La persona nell’angolo
di Leonardo Malaguti

1. Il lato francese
Negli anni ho raccolto centinaia di bomboniere.
Matrimoni di amici, parenti, clienti, una volta perfino il matrimonio di un tale che non conoscevo che aveva sbagliato a spedire l’invito. Sono andato lo stesso, non se n’è accorto nessuno. Ogni cerimonia un ninnolo: ci riempio la credenza in salotto, i confetti li sgranocchio davanti alla televisione.
Non sono una di quelle anime tristi che fanno di tutto per sottrarsi alle cerimonie, no, sono di quelle anime tristi che accettano di partecipare per il gusto di rimanere seduti in disparte a osservare gli altri che ballano, le risate alcoliche, le mani, i fianchi che si toccano attraverso strati leggeri di abiti a nolo. Saluto la sposa, inclino il capo in cenni aggraziati e tutti sanno che non mi alzerò in piedi, che non accetterò il prossimo lento, dunque mi lasciano in pace, perché è giusto così, è il nostro accordo.
È un modo come un altro di passare il tempo.

Jacques mi ha telefonato da Brest che era tardo dicembre e la notizia delle sue nozze si è fatta largo a fatica tra un cenone di capodanno e i botti nel parco: come? Scusa, c’è rumore! Ah, ecco, sì – congratulazioni! Perdonami, ora… sì, sì, ci risentiamo.
Dieci minuti dopo mi ero già dimenticato.
L’invito è arrivato a febbraio, sigillato in una busta bianca. Era un rettangolo di carta spessa, ruvida, le lettere cinte da una cornice dorata di gusto squisito. Il lato francese della famiglia. Non ho letto nemmeno quel che c’era scritto (suppongo fossero le stesse quattro righe cordiali di tutti gli inviti nuziali del mondo), ho gettato il rettangolo nel cestino e sono andato a versarmi un dito di cognac.
Non avevo nessuna intenzione di andare.
Ho buttato giù il liquore in un sorso. Senza rendermene conto avevo covato per quasi due mesi una terribile angoscia nell’attesa di quel momento. Il cugino Jacques, che avevo visto crescere festa comandata dopo festa comandata, si univa per la vita a Christine, compagna di università, ginnasta olimpionica, donna dallo straordinario sorriso. Ero sinceramente felice per lui, ma davvero non sarei andato. Basterà accampare una scusa, borbottavo, spedire il regalo per posta e tanti saluti, nessuno sentirà la mia mancanza.
Peccato giusto per la bomboniera.

Avevo la tachicardia. Jacques non sapeva dell’incidente e come lui nessuno del lato francese. Del lato italiano rimangono solo mia sorella e un prozio centenario: il prozio è sordo e quasi del tutto cieco, mia sorella è quella che mi ha estratto dalle lamiere.
Altro sorso di cognac. Ai miei amici, quelli che hanno chiesto, non ho esitato a dirlo: mi sono schiantato contro un platano con la decappottabile e la carrozzeria mi ha tranciato la carne trasversalmente dall’anca destra al ginocchio sinistro. C’è una grossa cicatrice, e del mio sesso rimane un moncone alto mezzo pollice. Non me ne vergogno, anzi: provo un morboso piacere nel raccontare i dettagli più scabrosi della disgrazia e osservare i volti che si contraggono provando a nascondere l’orrore. Chi ascolta, per quanta pena possa provare per me, per quanto desideri mostrarsi empatico, non può fare a meno di immaginarsi al mio posto e il dolore diventa quasi più suo che mio.
Ma Jacques e sua madre, suo zio e gli altri cugini, non lo dovevano sapere, non il giorno del matrimonio: non sarei andato a fare il fenomeno da baraccone. Se avessero scoperto come sto, la gente sarebbe venuta a cercarmi per parlare, per dispiacersi, per dirmi che va tutto bene, che la vita continua, che mi pensano, che sono un’anima bella. Mi avrebbero usato per sentirsi brave persone e per niente al mondo glielo avrei permesso.
Ai matrimoni vado per stare in disparte, non mi avrebbero privato anche di questo ultimo intimo piacere.
Peccato giusto per la bomboniera.

