24 ottobre 1942
di Michele Turazzi

Quel sabato faceva caldo e c’era il sole. Alcuni bambini in pantaloncini corti e mezze maniche giocavano a pallone in piazzale Susa; erano almeno una decina e avevano segnato a terra con un gesso le righe delle porte. Italo era il portiere della squadra che attaccava contro sole e, oltre a seguire il gioco dei compagni per evitare la capitolazione sotto i colpi dei contropiede avversari, aveva anche il compito di osservare i movimenti dei mezzi lungo la strada. Quando vedeva la silhouette nera di un’auto arrivare verso il loro campo da gioco, doveva fare un fischio e urlare, Via via via. Allora tutti e dieci i bambini correvano verso il marciapiede, Italo prendeva il pallone – ché era suo quell’ammasso di stracci marroni – e finivano immersi dalla nube bianca di polvere sollevata dall’auto. Di auto però ne passavano ben poche; la benzina era stata razionata e le scorte italiane venivano convogliate ai mezzi militari, che avevano rifornimenti sufficienti soltanto per pochi mesi. E poi in Susa ormai la città era finita, qui fino a pochi anni prima ci passavano pure i treni. Italo però queste cose mica le sapeva, lui era contento di poter giocare in mezzo alla strada. Seguiva con gli occhi i movimenti dei compagni e del pallone. A volte doveva intervenire per deviare qualche tiro improvviso, ma in generale se ne stava tranquillo perché – lo sapeva con certezza – la sua squadra era la più forte e, infatti, anche quel pomeriggio stava sopra di almeno quattro gol. Vincere, come dicevano le voci del cinematografo mentre passavano le immagini in diverse sfumature di grigio di moschetti e divise, anche a Italo piaceva vincere. Era un altro, però, il motivo per cui se ne stava in piazzale Susa. Era il capolinea del tram numero 38 a interessarlo.

 

L’ingegner Camperio quel pomeriggio aveva caldo. Indossava soltanto una camicia bianca incravattata e una giacca leggera, ma sentiva ugualmente i peli delle ascelle inumidirsi e appiccicarsi alla stoffa scura. Se ne stava seduto al tavolino del bar Centrale, il quotidiano aperto in mano e la gamba sinistra accavallata sopra la destra. Lo sguardo però si perdeva tra le sagome degli uomini che andavano su e giù lungo il corso e le macchie verdi dei tram ferrosi che cercavano di raggiungere il Duomo per lasciar scendere i passeggeri, fermarsi qualche minuto e poi ripartire in senso opposto alla volta del capolinea periferico. L’ingegner Camperio non stava pensando a nulla. Ogni tanto si toglieva gli occhiali tondi e li puliva con un piccolo panno, ma lo faceva soltanto per abitudine, senza un reale motivo. Stamattina sono finalmente riuscito a sentire mio fratello, esordì il dottor Pinotti, dopo aver raggiunto il Camperio ed essersi seduto di fronte a lui, Era da ieri che non avevo sue notizie. Un paio d’ore fa mi ha telefonato, era in un’osteria sulle colline tra Genova e Bargagli, stava portando i bambini in salvo, lontano dalla città e dal fuoco. Il dottor Pinotti era più giovane del Camperio, una decina d’anni in meno, però aveva la testa quasi completamente pelata e quei pochi ciuffi di capelli che ancora gli spuntavano erano completamente bianchi. Faceva ampi gesti con le mani mentre parlava, disegnando nell’aria delle figure geometriche bizzarre. Un suo amico ha una cascina da quelle parti, ci coltiva le viti e ci tiene mucche e galline; un bel posto per i bambini, con una bella vista, isolato e lontano dal centro. Mio fratello mi ha anche detto che gli aerei di ieri erano diversi da quelli dell’anno scorso, erano più grossi e rumorosi. Terribili. L’ingegner Camperio tirò fuori il portasigarette di metallo dal taschino, mentre il Pinotti continuava a parlare di Genova; diceva che gli inglesi non si sarebbero mica fermati, che volevano mandare tutto a fuoco quegli stronzi, tutto l’impero. L’Impero, si sorprese a pensare l’ingegnere, sentendo un piccolo brivido lungo la schiena. Sul giornale aperto sul tavolino c’era qualche riga dedicata ai bombardamenti del giorno prima, il corpo dei pompieri si era distinto per eroismo e celerità, diceva. In pochi minuti aveva domato tutti gli incendi e i pochi crolli, la popolazione era stata coraggiosa e misericordiosa, mentre la contraerea si era subito attivata per evitare danni ben peggiori; gli aerei erano stati infatti messi in fuga dopo pochi minuti e i bambini erano tornati in strada a giocare, certi della vittoria finale del popolo italiano contro qualsiasi nemico. Questo diceva il giornale. Il Camperio accese un fiammifero e, poi, la sigaretta che teneva in mano.

