Il rumore dell’acqua, del ferro nel fieno e del giunco che stringe

Autore: Giovanni Carta
Casa editrice: Fandango
Pagine: 206

A Roma le vecchie fumano.
Così ci sta scritto in una cartolina spedita dal figlio emigrato in Continente alla sua famiglia in Sardegna. A Roma le vecchie fumano. Punto. Nient’altro. Subbuglio in casa. Cosa avrà voluto dire? Le interpretazioni e gli allarmismi si sprecano, ma l’ipotesi che appare alla famiglia più plausibile è che il figlio stia avendo una storia con una donna più grande di lui e abbia perso la testa. È stato traviato. Ha perso il senno e la causa è stata una donna. Il padre compra immediatamente un biglietto del treno e parte destinazione capitale per capire cosa c’è dietro.
Questo è il primo episodio de Il rumore dell’acqua, del ferro nel fieno e del giunco che stringe, libro d’esordio di Giovanni Carta inserito nella collana della Fandango “I quindici”. Ultimamente, in Italia (mi viene da pensare al convincente Caterina sulla soglia di Susanna Bissoli) si sta sviluppando una forma di ibrido, difficilmente catalogabile, che sta a metà fra una raccolta di racconti e un romanzo a episodi. In realtà il libro di Carta (come quello della Bissoli) viene presentato come una raccolta di racconti, eppure personalmente trovo che si faccia un torto all’opera in questione, perché ogni episodio narrato appartiene ed è riconducibile allo stesso ambiente degli altri, qualcosa in più di una semplice cornice, e i vari protagonisti sono tutte persone che fanno parte o che hanno a che fare con la stessa famiglia. È come se ogni singolo racconto, ogni singolo fiore, partecipi attivamente alla composizione finale di una ghirlanda. Se il primo è la descrizione dell’incredulità di una famiglia di un piccolo paese sardo di fronte a un messaggio alquanto sibillino, il secondo è una lettera commossa e assai più rivelatrice, scritta dalla fidanzata del figlio e inviata a quest’ultimo.
Questo per quanto riguarda i primi due episodi: il meglio del libro, dato che per il resto i racconti appaiono confusi, scollati, disarmonici. Se l’inizio de Il rumore dell’acqua, del ferro nel fieno e del giunco che stringe si rivela di grande effetto, originale e frizzante, lo stesso non accade nelle pagine successive, che invece di completare il disegno dell’opera lo pasticciano, rendendo al lettore confusa la comprensione e le reali intenzioni dell’autore.
Un aspetto, quello della comprensione, che non viene agevolato dall’uso massiccio di intere frasi in sardo. Se da una parte l’introduzione di lemmi appartenenti al dialetto sardo – e su questo a Carta va riconosciuto il coraggio di una scelta di non facile impatto – arricchisce la scrittura, è vero altresì che la rallenta, malgrado una sintassi davvero ben curata. Il risultato è che per lunghi tratti ci si trova spaesati. L’impressione finale è quella di un’occasione persa, ed è un peccato perché Il rumore dell’acqua, del ferro nel fieno e del giunco che stringe non solo possiede una partenza originalissima, ma anche una scrittura di talento, che per buona parte del libro, però, s’intravede solo in filigrana.
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