2. Il lato italiano
È stata mia sorella a convincermi.
Devi accompagnarmi a tutti i costi, ha implorato, non puoi lasciarmi andare da sola. Chi vuoi che si accorga della tua situazione – così la chiamava, le aveva appioppato quel nome in ospedale quando avevo ripreso conoscenza e non aveva più smesso di usarlo. Mica devi spogliarti davanti a tutti, ha continuato, al che io le ho risposto che tutto comincia sempre quando mi chiedono come mai zoppico – di’ che hai preso una storta! e ha tagliato corto cacciandosi a ridere. Mi ha tormentato per settimane finché per esasperazione non sono stato costretto a cedere. Le ho detto però che se qualcuno fosse venuto a conoscenza della situazione l’avrei ritenuta responsabile e sarebbe toccato a lei cavarmi dall’impiccio.
Certo, fratello, certo.
La verità è che desiderava così disperatamente andare perché al matrimonio ci sarebbe stato anche Michel, un altro cugino, di grado molto più remoto, per il quale Sara ha una feroce infatuazione dai tempi del liceo. Michel, più grande di lei di quasi dieci anni, è sposato con tre figli e non sembrava mai aver colto la passione di Sara per la sua mascella quadrata.

Ci hanno sistemato in un quattro stelle di catena non lontano dal porto, due stanze comunicanti perfettamente identiche, pulite e un po’ anonime, ciascuna con un letto da una piazza e mezzo. In entrambe le stanze era appeso, perpendicolare al cuscino, un grosso specchio rotondo che si apriva come un pozzo d’argento sulla parete blu.
Appena arrivati, neanche il tempo di appoggiare le valigie, Sara ha preso ed è uscita: era stata irrequieta tutto il viaggio e così ha deciso di fare una passeggiata al molo per scaricare la tensione. Io ho optato per una lunga doccia. Ho aperto l’acqua, mi sono seduto sul letto, e ho aspettato accanto al monticchio di vestiti che dal bagno uscisse vapore. Cosa pensa di trovare di corroborante nel suo giro, pensavo, Brest è una città sgraziata, industriale. O forse sono io che non ne capisco il fascino. Oltretutto piove.
Ho raccolto i vestiti, li ho appoggiati allo schienale della sedia e sono entrato in doccia lasciando che l’acqua bollente mi scottasse la pelle.
Sposarsi a Brest ad aprile – i pensieri sfumavano lenti tra i fiotti –, che scelta triste. Immaginavo la cattedrale grigia, il freddo, le macchie di umido sullo strascico della sposa. In fondo aveva una sua inafferrabile poetica. Jacques è sempre stato un ragazzo vitale, forte, bello – ma di quella bellezza che, col subentrare dell’età adulta, degli obblighi, delle unioni eterne, rimane addosso come guscio vuoto. Forse sposarsi a Brest ad aprile, sotto la pioggia, più che una scelta era vocazione.
Il bagnoschiuma è uscito dal foro del barattolo con un rumore osceno, e mentre lo spargevo sulla spugna è sgusciato tra le dita formando coaguli perlati. Uno di questi si è insinuato tra le nocche ed è scivolato lungo il palmo il tempo di procurarmi un brivido, per poi gocciare sulle piastrelle e incastrarsi con un gorgoglio nelle maglie dello scarico. Ho strofinato la pelle con decisione.