 

Italo prese il pallone in mano e disse, Ragazzi per oggi è finita, devo andare, e con gesto autoritario mosse la testa su e giù per imprimere più forza alle parole. Quello che portava il pallone aveva sempre ragione. Gli altri bambini allora iniziarono a correre verso di lui e, dopo qualche secondo, lo circondarono. Le voci si accatastavano l’una sull’altra, dando vita a un cicaleccio indistinto in cui era possibile riconoscere soltanto qualche insulto ogni tanto; lo chiamavano Comunista oppure Inglese, o in altri modi ancora. Alcuni, i più grandi tra loro, cercavano anche di rubargli il pallone dalle mani. Italo però fu inamovibile. Per oggi basta, continuò a ripetere. E poi stiamo vincendo di sette, mica vogliamo umiliarvi, concluse, troncando ogni ulteriore lamentela. Salutò tutti e si diresse verso il capolinea del tram. Il numero 38 era ancora posteggiato, ma si stava preparando alla partenza. L’autista e la bigliettaia erano appena saliti sul mezzo, mentre i passeggeri stavano mettendosi in fila di fronte alle porte. Italo diede uno sguardo alla propria immagine riflessa sul vetro del tram e si vide spettinato. Aveva i capelli corti, con una riga in mezzo che divideva il cranio in due parti non simmetriche, gli occhi grandi e bruni e qualche lentiggine sparsa sulle guance. Il mese successivo avrebbe compiuto undici anni, ma tutti gliene davano un paio di meno, Dev’essere colpa dell’altezza, pensò Italo mentre si aggiustava le bretelle sulle spalle e toglieva dalla maglietta a righe azzurre l’alone bianco della polvere. Poi si rifece la riga in testa, tenendo le dita della mani ben aperte come fossero denti di un pettine, tirò su i calzettoni fino al ginocchio e lanciò un ultimo sguardo al vetro. Così può andare, sono pronto. Italo, quando prendeva quel tram, non aveva nessuna destinazione. Lo faceva quasi ogni giorno, mischiandosi alla folla dei pendolari soltanto per lanciare qualche sguardo imbarazzato a Maria, la bigliettaia. La fissava tutto il tempo del viaggio, la guardava starsene in piedi sul predellino racchiusa nella sua divisa stretta, la ascoltava pronunciare a voce alta i nomi delle fermate oppure, ogni tanto, scherzare con qualche viaggiatore solitario. Italo ne era sicuro; lui, quella donna la amava.

 

L’ingegner Camperio non aveva voglia di parlare di guerra e bombardamenti. A Milano la situazione era tranquilla e a lui questo bastava, le notizie dal fronte gli arrivavano ogni tanto dal figlio, per il resto sapeva quello che diceva il cinegiornale oppure il quotidiano del mattino. Il figlio, lui sì che lo sapeva come andavano le cose, ma non scriveva spesso a casa e, quando lo faceva, dava soltanto informazioni generiche e distratte. Si chiamava Saverio e aveva venticinque anni. Faceva parte della 133’ divisione corazzata, quella denominata «Littorio» che gloriosamente proteggeva la Cirenaica e resisteva all’avanzata alleata. L’ultima lettera era arrivata un mese prima e conteneva soltanto una foto stropicciata; c’era Saverio impettito all’ombra di una palma, l’uniforme di tela cachi ben stirata e aveva gli occhi chiusi per proteggersi dal sole. Sorrideva in camera e teneva in mano un fucile. Quando il Camperio aveva sgualcito la busta con il punteruolo, per un momento aveva pensato, Ecco cosa resterà di mio figlio, una foto stropicciata senza sguardo. Quel pomeriggio, mentre fingeva di ascoltare il Pinotti, immaginava Saverio tra le dune, e la cosa un poco lo sorprese perché negli ultimi tempi pensava a lui sempre meno. Ogni tanto si chiedeva, Sono un cattivo padre?, però in realtà la domanda che gli interessava era un’altra. Perché gli ho dato il permesso di partire? Eppure glielo avevo trovato un posto da progettista alla Beretta, aveva studiato ed era in gamba, non aveva bisogno di andare al fronte. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello a mio figlio in questi vent’anni, disse all’improvviso il Camperio. Si pentì subito di quelle parole. Allora finse un colpo di tosse. Scusate, che cosa avete detto?, chiese il dottore. L’ingegner Camperio sudava e restava in silenzio, non sapeva che dire, o meglio sapeva soltanto che cosa non dire. Pinotti però sembrava voler tirar fuori dalla bocca dell’amico le parole strozzate in gola. Vi siete resi conto di cosa avete detto?, e poi farlo proprio qui, guardate dove siamo. Laggiù c’è la Madonnina, vi sembra il luogo? Mentre ancora stava pronunciando la domanda, inarcò la schiena all’indietro, allungando le braccia e facendo una sorta di smorfia con la bocca. Facciamo così ingegnere, e ve lo dico solo perché le nostre mogli si conoscono da molto tempo; io faccio finta di non aver sentito nulla, davvero nulla. Voi però ora mi fate il piacere di tornare a casa e mettervi a letto, andate da quella santa donna e abbracciatela. Il signor Camperio ancora non parlava. Il Pinotti si alzò dalla sedia, velocemente ma con un gesto continuo e naturale. Lasciò qualche moneta sul tavolino per pagare il caffè e disse ad alta voce, Arrivederci ingegnere. Poi se ne andò verso via Larga. Il Camperio invece spense la sigaretta per terra e la pestò con il tacco dello stivale. Forse il dottore ha ragione, pensò. Sono stanco. Sono vecchio.

