
di Alessandro Romeo

Il trasloco sarà lungo, lento e spossante; mentre il concerto sarà breve, spettacolare ed entusiasmante. Ne parlano tutti da settimane. È l’unico concerto che la band fa in Italia, e ora che ce ne sarà un altro passeranno degli anni e saranno ormai diventati un gruppo noioso e stanco. L’ultima volta che hanno suonato da noi è stato tre anni fa, in occasione dell’uscita del loro secondo disco. E così come ho aspettato tre anni perché facessero un nuovo disco, ho aspettato tre anni perché tornassero a suonare dal vivo.

Basta un’occhiata di mia mamma e capisco che l’appartamento è quello che fa per noi. È un bilocale al piano terra, restaurato di recente e arredato con mobili di legno da pochi soldi. Il proprietario è sulla settantina e nella chiacchierata che accompagna il breve giro delle stanze ci racconta che da quando sua moglie è morta, poco più di un anno fa, nell’appartamento non ci è più venuto nessuno.

Ci sarebbe molto da dire sul fatto che io, all’età di trentadue anni, mi trovi in questa strana situazione di cercare casa con mia mamma, e non per mia mamma, ma non ho voglia di spendere troppe parole. Del resto anche se si trattasse di una casa per mia mamma, vorrebbe comunque dire che qualcosa è andato storto, che il ristorante di sua proprietà in Belgio è fallito: cosa che, appunto, è successa sul serio, il mese scorso; è una cosa che capita di tanto in tanto a chi, a suo tempo, ha avuto il coraggio di prendersi un rischio, e non è così grave. Si sopravvive. Il fatto è che mentre lei sistemava gli arretrati dei dipendenti e vendeva il locale a un tizio di cui non so niente, anche io ho perso il mio lavoro. Fatto, pure questo, di per sé non tanto grave. Da quando avevo ventidue anni ho fatto solo il magazziniere, l’ho fatto per dieci anni saltando da un magazzino all’altro, cambiando cooperativa, colleghi e orari, e ora si tratta solo di mettersi di buona volontà e cercare un magazzino nuovo cui possano servire i miei bicipiti e la mia schiena grossa. Il fatto è che le due cose, cioè che entrambi perdessimo il lavoro, sono accadute in contemporanea e così ci siamo trovati in stazione ad abbracciarci senza tuttavia essere troppo tristi. Mia mamma ha detto qualcosa di banale come «è la vita», io ho fatto sì con la testa.

Nei giorni passati, dopo essere arrivata in città, è stata da me, nella mia mansarda di venti metri quadrati a farmi il bucato e a cucinare, sistemando le sue cose (poca roba: ha portato lo stretto necessario e il resto l’ha lasciato in Belgio da un’amica, tanto tra qualche mese tornerà lassù) dove c’era spazio. Io ho passato le mie giornate al computer o in giro a portare il curriculum. Ogni tanto il telefono suonava, ma erano tutte telefonate di parenti che volevano sapere di mia mamma e a cui non avevo voglia di rispondere. Poi un giorno abbiamo deciso di cercare casa insieme, qualcosa di un po’ più grande, da pagare in nero in modo da non essere vincolati. Qualcosa di provvisorio dove sistemarci mentre aspettiamo di capire cosa fare.

L’uscita del disco è stata anticipata da un paio di singoli. Canzoni abbastanza spiazzanti, rispetto a quelle cui ci avevano abituati. A dirla tutta mi aspettavo qualcosa di più teso, di più carico ed emotivo, sulla stessa lunghezza d’onda delle canzoni più belle del disco precedente. Invece mi sono trovato a ciondolare la testa e a guardare fuori dalla finestra con una punta di rammarico.

Il proprietario si chiama Oscar ed è più alto di me. Mia mamma, tenendo anche conto degli sbuffi di capelli ricci, gli arriva appena alle spalle.

In casa ci sono dei lavori da fare: vanno montate un paio di mensole sopra la scrivania, la doccia va sigillata con il silicone, dev’essere ridipinto un pezzo di parete annerito dal termosifone. Piccoli lavoretti, dice Oscar. Ci penserà lui. La casa non è mai stata utilizzata molto e nell’ultimo anno, ripete, non ci ha più messo piede. A suo tempo lui e sua moglie avevano pensato che una casa in città potesse fare comodo: come semplice appoggio in caso di necessità o come posto tranquillo dove dipingere (la moglie era una pittrice dilettante). In campagna le donne si annoiano, dice Oscar, e infatti la casa era diventata ben presto il rifugio della moglie. Aveva pensato lei all’arredamento e alla risoluzione dei piccoli problemi domestici.

