Quasi una storia di fantasmi
di Marco Malvestio

S. non sa se chiamare o no: rimane in piedi davanti alla finestra, col telefono in mano, per diversi minuti. È una mattina limpida, che immobilizza nel suo calmo gelo, filtrato attraverso i vetri sporchi, i piatti e le stoviglie della cucina, e il piccolo tavolo e le sedie chiare. L’uomo, alla fine, sembra decidersi all’improvviso. Compone il numero e porta il telefono all’orecchio.
«Pronto.»
Dalla finestra, le montagne innevate luccicano come onde in mare aperto, attraverso l’inquieto filtro dei pini.
«No, ho bisogno che tu venga qui. Credo che ci siano i fantasmi.»

S. e il suo amico sono seduti l’uno davanti all’altro al tavolo della cucina. Fa più freddo che in città? chiede S., l’amico ha trovato la strada facilmente? C’è dell’imbarazzo, perché è da molto che non si vedono, da quando i loro rapporti si sono raffreddati qualche anno prima, dopo il divorzio di S. L’amico si è chiesto in effetti come mai, tra tutte le persone, sia stato proprio lui a ricevere quella telefonata che non può evitare di considerare assurda, perché, anche prima di perdere i contatti, i loro rapporti non erano poi così stretti. Tuttavia rimangono, nel bene e nel male, amici di vecchia data, o perlomeno conoscenti, e nonostante la stranezza della richiesta ha comunque deciso di fare quell’ora e più di macchina che li separava.
S., che ha un’aria molto più trasandata dell’ultima volta che si sono visti, e si è fatto crescere una barba fitta e scura, costellata di peli bianchi, anticipa la curiosità dell’amico spiegandogli che dopo il divorzio ha accettato quasi immediatamente un trasferimento lavorativo, per avere l’occasione di spostarsi e, dice, di andare a vivere in quella casa di montagna non troppo confortevole ma piacevolmente isolata. La casa si trova vicino a dove i suoi genitori lo portavano in vacanza, e lui ha frequentato il posto fin da bambino, sognando, nella frustrazione della vita cittadina, di potercisi un giorno trasferire: una zona di piccole abitazioni col giardino e popolata da quella che, nell’entusiasmo del turista, gli è sempre sembrata gente semplice, e non lontano il lago tranquillo e solitario, e dall’altra parte ancora la passeggiata fino al forte. L’amico pensa che la casa – troppo grande per una persona sola, con mobili ormai vecchi, difficile da riscaldare ed eccessivamente umida – non valga la pena di questo trasferimento, ma non obbietta nulla, perché capisce bene che non sempre i desideri rispondono a spiegazioni razionali. Non scegliamo che cosa amare, si dice l’amico, che cosa ci fa stare bene. Nella piccola cucina dai mobili stinti e tristemente funzionali S. stringe la tazza di caffè con entrambe le mani.
L’amico era in effetti sempre stato più vicino alla moglie di S. che non a lui: una vicinanza mai nemmeno lievemente ambigua, ma allo stesso tempo vagamente gelosa, essendo l’amico scapolo e anzi non avendo mai avuto vere e proprie relazioni sentimentali. L’amico ricorda, da spettatore attento e non imparziale, gli anni di vita in comune di S. e della moglie, la convivenza matrimoniale in un appartamento non troppo grande ma in una posizione centrale della città, e non spiacevole. La donna, che dopo un iniziale impiego come guida in un museo era riuscita a ottenere un posto come insegnante di storia dell’arte alle medie, era una persona la cui naturale (benché generica) propensione alla cultura conduceva, nell’opinione dell’amico, a un’inevitabile insoddisfazione nel rapporto con un uomo decisamente più concreto come S. Allo stesso tempo, sospetta l’amico, la sensibilità della donna, forse un po’ isterica, forse, priva di valvole di sfogo, incistatasi, sarebbe sfociata in qualche episodio depressivo, che doveva avere poi condotto al divorzio, sulle cui cause tuttavia non si era mai permesso di dilungarsi con lei, e figuriamoci con S., col quale ha molta meno confidenza.
Traslocando, dice S. senza guardare in faccia l’amico, ha potuto assecondare quel lato della sua persona che da sempre ama la solitudine, e la malinconia che ne deriva. L’amico ascolta pazientemente anche questa spiegazione, ma gli sembra che S. indulga, nel fornirla, in un certo drammatico esibizionismo, accentuato in qualche modo dagli abiti dimessi che indossa. Ormai la discussione sembra essersi spostata sui benefici della vita solitaria, per l’imbarazzo dell’amico, che comincia a chiedersi se l’altro non abbia semplicemente usato la scusa dei fantasmi per avere compagnia – quand’ecco che S. si interrompe, e abbassando il tono della voce si scusa per il preambolo, ma la ragione per cui ha richiesto la visita dell’amico lo inquieta anche solo a parlarne.