 

Italo era seduto all’interno del tram. Teneva ancora in mano il pallone marrone, sembrava volerlo abbracciare tanto lo stringeva forte al petto; i piedi invece tamburellavano nervosamente sul pavimento. Da quella postazione riusciva a seguire ogni mossa di Maria, la vedeva staccare i biglietti, ricevere le monete, cercare il resto: Chiunque deve passare da lei per prendere il 38, in questo posto lei ha il potere assoluto, pensava Italo mentre guardava le sue mani armeggiare col borsello. Soltanto lui non pagava mai per salire. La bigliettaia ormai sapeva che quel bambino non doveva andare da nessuna parte, voleva soltanto farsi l’intera tratta da un capolinea all’altro e poi tornare indietro. Maria aveva poco più di vent’anni, i capelli ricci e scuri. Non era molto alta e forse pure un po’ paffutella, ma più di ogni cosa a Italo interessava il suo seno abbondante. Era racchiuso dentro la divisa, stretto in quello spazio angusto senza possibilità di movimento. Non che il viso fosse brutto – era tondo e simmetrico, con gli occhi neri e le labbra carnose appena socchiuse –, ma Italo aveva scoperto da così poco tempo l’esistenza del seno a suggello dell’essere umano da rimanerne sopraffatto. Ad ogni modo lui cercava di non farsi cogliere in flagrante con lo sguardo fisso sul suo petto e, le poche volte che succedeva, arrossiva di colpo e abbassava gli occhi. Si sforzava di guardarle ora le labbra, ora le mani o le gambe. A volte si imponeva di dare un’occhiata anche agli altri passeggeri oppure fuori dal finestrino, tanto per non farsi scoprire. Anche quel giorno, mentre il tram si metteva in moto e avanzava lungo il viale rettilineo, Italo teneva ben stretto il pallone e si immergeva nella contemplazione di quella donna.

 

L’ingegner Camperio decise di seguire il consiglio del dottore e tornarsene a casa. Non aveva voglia però di aspettare il tram e stare in mezzo a tutta quell’umanità ammassata, voleva distendere i propri pensieri. Allora si mise a camminare. Passeggiare lo aveva sempre rilassato, fin da quando era bambino e viveva ancora in campagna, sulla strada per Novara. Quando usciva da scuola prendeva in mano la sacca e iniziava a camminare per quattro, cinque chilometri lungo una vietta sterrata zeppa di curve. In primavera le piante di mais gli coprivano la visuale in ogni direzione, erano più alte di lui e, quando tirava un po’ di vento, si colpivano l’una con l’altra e facevano Shhh. Spesso il Camperio bambino allora chiudeva gli occhi e, invece di proseguire verso casa, si addentrava nel mare verde del granoturco non pronto e là si buttava a terra. Se ne stava disteso per qualche minuto, oppure per tutto il pomeriggio. Ora, anche se attorno a lui poteva vedere soltanto palazzi e mattoni, continuava ad amare le passeggiate solitarie. Una volta raggiunta la chiesa di San Babila, superò il campanile lasciandoselo sulla sinistra, proseguendo verso Porta Monforte. Camminava appoggiandosi con la mano destra su di un bastone da passeggio con il pomello dorato e zoppicava un poco, anche se la sua andatura sembrava comunque ferma e imponente. Pensava agli anni del figlio, venticinque. L’età in cui tutto è possibile – si diceva – sei un uomo e pure un ragazzo, hai esperienza e maturità, ma anche quel brivido di incoscienza che ti fa prendere la vita di petto. Però se ne pentiva ben presto di quel pensiero, Che cosa avrebbe potuto offrire il deserto? A che cosa serve avere venticinque anni in mezzo alle dune? Mentre entrava in Porta Monforte, si rese conto che il sole stava per tramontare e che il caldo non era più così insopportabile. Sì, camminare gli faceva bene. Aveva anche smesso di sudare.

