Metà del mondo se l’è dimenticato, ma la verità è che noi e gli insetti siamo legati in modo indissolubile. Soprattutto per quanto riguarda il lato alimentare. Per migliaia di anni li abbiamo mangiati.
Metà del mondo se l’è dimenticato, ma la verità è che noi e gli insetti siamo legati in modo indissolubile. Soprattutto per quanto riguarda il lato alimentare. Per migliaia di anni li abbiamo mangiati. Non ci siamo fermati alla superficialità dell’ingoio, li abbiamo anche trovati gustosi, nutrienti, in qualche modo sani, dolci. Non sapevamo ancora parlare se non a gesti e a grugniti, ci accoppiavamo senza provare nessun tipo di piacere, il concetto stesso di piacere era una cosa nebbiosa e fluida che arrancava tra un fuoco che scoppietta all’improvviso e una stagione buona, piena di sole, che già avevamo ricacciato il carattere schizzinoso dell’uomo di oggi dietro all’inevitabilità della sopravvivenza.
Io ci faccio caso perché l’ho imparato, ma è provato e riprovato che la carne che oggi troviamo più dolce, più succulenta, proviene da quegli animali che si cibano di insetti. Lo ripeto perché lo teniate a mente e non ve lo dimentichiate: l’insetto è dolce.
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Le zucchine sono ancora crude. E dire che sono sul fuoco da un quarto d’ora e secondo me il fatto che debbano perdere acqua assomiglia a una leggenda inventata da una casalinga annoiata in cerca di successi culinari. Le guardo rosolare insieme alla cipolla che ormai è diventata completamente nera, ma mi continuo a ripetere «ben colorata» semplicemente per il fatto che quello che sto cucinando lo devo mangiare io e nessun altro.
Può sembrare stupido ma ho iniziato a cucinare dopo aver letto qualche libro di Murakami Haruki. A volte le trame non mi convincevano e ho sempre avuto qualcosa da ridire sulla rigidità di certi passaggi o sulla testardaggine dei protagonisti, ma una cosa bisogna dirla: quando i personaggi dei suoi romanzi si mettono a cucinare, l’ordine giapponese del cibo, pietanze con nomi strani che diventano in un colpo solo facili da preparare e anche buone, il silenzio di una piccola cucina affacciata su una luminosa strada di Tokyo, sono raccontati in un modo che riesce a fare ordine anche dentro di me, teorizzano le ansie, le decodificano, le categorizzano. Quando Murakami cucina mi mette dentro una tranquillità e una serenità difficile da descrivere.
Farlo col cibo italiano è simile, ma meno soddisfacente: nulla di nuovo nei sapori (il massimo che puoi fare è tendere al gusto del pranzo che ti faceva tua nonna, non di più), ed è per questo che al ristorante giapponese sotto casa prendi uguale tutte le volte la mini insalata di alghe che costa tre euro e ti fa schifo: solo per avere in bocca un sapore nuovo, che non riesci a decifrare.
L’ultima volta che sono stato invitato a cena sono stato anche costretto a cucinare. Lo accetto di buon grado, anche se so benissimo che non è perché sia più bravo degli altri (il mio piatto forte è e rimarrà per sempre gli spaghetti aglio olio e peperoncino), è che credono di rendermi contento facendomi sentire in qualche modo più attento di loro a certe cose. Ho appoggiato le due bottiglie di vino economico ma gradevole, che ho comprato al supermercato giusto cinque minuti prima che chiudesse, sopra il tavolo di fòrmica di casa di Giulia e sono andato a lavarmi le mani. Fare la spesa la sera tardi, di fretta, mi piace, mi fa sentire metropolitano, pieno di impegni inderogabili, anche se il più delle volte il pomeriggio ho bighellonato come un deficiente tra internet, libri di cucina e il cellulare.
Mi sono messo a cucinare alla fine, e come al solito è andato tutto liscio.
Mentre mangiavano tutti di gusto, ho tirato fuori la storia degli insetti.
Marco, Giulia e Claudia mi hanno guardato storto, Filippo ha fatto finta di non sentire e solo Stefano, mi pare, si è mostrato leggermente interessato alla storia.