Michel, invece. Michel è altrettanto bello, e il suo fascino ha resistito all’età adulta, agli obblighi, all’unione eterna: solleva da terra i suoi figli e li lancia in aria con entusiasmo. Con le mani salde li afferra alla fine del volo per appoggiarli al suolo e ridendo gli si crea una fossetta all’angolo della bocca che, da quando ha superato i quaranta, va a infrangersi in una ragnatela fragilissima di piccoli solchi.
Poi lascia andare i bambini e si gira per dare un bacio leggero alla moglie: mentre le loro labbra si toccano – una frazione di secondo soltanto – è come se la notte, quando la prenderà per i fianchi come piace a entrambi, fosse già lì, in nuce.
Capivo perché Sara ne fosse attratta. Ho lasciato cadere la spugna e iniziato a spargere la schiuma con le mani. L’acqua ormai non bruciava più.
E se non fosse uscita per una passeggiata? La domanda era salita dal profondo come una bolla solitaria ed era esplosa tutt’un tratto increspando la superficie quieta. Spalmavo il bagnoschiuma sul torace con movimenti circolari sempre più simili a un massaggio.
Io credevo che lui…
Ho lavato con attenzione il solco della cicatrice ed ero pronto a scendere alle cosce, ma con le dita ho indugiato sui lembi. Lì la pelle è più liscia, bombata come il lobo di un orecchio, e il moncherino del mio sesso sgusciava poco più in basso tra sbuffi di sapone. Accarezzavo senza guardare, seguendo con la falange la linea frastagliata, immaginavo un incontro clandestino di cui era stata celata l’esistenza persino a me, la persona a cui Sara ha sempre confidato ogni cosa.
Ho alzato il volto verso il soffione della doccia ed eccomi sotto la pioggia battente assieme ai due amanti, in un vicolo nascosto dietro al porto.

3. La Sfinge
Sara è scomparsa in mezzo alla folla di invitati ubriachi intenti a ballare hit francesi anni ’80, lasciandomi solo con il dentista di Jacques, logorroico fanatico della pesca sportiva. Mi aveva subito chiesto qualcosa a proposito del perché zoppicassi, ma senza attendere la risposta aveva poi preso a parlare della carpa da diciotto chili che… e mia sorella, sentendosi dunque libera dal vincolo di districarmi da eventuali domande sulla situazione, ne ha approfittato per sgattaiolare via. La sala era stipata e semibuia: l’ho data subito per dispersa. Fingendo di ascoltare l’odontotecnico-pescatore, ho cercato con lo sguardo una sedia appartata verso la quale scappare.
È lì che l’ho vista.