 

Il tram percorse corso Indipendenza ed entrò in piazza Risorgimento. Italo in quel momento capì che non avrebbe potuto continuare ancora per molto a contemplare in silenzio l’immagine di Maria. Doveva cercare di agire, parlarle oppure sfiorarle la mano, poco cambiava. L’importante era riuscire a fare qualcosa. Era da più di un mese che ogni pomeriggio stava sul tram, osservava il seno di quella donna sballottare su e giù seguendo i balzi del mezzo sul lastricato del viale. Stava in silenzio e non sapeva che fare. Nella sua breve vita non si era mai posto il problema di attaccare bottone con una ragazza, si era sempre limitato a parlare con gli amici del quartiere o i balilla alle scuole. E poi quella, mica era una bambina; era una donna fatta e finita. A volte sovrapponeva l’immagine della bigliettaia con le dive viste al cinematografo, e allora immaginava avventure in città occupate della Cirenaica o della Tripolitania in cui era bersagliere in uniforme sgualcita. Quel pomeriggio, mentre il tram entrava in corso Concordia, lui era ferito e aveva il fucile a tracolla. Stava fuggendo da un’imboscata degli inglesi, quelli erano in quattro e l’avevano circondato in una stretta via mal illuminata. Era notte. All’improvviso sentì la serratura di una piccola porta di legno scattare e riuscì ad intravedere un alone di luce che filtrava dall’uscio di una casa. Qualcuno gli aveva aperto una porta. Di scatto si infilò dentro quella stanza, sbattendo la porta dietro di sé e sprangandola con un’asse chiodata. Gli spari dei soldati risuonavano sul legno, ma Italo si era già addentrato nell’abitazione. In una delle tre stanze c’era Maria. Era seduta sul letto, un letto dalle coperte nere e lucide. Indossava una gonna che a malapena le copriva le ginocchia e una camicetta bianca infilata dentro la gonna all’altezza della vita. La camicetta però era sbottonata e il seno fuoriusciva libero. Italo scosse la testa e si ridestò. Don Luigi non apprezzerebbe queste fantasie, si disse prima di guardare fuori dal finestrino. Stava per venire buio.

 

Nel 1942 a Porta Monforte ci restava soltanto il nome. Il bastione e la relativa porta li avevano buttati giù negli anni Dieci, ormai al loro posto c’era uno spiazzo e un incrocio. Trentasei anni prima, l’ingegner Camperio oltrepassava quasi ogni sera quel varco tra le mura per andare verso via Sottocorno. Là si allenava e giocava le partite di pallone. La maglietta rossonera e i pantaloncini bianchi che teneva ripiegati in borsa mentre camminava per le vie notturne. Il campo era proprio accanto al cimitero abbandonato di Porta Vittoria e soltanto un muro di mattoni divideva il camposanto dalla gradinata di legno. Là se ne stavano seduti quei pochi che assistevano alle partite. Gli piaceva la sensazione di stare in campo, sotto gli occhi della gente, ma alla fine i suoi piedi erano quelli che erano e ben presto aveva appeso le scarpette al chiodo. Però erano stati bei tempi, era tutto più semplice, anche il calcio era diverso: c’era quell’inglese baffuto senza il quale qui in città il calcio mica esisterebbe, le squadre avevano cinque attaccanti e due difensori soltanto, ad ogni angolo tutti incontro alla palla e occhi chiusi per colpirla. Che bei tempi, pensò di nuovo, prima di rendersi conto che rimpianti di questo tipo avevano una sola spiegazione, Sono vecchio e, come tutti i vecchi, vedo bello il passato e triste il futuro. E allora avrebbe voluto sputare per terra, per liberare il palato da quel gusto acre e melmoso che teneva in bocca. Però non lo fece. Il signor Camperio si sedette su una panchina a guardare la strada e accese un’altra sigaretta. Il tram numero 38 stava per raggiungerlo. All’ingegnere sembrò di vedere un pallone all’interno del mezzo.