«Quella scema ci ha messo lo stucco al posto del silicone» aggiunge, indicando la base della doccia.

Per sicurezza firmiamo una carta in duplice copia dove c’è scritto che noi ci impegniamo a pagare ogni mese la cifra stabilita, tramite bonifico, e che la cauzione di trecento euro verrà restituita una volta che ce ne andiamo. Il foglio non ha nessun valore legale, ma – qualunque cosa voglia dire – è sempre meglio essere previdenti. D’accordo con il padrone, possiamo dormire lì da subito e cominciare a traslocare.

Il primo giorno mia mamma si sveglia convinta che la casa sia infestata dai pidocchi. Li sente dappertutto ed è sicura che quelle tre macchie rosse che ha sul collo siano un segno evidente della loro presenza. Stando a quanto dice mia madre si tratterebbe di pidocchi del corpo, i più difficili da debellare. Per questo motivo, prima ancora di uscire a fare colazione, si lava il corpo e i vestiti con l’alcol etilico. Io nel frattempo vado nella mia mansarda, che dista appena venti minuti a piedi dalla casa nuova, e faccio il primo giro: con le mie braccia da magazziniere riesco a portare in una volta sola lo zaino da viaggio, due trolley e il borsone a tracolla, per un totale di cinquanta chili di roba.

Ho preso i biglietti con due mesi di anticipo, lo stesso giorno che mia mamma mi ha telefonato per dirmi che avrebbe venduto il ristorante. È stata la prima cosa che ho fatto dopo aver riattaccato il telefono. Mi sono seduto di fronte al computer, sono andato su ticketone.com e ho ricopiato i dati del mio bancomat. Siccome quando faccio le cose cerco di essere il più previdente possibile ho comprato il biglietto stampabile a casa, in modo da evitare le code all’ingresso: il concerto, quel tipo di concerto, niente storie, va visto da sotto il palco.

Oscar arriva con due cassette per gli attrezzi, indossando un gilet mimetico da cacciatore. Mentre beve il caffè (la moka, il caffè e lo zucchero sono le prime cose che ho portato nella casa nuova) ci racconta della sua passione per la caccia. In campagna, dove vive, la sede dell’Associazione Cacciatori è a cento metri da casa. Quest’anno gli tocca pure fare il presidente.

Imbraccio il trapano e faccio un buco troppo grosso sul muro.

«Bella merda» dice Oscar e mi strappa il trapano di mano. Mia mamma se la ride.

«Questa roba andrà stuccata per bene. Sei laureato?»

«No.»

«E allora com’è che non sai fare niente?»

In effetti con il trapano se la cava bene. Fa dei buchi perfetti e inclina leggermente la punta del trapano verso il basso per ottenere dei fori inclinati: con questa accortezza le viti reggono meglio il peso.

Quella stessa sera, fumando una sigaretta davanti alla portafinestra aperta, io e mia mamma scopriamo che il piccolo spiazzo di cemento fuori di casa, dopo una certa ora si riempie di scarafaggi. Io ne conto diciotto, mia mamma ventitré.

«Quelle sono foglie» dico.

«Sono scarafaggi.»

«Foglie!»

«Schifo, schifo! Brrrr…»

«Dobbiamo dirlo a Oscar.»

«Lascialo stare, povero.»

«Non voglio vivere in una casa infestata di insetti!»

«Lascialo stare. Sarebbe come dire che la casa è sporca.»

«Cosa c’entra?»

«C’entra. Lascialo stare. Brrrr…»

Il terzo giorno il trasloco è quasi finito. Oscar ci raggiunge nel momento esatto in cui sto staccando delle tende orribili per lavarle e restituirgliele. Appena vede quello che sto facendo mi dice di stare attento a lavare quel tessuto. È tessuto buono.

«Ma se sembra una tovaglia da picnic» dico. «Ci sono anche le arance e i limoni…»

«Mia moglie si era fatta un vestito con quel tessuto lì. Guarda qui.» E mi allunga una foto piegata in due parti. Nella foto c’è lui dieci anni più giovane e con il pizzetto, seduto per terra con la testa appoggiata sul bordo del letto e un berretto da cacciatore ben calcato sulla fronte. Sul letto c’è sua moglie, distesa, con la testa a fianco a quella di Oscar ma al contrario, che penzola dal bordo del letto. Sorridono entrambi e sorrido anch’io, non per quella forma ipocrita di tenerezza che di solito ci prende quando guardiamo una vecchia foto, ma per un motivo preciso: così com’è, fasciata nello stesso tessuto delle tende e a testa in giù, sembra un vampiro. La cosa mi fa ridere. Non mi sarei mai aspettato che Oscar tenesse nel portafoglio una foto così sbarazzina.