Ora, parliamo chiaramente. Gli insetti hanno un sapore dolce perché l’ho sentito dire e perché ci voglio credere, ma comunque non ne assaggerei mai uno di mia spontanea volontà.
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Domenica mattina il telefono squilla che sono ancora a letto. Di solito non mi disturba, non sono uno che si lascia svegliare di soprassalto, è tipo una virtù, secondo me, il fatto di mantenere il controllo in ogni situazione.
In camera è buio, quindi rispondo senza riuscire a vedere chi sta chiamando.
«Pronto.»
«Dormivi» esordisce lui con un tono abbastanza duro, col tono che userebbe tua madre o il tuo datore di lavoro che stai facendo aspettare in ufficio.
Mi metto sulla difensiva, ma ho la netta sensazione che sarebbe meglio troncare subito la conversazione.
«No no macché, mi sono appena alzato. Ciao Stefano, dimmi.»
«Mi hai mentito.»
«Scusami?» faccio io ormai completamente sveglio.
«Sì, su quella storia degli insetti.»
«Cioè?»
«Non sono dolci come dicevi.»
«E che ne sai? Non ne avrai mica assaggiato uno?»
Ma Stefano ormai non risponde più. Attacco il telefono cercando di vestirmi e di darmi una raddrizzata più in fretta possibile e, durante il caffè che bolle, l’acqua del lavandino che scorre, un’ingrata erezione mattutina che mi preme dalle mutande sul pigiama, chiamo Giulia per avvertirla che il suo fidanzato è impazzito, ma invano: il suo cellulare, testuali parole, potrebbe essere spento o irraggiungibile. Alla fine, con l’ansia che mi monta dentro lenta ma inesorabile come la preparazione di un’anatra alla pechinese (ci vogliono due giorni, e il risultato di solito è insoddisfacente), mi butto nella selva delle strade con la luce del sole che ancora mi irrita gli occhi a prendere degli autobus che mi porteranno dall’altra parte della città.
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Per fortuna becco subito Giulia fuori dal portone del palazzo dove Stefano abita.
«Ciao Andrea!» mi fa sorridendo. «Ho visto che hai chiamato.»
«Sì, ciao Giulia. Volevo sapere che fine ha fatto Stefano.»
«Lo sto andando a prendere. Stamattina abbiamo un Brunch.»
Io adoro il Brunch. Specialmente la domenica, secondo me sarebbe il pasto perfetto per pranzi e cene noiose, merende in piedi, colazioni dolci, colazioni salate, colazioni americane inglesi italiane della mulino bianco o coi cereali del discount.
Il Brunch è il pasto perfetto.
Sbigottito le chiedo: «Da quand’è che andate ai Brunch senza di me?»
«Mannò» fa Giulia, «è una cosa tra noi, abbiamo scoperto questo posto solo da un paio di settimane».
Mi tranquillizzo e chiedo: «Saliamo a salutarlo?»
Per tutta risposta Giulia si volta e attraversiamo il portone del condominio, poi il cortile interno, poi la scala B e infine il quinto piano. Io arrivo davanti alla porta dell’appartamento di Stefano col fiatone, Giulia no.
Mentre lei prima suona il campanello, poi bussa, poi all’assenza di risposte inizia a cercare le chiavi di casa, io ancora respirando affannosamente inizio a toccarmi la pancia, e penso che devo essere ingrassato almeno almeno cinque chili dall’ultima volta che mi sono pesato, cosa che deve essere successa intorno ai quindici anni, mi pare.
Per fortuna Giulia trova le chiavi e mi salva da questa cosa del dover saggiare la mollezza del mio fisico, ma si blocca un attimo prima di aprire perché entrambi sentiamo un rumore di passi veloci proveniente dalle scale.
Dalla voce lo riconosco subito, è l’unico maschio eterosessuale ad avere un tono di voce così alto. È Filippo, che ancora prima di alzare lo sguardo e vederci fa: «Pronti per il Brunch?»