 

Italo era ancora immerso nella notte nordafricana quando una sirena iniziò a strillare. I passeggeri del tram all’improvviso iniziarono a muovere la testa ora a destra ora a sinistra, guardandosi l’un l’altro. L’allarme, gracchiò una vecchia, l’allarme. Un signore col cappello nero allora si alzò in piedi e si diresse verso Maria, L’avete sentito signorina?, Che cosa avete intenzione di fare? Maria rimase in silenzio e si avvicinò al conducente; un bell’uomo alto dai lineamenti duri. Avrà avuto quarant’anni; troppo vecchio per la guerra. Quello le disse, prima sottovoce, poi, al contrario, cercando di farsi sentire da tutti, È da due anni che nessun aereo nemico arriva in città. Maria allora si rivolse ai passeggeri con voce leggera, State calmi è quasi sicuramente un’esercitazione. Ad ogni modo ora troviamo un posto sicuro dove poter posteggiare il tram e vi facciamo scendere. Restate calmi. L’annuncio non sortì alcun effetto. La vecchia si inginocchiò a terra e cominciò ad intonare un canto liturgico, ben presto due passeggeri si unirono alla sua voce seguendo le parole con una tonalità più bassa. Italo fissava Maria. La immaginava spaventata e in lacrime sotto i colpi dell’aviazione inglese, la paura le bloccava le gambe impedendole di raggiungere i rifugi. In quel momento sarebbe entrato in azione lui, l’avrebbe raggiunta e presa per mano; l’avrebbe fatta ragionare. Non ti preoccupare, ora ci sono io con te, le avrebbe detto. Insieme sarebbero andati in uno di quei fortini con la scritta R dipinta sopra e là dentro, sotto il fischio delle bombe, sarebbe riuscito ad abbracciarla. Forse avrebbe persino sentito la rotondità delle sue tette affondargli contro il petto. Invece Maria sembrava risoluta e coraggiosa, stava scegliendo con il conducente il posto migliore dove abbandonare il tram, non doveva intralciare la strada ai pompieri. Lo trovarono appena prima dell’incrocio con viale Biancamaria. Là accanto ci stava pure una panchina.

 

Quando sentì la sirena, l’ingegner Camperio non provò né paura né curiosità; prese semplicemente atto della cosa. Stanno arrivando gli aerei, si disse, senza pensarlo davvero, ché le altre volte quelli avevano attaccato di notte e poi era successo tanto tempo fa. Alcuni, in città, si erano anche realmente convinti delle parole che ripetevano ai bambini, Non avere paura delle bombe, tesoro, Milano è protetta dalle Alpi. Gli aerei non possono arrivare fin qui. Il Camperio però lo sapeva bene che le Alpi non avevano mai protetto un bel niente, da Annibale in poi le avevano valicate regolarmente tutti. Lui non si muoveva dalla panchina per un altro motivo; così come di fronte al dottore non sapeva che dire, qui in mezzo alla piazza non sapeva che fare. Non era un uomo dalle decisioni immediate. Attorno a lui c’era chi correva e chi continuava a conversare come se niente fosse successo. Le mamme prendevano i bambini in braccio e li trascinavano verso qualche sotterraneo rinforzato. L’ingegner Camperio vide avvicinarsi il tram carico di passeggeri. Le rotaie finivano a pochi metri dalla panchina, era un binario monco. Quando il tram si fermò e aprì le portiere il suono della sirena si interruppe. Una dozzina di persone si ammassarono sui gradini e si urtarono giù dal tram, ognuno diceva qualcosa ma nessuno ascoltava. Sul mezzo rimasero soltanto un bambino con un pallone in mano, la bigliettaia e l’autista che stava spegnendo il motore.

 

Italo non riusciva a crederci. Il 38 era deserto e per la prima volta non doveva dividere Maria con nessuno; quella donna era là soltanto per lui. E si stava avvicinando. Tu non scendi, ragazzino?, chiese. Poi gli appoggiò una mano sulla spalla. Devi correre a casa, hanno suonato l’allarme e tua mamma ti starà cercando; non è sicuro stare qui. Aveva una voce armoniosa e leggera. Per un attimo la parola mamma e l’immagine di Maria si sovrapposero nella mente di Italo, ma fu soltanto un istante, ché subito il bambino chiuse gli occhi e quella strana fantasia scomparve. Non c’erano né bombe né aerei né inglesi, c’erano soltanto loro due e tutto il resto sembrava bianco e ovattato. Le hai sentite le sirene, ragazzino?, ma lui non rispose, le parole in quel momento non potevano raggiungerlo. Poi però arrivò il temuto risveglio. Il conducente raggiunse Maria e le fece un cenno col capo come per dirle, Sù scansati, e lei ritrasse la mano dalla spalla di Italo. Ragazzino che fai? Dobbiamo chiudere il tram e ci stai facendo perdere tempo. Non possiamo mica restare a giocare qui con te, sei già bello grande per queste pagliacciate. Cercò di farlo alzare in piedi, tirandolo su di peso. Italo però non sembrava ascoltarlo, teneva il pallone stretto in grembo con le braccia incrociate e non dava facili punti di appiglio. Italo non lo ascoltava, il sogno che aveva in testa si era dissolto. Proprio a noi doveva capitare ‘sto pirla di un bambino? Io ora lo lascio qui, che faccia la guardia al tram o che schiatti sotto le bombe. Maria però gli lanciò uno sguardo inequivocabile, lei quel bambino non lo avrebbe mai lasciato lassù. L’autista allora si avventò di nuovo su Italo; per farlo scendere dal tram dovette prenderlo in braccio e trasportarlo di peso sul selciato. Italo teneva ancora stretto il pallone al corpo mentre stava sollevato in aria e sentiva le bestemmie dell’uomo corredare l’intera operazione. Si sentiva un sacco di patate, oppure un cadavere trasportato al cimitero maggiore. Poi Maria si avvicinò a Italo che stava in piedi con lo sguardo svuotato. Gli tolse un po’di polvere dalla maglietta e gli chiese sottovoce, Come ti chiami, ragazzino?