Se ne stava nel suo angolo, sotto una lampadina pendente, in mezzo a spicchi arancioni di luce. Nonostante fosse seduta nella periferia della stanza, lontana dai tavoli col buffet e dalla pista da ballo, era il centro gravitazionale di tutta la sala. Ne era cosciente, ma proprio per questo rimaneva lì, in disparte, con un accenno di sorriso. Non aveva necessità di fare mostra di sé, e questo rendeva la sua presenza completamente irresistibile.
Ho interrotto bruscamente il soliloquio del dentista.
Mi sa dire chi è la persona che siede là?
Quello, che inizialmente sembrava essersela presa, quando ha capito a chi mi riferivo ha ghignato malizioso e ha sussurrato:
Quella persona, ecco – la chiamano Sfinge.
Sfinge.
Nessuno sa chi sia e nessuno ha il coraggio di domandare. È un enigma.
Nel suo volto c’era davvero qualcosa di antico e indecifrabile. Mi sono accorto solo in quel momento che la sua testa era completamente calva e priva di sopracciglia. La luce attraversava la blusa semitrasparente lasciando intravedere i seni pallidi da sotto il tessuto, ma, nonostante ciò, qualcosa nella sua figura impediva di definirne realmente il sesso. Stava a gambe divaricate, appoggiata allo schienale della sedia con un braccio, e fumava una sigaretta. Le labbra grandi e carnose, da ragazzo, lasciavano schiudere soltanto una lieve fessura per far uscire il fumo. In punta di lingua le umettava.
Mentre cercavo ulteriori indizi lungo la curva del suo collo, sorpreso da un accenno di pomo d’Adamo, la Sfinge ha alzato gli occhi e mi ha fissato, senza fastidio né scherno: uno sguardo calmo, sicuro, tutt’altro che timido. Un invito.
Non ho interrotto il contatto visivo un istante.
Ho congedato il dentista e mi sono avviato lentamente tra la folla. Non avevo fretta, volevo che ogni passo significasse qualcosa, così come la persona nell’angolo dialogava con me attraverso lievi movimenti del viso, nella maniera in cui appoggiava le dita sulla coscia e la sfiorava, quasi non fosse sua, quasi fossero le gambe di un altro – le mie – che accarezzava per la prima volta. La gente mi ballava attorno, sbatteva senza scusarsi, ma non era nulla, scostavo i corpi come grandi foglie in una serra tropicale. Quelle pupille profonde e scure erano un uncino nella mia carne e io mi lasciavo trascinare. Riusciva a vedermi: vedeva cosa c’era sotto il frac di seconda mano, sotto gli strati di camicia, sotto la canottiera e i boxer di lana, sapeva della cicatrice e delle menomazioni, lei era la Sfinge, sapeva tutto di me già da principio, e più mi rendevo conto di quanto non avessi per lei alcun segreto, più il suo mistero si dilatava, pronto a inghiottirmi. Sapeva che, ad aspettarmi su quella sedia, in disparte, l’avrei trovata. Ha accavallato una gamba sull’altra e ha preso un’altra boccata. Un vecchio danzatore di lambada mi ha pestato un piede, ma non mi sono distratto.
Anche io l’ho spogliata, camminandole incontro. Le ho tolto la blusa trasparente e le ho sentito i seni nella coppa delle mie mani. Le ho accarezzato lo spazio vuoto delle sopracciglia ed è stato come toccare la pelle liscia tra i lembi della mia ferita. La stanza era ampia e non ero nemmeno a metà, un cameriere mi ha offerto un prosecco ma sono passato oltre senza rispondere. Le ho sfilato i pantaloni di seta nera e le mutande, non sapevo cosa avrei fatto, come avremmo potuto unirci, ma per la prima volta dall’incidente scoprivo di provare ancora le stesse sensazioni, lo stesso desiderio di prima, più intenso se possibile, certamente più arcano, frustrante e al tempo stesso amplificato dai limiti del mio nuovo corpo. L’ho spogliata completamente, immaginando che mi desse le spalle per prolungare l’attesa, immaginando la linea della schiena scivolare fino ai glutei, nascondendo la risposta a tutte le domande che avrei voluto farle. Non lasciavo che si girasse, nemmeno nella mia mente. La curiosità mi tormentava, ma qualcosa di più forte mi spingeva a rimanere all’oscuro. Uomo o donna non mi importava, anzi, speravo non fosse nessuna delle due, volevo che fosse tutto, che rimanesse per sempre la possibilità.
Per un istante mi sono distratto.
Stavo per raggiungerla e mi è mancato il coraggio. Ho esitato.
Un trenino mi ha tagliato la strada e, poco prima che scomparisse nella sala accanto, una donna è sgusciata in mezzo alla conga ed è sparita nel bagno degli uomini. Aveva i capelli scuri e l’abito celeste, proprio come Sara. Ho deviato in quella direzione per vedere meglio, ma d’un tratto Michel ha voltato l’angolo ed è entrato nel bagno anche lui. Sua moglie era vicino al buffet, chiacchierava con un’amica poco lontano.
Stava succedendo.
Probabilmente mia sorella lo aspettava nel cubicolo e lui non ha nemmeno atteso di darle un bacio: l’ha spinta al muro, ha scostato l’abito celeste e le è entrato dentro.
Un’altra donna dai capelli scuri, il vestito azzurro cielo, ballava assieme a un gruppo di ragazze e alla sposa. Anche lei sembrava Sara. Volevo che fossero entrambe Sara, volevo che fossero tutto, che rimanesse per sempre la possibilità.
Mi sono girato nuovamente verso l’angolo, finalmente pronto, ma la persona non c’era più, la sedia era vuota, la lampadina spenta.
Mi si è fermato il respiro: il torace si è accartocciato e per un momento è stato come se non fossi mai uscito dalle lamiere squassate della decappottabile. La sedia, a malapena visibile nell’ombra, aspettava che riprendessi finalmente il posto che mi spettava.
Ero venuto per quello, no?

Stavo per arrendermi, quando qualcuno mi ha appoggiato la mano sulla schiena. Non mi sono dovuto girare per sapere chi fosse. Ho ascoltato il suo fiato sulla mia guancia mentre la sala da ballo svaniva da qualche parte nel buio.
Ti prego, le ho chiesto, non sciogliere l’enigma.

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