Giulia sbianca e cerca in tutti i modi di non guardarmi, il sorriso di Filippo che deve aver avuto mentre saliva le scale scompare all’istante dalla sua spigolosa faccia del cazzo e senza che io avverta il minimo segno di affaticamento si ferma davanti a noi. Giulia si è cristallizzata sulla porta, con la chiave mezza dentro.
«Ah, ciao Andrea» fa Filippo abbozzando un sorriso.
«Ciao» faccio io, cercando nella mia testa l’espressione più falsa che riesca a fare. La trovo, i muscoli della faccia si muovono e si contraggono, gli occhi si aprono di colpo.
Filippo capisce, ma allo scatto della serratura mossa dalle chiavi di Giulia entrambi ci voltiamo per entrare nell’appartamento.
***
Troviamo Stefano seduto al tavolo della cucina. Assolutamente composto, quasi rigido, con i palmi della mani appoggiati sulle cosce. Ha gli occhi aperti e guarda dritto davanti a sé. Non mi pare che si sia accorto di noi.
Giulia corre verso di lui, gli mette una mano sulla spalla e dice: «Ste’, che c’hai?»
Lui non risponde, nemmeno quando lei si mette ad accarezzargli i lunghi capelli biondi, spostandoglieli dietro l’orecchio. Anche Filippo si avvicina e si siede dall’altra parte del tavolo, proprio di fronte a Stefano e cerca di guardarlo negli occhi, assumendo la stessa posizione. Ma lo sguardo di Stefano sembra oltrepassare l’esigua corporalità di Filippo, sembra letteralmente attraversarlo.
Poi con la sua voce stridula Filippo dice: «Oh! Amico mio! Tutt’apposto?»
Lo dice con un tono forzatamente preoccupato, che se si stesse rivolgendo a me farei abbattere su di lui tutta una vita di ingiustizie e battute subdole mandate giù ed ingoiate come insetti, senza masticare ma solo percependo esattamente il movimento delle zampette di una blatta sopra la lingua, con le lunghe antenne che mi sfiorano il palato provocando una sensazione di solletico interno, non piacevole ma nemmeno spiacevole. Cazzate deglutite rifugiandomi nell’incosciente speranza corrosiva dei miei succhi gastrici, che sappiano riconoscere almeno loro il nutrimento e dividerlo dallo schifo, visto che io non ne sono capace. Non sono bocconi amari questi. Se uno avesse il coraggio di porre fine alla vita dell’insetto nel buio del cavo orale, serrando le mascelle, avvalendosi della forza esplosiva dei molari, il sapore delle cose sarebbe diverso. Se uno potesse impastare con la lingua quella carne e quei succhi con un sapore allucinante sconosciuto in qualche modo riservato a pochi quindi mistico, al limite dell’esoterico, la consapevolezza del cibo, del gusto, cambierebbe definitivamente.
Guardo Stefano, mi avvicino anch’io. Con tranquillità gli metto una mano sopra la coscia e in modo chiaro e dolce gli dico: «Ingoia, amico mio. Ingoia».
Lui si gira, mi guarda con gli occhi spaventati. Io annuisco con la testa, tra lo sbigottimento di Giulia e Filippo. Stefano serra gli occhi e il suo viso assume l’espressione di uno stitico sulla tazza del cesso, riconoscendo la durezza, l’inevitabilità e l’inutilità di quello sforzo. Il pomo d’adamo di Stefano va su e giù, si sente il classico rumore di qualcosa che ormai è sceso per l’esofago.
Il citofono squilla, devono essere gli altri credo, staranno facendo tutti ritardo a causa mia. Ora Stefano si è rilassato, la sua postura è meno rigida e sta iniziando a sudare, ma penso che sia solo a causa del lungo incordare i muscoli. Sembra molto stanco.
Stefano e Giulia scompaiono in bagno, Filippo nemmeno mi guarda. Decido di salutarlo con una pacca sulle spalle, non me ne frega più un cazzo delle loro uscite la domenica mattina. Me ne esco dall’appartamento e decido di tornare a casa a piedi. Nel tragitto mi fermo a mangiare in una trattoria, che ormai s’è fatta ora di pranzo e di iscrivermi a un corso di aerobica.