S. comincia a raccontare, allora, la sua storia di fantasmi.
Per un anno dal trasloco in quella casa non succede nulla di spiacevole: anzi, l’aria di montagna e la solitudine gli permettono di riprendersi dai turbamenti del divorzio (consensuale, insiste, ma ugualmente doloroso), mentre il minore carico di lavoro gli lascia tempo libero per lunghe camminate nei boschi, attività amata fin da ragazzo, e per l’avido consumo di libri e film. S. descrive con dovizia e trasporto il piacere delle passeggiate nell’aria fredda e rinvigorente, la vita semplice che conduceva, le solide abitudini che si era costruito, e l’amico annuisce, assentendo annoiato sui benefici di una sana routine.
Dopo circa un anno di vita serena e abitudinaria, tuttavia, una notte si verifica un evento strano. S. dorme nella sua spaziosa camera da letto, quando viene svegliato da un grido che lo fa riprendere immediatamente dal sonno. In uno stato di veglia, indeciso se l’urlo che ha sentito appartiene alla realtà o al sogno, S. aspetta qualche istante, finché un altro grido rompe l’aria umida e fredda della stanza. Come si tira su dal cuscino, per avvicinarsi dal centro dell’ampio letto matrimoniale dove dorme alla lampada del comodino, i suoi occhi vengono catturati da un bagliore proveniente dallo specchio dell’armadio.
Nello specchio ci sono due figure, di un uomo e di una donna, e lui la minaccia con un grosso martello, non un martello da casa, specifica S., ma uno da lavori pesanti, da impugnare a due mani. S. fissa le figure nello specchio per un lasso di tempo che non sa quantificare, mentre queste rimangono immobili nella stessa posa, l’uomo rabbioso e la donna spaventata, che si appoggia al muro, e la luce che emanano si indebolisce lentamente, finché non rimane soltanto un alone, come dopo avere spento un televisore a tubo catodico, e poi più nulla – e S. ripiomba in un sonno profondo senza rendersene conto.
L’amico ascolta tutto senza troppa emozione, eccetto forse un po’ di irritazione per questa storia sconclusionata, e non sapendo cosa dire fa la più banale e necessaria delle obiezioni: forse S. ha solo sognato. S. fa cenno di sì con la testa: è la prima cosa che ha pensato anche lui, naturalmente. La mattina successiva all’apparizione (dice «apparizione» e non «sogno», ma come con vergogna) S. si sveglia confuso e inquieto, con addosso un’insolita stanchezza, ma non dà troppa importanza alla cosa, e procede con la propria routine. Poche notti dopo, tuttavia, l’esperienza si ripete: un grido lo sveglia, e di nuovo, come apre gli occhi, nello specchio vede un uomo e una donna, e l’uomo ha un grosso martello, e la donna è terrorizzata.
Prima che l’amico possa dire qualcosa, S. precisa subito che rispetto alla precedente apparizione le figure sono le stesse, spiritate e spettrali, e così il chiarore, ma la posizione dell’uomo è diversa, e se prima teneva il martello quasi appoggiato alle cosce, con due mani, ora comincia lentamente a sollevarlo. Dopo che l’immagine gli si stampa nella retina, di nuovo, S. piomba in un sonno profondo.
L’amico inizia a capire dove la storia sta andando a parare, e fa per aprire bocca, ma S. lo interrompe, preso da una certa urgenza di finire. L’apparizione, spiega, si ripete per diverso tempo ogni certo numero di notti (variabile ma mai eccessivo), senza che S. riesca a trovare una cadenza regolare, o una relazione con altri fenomeni: e a mano a mano che l’apparizione procede, procede anche la violenza dell’uomo nello specchio, che impugna sempre più minacciosamente il martello e si ostina nel suo gesto di sollevarlo e di calarlo sulla donna, finché non è chiaro, a S. che guarda impotente la scena, che lo schianto del martello sul cranio della donna è inevitabile, sicché in S. aumenta la paura di andare a dormire, a maggior ragione perché (ma questo all’amico non lo dice) gli sembra di riconoscere nell’uomo e nella donna una somiglianza inquietante con la propria figura e quella della sua ex moglie. Anche quei sonni che non sono turbati dall’apparizione si fanno agitati, e a un certo momento la scena nello specchio comincia a bloccarsi proprio nell’istante in cui il martello sta per cadere sul volto della donna, ormai sfatto dal terrore, mentre quello dell’uomo è sconvolto insieme dalla rabbia e da una sorta di perverso piacere che a essa si accompagna; poi la scena riprende in una lentissima rappresentazione dell’impatto, come fotogramma per fotogramma, col martello che fa sempre più pressione sul cranio, deformandolo prima per le onde del colpo e poi per il proprio peso, fino a fracassarlo tra schizzi di sangue, con gli occhi che fuoriescono dalle orbite. Questo spettacolo prosegue per lunghe, numerose notti, e ogni notte il cranio della donna è una visione più oscena, una melagrana spaccata, un fico squagliato, finché, quando il martello, si direbbe, ha raggiunto la parete dello specchio, le apparizioni si interrompono.