«È un bel tessuto, resistente. Dammi qua le tende, che me le porto via.»

«Prima le lavo.»

«Non dire stronzate, dammi quelle tende.»

Prima di infilarsi in bagno saluta mia mamma (dice: «ciao, signora») e afferra il tubo di silicone e un martello. Se ne sta inginocchiato dentro la doccia con le scarpe e utilizza il martello, posizionandolo tra il retro del tubo e la sua pancia, per far uscire il silicone. Respira affannosamente con la lingua stretta tra le labbra arricciate e il silicone esce poco per volta.

Pare che la prima data del tour sia stata nientemeno che al Madison Square Garden. Per la serata c’è stata una diretta internet dal canale youtube della band. Alla regia c’era Terry Gilliam, quello dei Monty Python, e dai pochi video che sono stati caricati si capisce che dev’essere stata una serata esaltante. I due membri fondatori della band sono marito e moglie. Si sono sposati giovani, nel 2003, e con loro suona anche il cugino o il fratello di lui, ora non ricordo di preciso. Dev’essere strano, penso, portare la propria famiglia su un palco. Io avrei paura che qualcuno prendesse in giro mia moglie, che le urlasse dietro qualcosa di brutto o che le lanciasse una bottiglia, un sasso o della terra.

L’addio alla mia mansarda è un po’ doloroso e la cosa mi coglie impreparato. Così resto qualche minuto a percorrere con lo sguardo il perimetro della stanza con lo zaino pesante sulle spalle e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Questo è l’ultimo carico. Nel pomeriggio finisco di sistemare tutta la roba negli armadi e sugli scaffali, e domani parto per Bologna. L’inizio del concerto è previsto per le nove di sera ma in realtà è il lungo finale di un festival che comincia nel primo pomeriggio. Vuol dire che prenderò un treno all’alba e mi farò un giro per Bologna. Perché è bello, respiro aria nuova, e mi piace fare le cose con calma.

Quando arrivo a casa trovo Oscar alle prese col citofono che non funziona e mia mamma che rigira nella pentola un pezzo enorme di vitello.

«Ha fatto tutto lui. Non gli ho detto niente» dice mia mamma.

«Non capisco.»

«Dice che ha visto delle cacche di topo nello spiazzo. Stanotte si ferma qui per vedere se riesce a farlo fuori.»

«Gli hai parlato degli scarafaggi?»

«No. Cioè sì, dopo che lui ha tirato fuori quest’idea del topo, ma tanto lo sapeva già.»

«Dorme qui?»

«Non credo che dormirà. Credo che starà di guardia.»

«Non ha di meglio da fare?»

Comincio a non sopportare la presenza di Oscar. Appena vede che mi siedo e guardo nel vuoto mi chiede che cosa sto facendo. Niente. Non sto facendo niente, e allora? Non ho l’ansia di riempire il tempo come lui. Con sempre maggiore frequenza, ogni volta che Oscar apre bocca mia madre mi guarda come per scusarsi di qualcosa. Non so cosa le passi per la testa: la situazione mi sembra chiara. È il padrone di casa ed è giusto che voglia darcela in buone condizioni, in fondo abbiamo pagato una casa arredata e funzionante. E poi, per l’idea che ci si può fare di una persona in così poco tempo, mi sembra uno che ama fare le cose con cura, attenzione e calma. Tuttavia, ora che ho deciso di continuare a non fare niente, evito di rientrare nel suo raggio visivo e mi sposto in camera. Ispeziono rapidamente lo spiazzo in cemento, ma non vedo nulla che possa ricordare delle cacche di topo.

Dal letto su cui sono sdraiato insieme a mia mamma, sento Oscar ansimare. Ogni tanto gli cadono gli attrezzi. Visto che mia mamma non dorme provo a farmi spiegare meglio la storia del topo.

«Gli stavo raccontando del concerto che vai a vedere domani» dice mia mamma, sottovoce. «E subito dopo si è fissato con questo topo.»

«Ma tu le cacche le hai viste?»