 

Il signor Camperio aveva seguito tutta la scena. Stava seduto a pochi metri dal bambino e dalla bigliettaia, mentre l’autista armeggiava con serratura e portiera per chiudere il tram e andarsene finalmente via. Maria, ce ne andiamo?, Cos’è che stai facendo ancora?, urlò. Quella rispose di aspettare, che dovevano portare il ragazzino da qualche parte, Mica possiamo lasciarlo qui. In quel momento l’ingegner Camperio sentì un suono che conosceva. Il primo stormo di aerei si presentò con un boato metallico, veniva dalle montagne. Italo alzò lo sguardo verso il cielo. Un gruppo geometrico di sagome scure lo stava interamente riempiendo, come uccelli troppo cresciuti che si dispongono in file ordinate durante le migrazioni d’autunno. Erano le sei.

 

A Porta Monforte scoppiò il caos; tutti i passanti ancora in strada si misero a correre verso un rifugio, si ammassavano gli uni sugli altri all’interno di quei bunker d’occasione, cercando di farsi forza col numero. Le urla delle donne e dei bambini si mescolavano al rombo dei Lancaster; della contraerea italiana nessuna traccia. L’autista prese Maria per mano e cercò di portarla via dalla piazza, così invitante per un raid nemico. Maria, non sto più scherzando, ora tu mi ascolti e fai quello che ti dico; corri con me più forte che puoi. Ci teneva a quella donna, era evidente. Maria allora gli strinse forte la mano, quasi avesse voluto sentire le ossa spezzarsi nella presa. Poi si rivolse al bambino, Vieni con noi, corri con noi. Italo però continuava a starsene zitto e fermo, lo sguardo rivolto al cielo. Maria allora chiuse gli occhi e iniziò a correre, voltandosi solo una volta arrivata al portone del palazzo merlettato. L’ingegner Camperio invece diede soltanto un’occhiata svogliata agli aerei, aveva preferito seguire la corsa dei due tranvieri verso il rifugio e, osservando i loro movimenti convulsi, si era reso conto che oramai era tardi. Non aveva molte possibilità. Restò seduto sulla panchina e guardò Italo, immobile davanti a lui. È proprio un bel pallone, ragazzo, gli disse. Sai cosa facciamo? Quando finisce tutto questo schifo, io e te ce ne andiamo al parco e ci facciamo due tiri come si deve; lo sai che ho vinto un campionato nazionale quando ero giovane?, ce ne andiamo al parco, io e te. E poi ripeté ancora, come un grammofono difettoso, È proprio un bel pallone quello.

 

Italo aveva gli occhi chiusi. Sentì un sibilo assordante e poi uno scoppio. Poi altri dieci, cento e il boato dei crolli che copriva tutti gli altri suoni. Un unico rumore continuo e incessante. Lui, per non restarne sopraffatto, tornò in Cirenaica, avvolto nell’uniforme cachi che adorava e temeva. Anche là stava sotto i bombardamenti nemici, ma stava correndo. Sfrecciava tra le vie di una città in bianco e nero, gettandosi a terra ad ogni esplosione per non essere colpito dalle schegge. Le finestre aperte dei palazzi erano infestate di soldati nemici che sputavano piombo; le pallottole si mescolavano alle bombe che cadevano dal cielo e rendevano la traversata cittadina pericolosa quanto un campo minato. Italo era arrivato in una grande piazza, zeppa di macerie, alcune ancora fumavano. Al centro, illuminata dalla luna pallida, c’era una donna con un braccio intrappolato sotto una trave. Con una voce flebile, quasi un sussurro, chiedeva aiuto, ma, a parte Italo, non c’era nessuno. Soltanto lui poteva fare qualcosa. Guardò in cielo e vide che il primo stormo di aerei aveva finito il suo carico; aveva qualche minuto, forse meno, per raggiungere Maria e liberarla. Pure gli spari alle finestre erano cessati. Italo aveva la gamba destra ferita da una pallottola, l’aveva fasciata con un lembo di stoffa strappato dall’uniforme, ma il sangue continuava a uscire. Lui, però, correva lo stesso, il dolore lo avrebbe sentito solo più tardi. Raggiunta la ragazza ferita, provò a chiamarla per nome, Maria, voleva dire. Dalla sua bocca però non usciva nessun suono. Maria non riusciva ad avvertire la presenza del soldato, come se quello fosse stato trasparente o, ancora peggio, già morto.