«Figurati se mi metto a guardare le merde di topo. Ti ho detto: ha fatto tutto lui.»

«E quella scatola cos’è?»

«L’ha tirata fuori da sotto il letto per portarsela via. Dentro non c’è niente, a parte la parrucca di sua moglie. Capelli veri. Forse ha paura che il topo entri in casa e gliela mangi. Non lo so, però non è male.»

«Cosa?»

«Che pensi a tutto lui.»

Mezz’ora dopo, tanto per fare lo scemo, aziono il trapano a vuoto, senza fare buchi. Lo lascio andare così, tenendolo sospeso davanti a me. Oscar piomba in stanza per vedere cosa sta succedendo e quando incontra la mia faccia divertita sembra deluso.

«Coglione» dice.

A metà pomeriggio ho sistemato tutti i vestiti negli armadi e i libri sulle mensole. In un angolo della scrivania ho accatastato gli oggetti che per ora non so dove mettere. Dovrò comprare qualche scatola e buttarceli dentro. Ora il citofono funziona. Oscar ha portato con sé delle tende nuove, bianche, per andare sul sicuro. Insieme le abbiamo infilate nell’asta in metallo e abbiamo fissato l’asta con un paio di viti nuove, più grosse. Il silicone nella doccia si è asciugato. Mentre lui si riposa facendo due chiacchiere con mia mamma, io passo la scopa e lo straccio per tutto l’appartamento. Poi usciamo insieme a prendere una bottiglia di rosso nel supermercato più vicino per la cena.

Ceniamo abbastanza in fretta. Per la prima volta sento mia mamma raccontare qualche dettaglio a proposito del ristorante. Pare che i guai siano iniziati per via di un paio di cose fuori norma nelle cucine. Poi la multa da pagare, frigoriferi e cappa aspirante da sostituire, la bassa stagione, e come se non bastasse un «punto pizza» (è lei a chiamarlo così) dall’altra parte della strada ad attirare frotte di turisti. Io racconto del mio lavoro da magazziniere, ripeto quello che ho già detto, che per dieci anni ho caricato e scaricato roba più o meno pesante, e che non avrò problemi a trovare qualcos’altro, giusto il tempo di guardarmi intorno e di mandare un’altra manciata di curriculum.

«Cos’è questa storia del concerto?» chiede a un certo punto Oscar.

Io guardo mia mamma nella speranza che intervenga. Sa bene quanto mi stia a cuore la cosa (lo sa meglio di me, in realtà) ed è facile immaginare cosa stia per dire Oscar.

«Lo aspetto da tanto» dico.

«È domani?»

«Sì, parto stanotte.»

«E tua madre?»

Mia mamma si mette a ridere.

«Niente. Dormirà da sola per una notte.»

«Da sola col topo.»

«Ci sei tu, per il topo.»

«È da vedere se ce n’è uno solo.»

«È solo una sera, poi torno. Al topo ci penso io, eventualmente.»

«Non dovresti lasciare sola tua madre in una casa nuova, con uno sconosciuto e un topo. Io sono uno sconosciuto, fino a prova contraria. Dovresti stare con lei.»

«Be’, ci sto andando a vivere assieme.»

«Sì, be’, è vero anche questo. Però non approvo. E poi io avrei bisogno di una mano. Che concerto è?»

«Un gruppo canadese, non li conosci.»

«Pensi che mi piacerebbero?»

Mia mamma va a letto presto. Mentre faccio i piatti vedo che Oscar si sistema nello spiazzo di cemento appena fuori dalla portafinestra. Semina della roba intorno alla sua sedia e negli angoli, e si siede. Indossa la giacchetta da cacciatore per la stagione invernale e nella fondina del fucile ha infilato una bombola di veleno per scarafaggi. Tiene in mano un bastone lungo un metro e mezzo, con un’estremità in acciaio a forma di spatola o di lama, a seconda dell’uso che se ne potrebbe fare. Preparo lo zaino cercando di fare meno rumore possibile. Poca roba, una maglietta di ricambio, una bottiglia d’acqua e dei biscotti. Preparo anche la giacca, con il portafogli, il biglietto e il cellulare carico nelle tasche giuste, distribuendone per bene il peso, e prima di infilarmi sotto le coperte faccio un cenno a Oscar, che chiude gli occhi in segno di saluto.

Quando mi alzo, quattro ore dopo, lo trovo nella stessa identica posizione, sveglio ma leggermente sprofondato nella sedia. Durante la notte si è messo il cappello da cacciatore sulla testa.

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