 

Il secondo gruppo di aerei attese il proprio turno. Per qualche minuto gli inglesi rimasero in cielo senza lasciarsi andare a nessuna azione, sembravano voler osservare lo spettacolo pirotecnico lasciato in eredità dai propri compagni. Nuvole di fumo nero si innalzavano dai tetti dei palazzi colpiti, quelli non ancora crollati. Poi però dozzine di mezzi aprirono gli sportelli all’unisono e di nuovo riempirono il cielo di ferraglia esplosiva. La seconda parte dell’attacco era più complessa per gli aviatori alleati perché una spessa coltre nerastra oscurava gran parte della città, quei soldati chiudevano gli occhi, pigiavano un tasto e aspettavano soltanto il momento in cui il proprio aeroplano sarebbe tornato finalmente leggero. Quattro bombe incendiarie colpirono il piazzale di Porta Monforte. Due abbatterono il palazzo bianco all’angolo con i bastioni. Una terza colpì quello all’altro lato della piazza, soltanto il tetto però ne uscì malconcio, le pareti restavano in piedi. La quarta invece cadde nel bel mezzo dell’incrocio. Italo aveva ancora gli occhi chiusi quando si sentì scaraventare via; il rinculo della bomba l’aveva preso alla sprovvista e trascinato con sé. Ora era disteso al suolo. Respirava la polvere della strada e l’odore della detonazione. Aveva male alla gamba destra, una fitta e un formicolio all’interno dell’osso, sentiva le membrane e i tessuti squarciati da un palo della linea elettrica. Però era ancora vivo, questo lo sapeva con certezza, perché sentiva dolore e quella del dolore è senza dubbio un’esperienza vitale, anche se per qualche istante pensò, E se questo fosse l’inferno? Allora strinse i pugni, come se si stesse preparando per una bella scazzottata, e fece un respiro profondo. Attorno a lui la piazza non era più nulla, era un ammasso di rottami immersi nel fumo. Quando, con estrema lentezza, riuscì a liberare la gamba, le fiamme stavano alimentandosi a vicenda e si propagavano da tetto a tetto, esondavano dalla piazza per andare a colpire le vie laterali, verso viale Premuda oppure corso Concordia. Italo cercò di alzarsi in piedi, ma non riusciva a muovere la gamba, neppure a distenderla. Quell’arto inutilizzabile se ne stava inerte, penzoloni, e nella sua fissità sembrava voler sfidare il legittimo proprietario; Prova un po’a correre senza di me, vediamo come te la cavi, diceva silenziosamente. Ad un tratto Italo si rese conto di un fatto innegabile; il suo pallone non c’era più. Poi svenne.

 

Quando l’ingegner Camperio aprì gli occhi realizzò di non essere più sulla panchina; il tram era ormai lontano e lui poteva vederlo solo voltando la testa verso destra. Aveva la schiena appoggiata al muro di un palazzo grigio e non sapeva come era arrivato fin là. Si ricordava bene le prime esplosioni, i colori della città illuminata, il fumo che saliva fino al cielo e lui seduto, in mezzo alla piazza, a guardare la città disfarsi. Il ricordo della seconda tornata di bombe però si faceva più confuso, quelle non potevi neppure vederle cadere perché le nuvolacce nere oscuravano tutto e le sentivi soltanto schiantarsi al suolo. Forse sono scappato verso questo palazzo per cercare protezione, pensò il Camperio mentre si puliva gli occhiali dalla fuliggine. Forse i miei nervi hanno ceduto e mi hanno condotto qui, ma allora perché non ho nessun ricordo della corsa nel fumo? No, non si era mosso secondo coscienza, era stato spinto da una concatenazione meccanica di spasmi muscolari. E il bambino dov’era? L’ingegner Camperio provò ad alzarsi, aggrappandosi con le dita ai mattoni sporgenti del muro, ma sentiva le ginocchia tremare sotto il proprio peso. Il muro apparteneva ad un palazzo grigio col tetto infuocato; gli ultimi due piani erano quasi interamente crollati e la facciata lassù si apriva di netto prima di raggiungere quel che restava di tegole e comignoli, lasciando intravedere l’interno di un paio di appartamenti in combustione. Il letto matrimoniale e il divano, i tavolini, le sedie e il lavabo. I mobili, di solito ben celati dal pudore borghese, si mostravano nudi a tutta la città. Il Camperio si rimise gli occhiali e iniziò a vedere delle macchioline verdi. Erano aloni fosforescenti che luccicavano e si appiccicavano sopra le cose, alle pareti crollate come al tram immobile all’incrocio. Allora sbatté le palpebre con foga, cercando di farle scomparire. Quelle masse gelatinose, però, non se ne andavano. L’ingegner Camperio continuava a non trovare il bambino, avrebbe dovuto alzarsi in piedi e mettersi a cercarlo, chiamarlo a voce alta almeno, ma si sentiva troppo debole per spingersi in avanscoperta. Sentiva una profonda spossatezza invadergli il corpo, una sensazione di stanca tranquillità. Tutto questo non è reale, pensava, seguendo il movimento della propria cassa toracica. Per un attimo l’immagine del bambino col pallone in mano si sovrappose a quella del figlio soldato in Africa del Nord, era sepolto in trincee di sabbia cirenaica. Quando tutto questo sarà finito, andiamo a fare due tiri a pallone, sussurrò il Camperio, senza sapere a chi rivolgersi. Continuava a muovere lo sguardo lentamente in ogni direzione, indugiando su ogni singola porzione di terreno. Ad un certo punto lo trovò. Non il bambino, quello sembrava scomparso; il signor Camperio trovò il pallone marrone. Era in fondo alla scala di pietra che conduceva verso le cantine del palazzo grigio, incastrato tra la grata di un finestrella murata e l’angolo creato dal gradino con la parete. Il Camperio riusciva a distinguerlo chiaramente e, anche se vedeva la stoffa macchiata da quel verde acido, non ebbe il minimo dubbio: era il pallone di quel ragazzino. Devo andare a prenderlo, pensò. Guadagnò la cima della scalinata a gattoni. Poi, con fatica, iniziò a scendere i gradini uno ad uno, senza riuscire mai a sollevarsi in piedi, strisciando come una serpe in un prato. Si sentiva viscido e sporco, mentre cercava di trovare uno scopo in quella giornata di isteria collettiva; il suo scopo era raggiungere il pallone. E adesso era così vicino, bastava allungare una mano per toccarne la stoffa. Distendere il braccio, aprire il palmo e divaricare le dita. In quel momento la parete portante del terzultimo piano cedette: mattoni, infissi e legni infuocati crollarono al suolo, ricoprendo la scalinata di detriti e macerie. Quei gradini sembravano non essere mai esistiti, così ricoperti da sassi di qualsiasi colore e dimensione. Da lontano, però, sembravano soltanto granelli di sabbia grigiastra. Sotto, ci stava l’ingegner Camperio.

 

Gli aerei se ne andarono. Per qualche minuto il silenzio nell’aria fu interrotto soltanto dallo scoppiettio delle braci. Ogni tanto qualcosa crollava. Poi dalle interiora dei palazzi iniziarono ad aprirsi le porte blindate e un ronzio di voci si fece largo in Porta Monforte. Dalla cantina rinforzata di un palazzo merlettato uscì correndo una donna mora, il seno sobbalzava su e giù. Gridava, Ragazzino, e altre parole sconnesse. Si diresse verso il tram parcheggiato, il mezzo era uscito immune dal bombardamento e la sua sagoma verde sulle rotaie sembrava pronta all’azione, desiderosa di mettersi in movimento verso un capolinea qualsiasi. Le rotaie però erano squarciate. Il bambino là non c’era e allora Maria iniziò a girare in tondo attorno al mezzo, facendo cerchi sempre più ampi, guardando in basso, a destra, a sinistra, pure in alto. Il sole era scomparso dal cielo, ma ancora non era buio. Poi lo trovò. Italo era disteso a terra, con le braccia incrociate appoggiate al petto, stava cercando di abbracciare un pallone che non c’era più. Però era vivo. Maria lo capì appoggiando la testa sulla cassa toracica del ragazzo; si inginocchiò a terra e iniziò ad ascoltare quel cuoricino battere con un rumore cadenzato e regolare. A Maria, quello sembrava il suono più bello del mondo.

 

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