S., dopo avere raccontato tutto questo, tace, e rimane assorto a guardarsi le mani, che gli tremano. L’amico è confuso e agitato, perché da un lato la storia gli sembra assolutamente incredibile, ma dall’altro percepisce con chiarezza che la preoccupazione di S. è reale e sincera. Suggerisce nuovamente che si possa essere trattato di una serie di sogni: che S. sia stato suggestionato dal primo, e poi, inconsciamente, abbia continuato a evocarli fino al compimento dell’azione. S. risponde che sì, ha preso in considerazione l’eventualità, e infatti, a dispetto del raccapriccio che suscitavano in lui, ha cercato di non dare troppa importanza alle apparizioni. Una volta terminate, anzi, si è rituffato nelle non molte incombenze del suo lavoro e nelle proprie abitudini con rinnovato piacere ed entusiasmo. Ha cominciato a pensare di dare una risistemata al salotto, di sostituirne i mobili usurati, e magari addirittura di aprire una finestra in più. Senonché…
L’amico guarda fuori dalla finestra, e vede che il cielo, da luminoso, si è fatto scuro, coperto da un lungo campo oleoso di nubi grigiastre. Senonché, prosegue S., all’improvviso, sempre più distintamente, ha iniziato a percepire di non essere solo in quella casa. L’amico corruga la fronte, e gli chiede di spiegarsi, e S., in un certo senso, è imbarazzato: spiega che, in determinate occasioni, avverte la presenza di qualcun altro in casa oltre a lui. Per esempio, a volte, dopo essersi addormentato sul divano, si sveglia nel cuore della notte – ma non è un risveglio spontaneo, perché ha la netta sensazione di essere stato svegliato da qualcuno, come quando si viene scossi leggermente per una spalla. È una differenza difficile da spiegare, dice all’amico, ma è chiara, e l’amico annuisce, lo sa.
Pur non avendo mai avvertito una sensazione di minaccia, S. non può non riconoscere l’accumularsi di una serie di episodi che contribuiscono inevitabilmente a farlo sentire, se non un estraneo in casa sua, quanto meno in compagnia di qualcosa di molto invadente. Si tratta sempre di segnali di poco conto, come dire, nulla che abbia il potere di minacciarlo, e tuttavia in grado di infastidirlo e di confonderlo. Gli capita, dopo notti in cui il vento ulula in maniera innaturale (ma non riuscirebbe a essere più preciso), di trovare tutte le lampadine bruciate, anche quelle nuove, la casa precipitata in un’isterica penombra. Di trovare gli specchi del bagno rotti al mattino, ma i loro cocci raccolti addosso al muro, quasi ordinatamente. Oppure che in certe stanze i mobili siano stati spostati. L’amico si mostra scosso sentendo quell’enormità, ma S. ridimensiona subito: non nel senso di intere stanze a cui è stato cambiato l’ordine dei mobili, ma un divano spostato avanti o indietro di mezzo metro, il letto allontanato dalla testiera, i contenuti di due cassetti invertiti… O almeno gli pare.
Una volta, racconta S., si è assentato per diversi giorni, certo di avere chiuso porte, finestre, imposte con dovizia e attenzione, e quando è tornato ha trovato la finestra dello studio (una sala non molto grande dove tiene qualche libro e sbriga la contabilità e il poco lavoro che gli avanza dall’ufficio) spalancata e la stanza invasa, nonostante la stagione fredda, da insetti che ronzavano a sciami sul livido sfondo del tramonto, da lunghe scie di lumache. Una pianta, gli era sembrato prima di precipitarsi a chiudere la finestra e a spazzare le foglie dal pavimento, era come se stesse insinuando il suo ramo all’interno.
Mentre parla, S. continua a essere imbarazzato, perché si rende conto che il contenuto del suo racconto suggerisce, prima che la presenza di uno spettro, che lui stia perdendo la ragione – o perlomeno un suo esaurimento nervoso, una sorta di manifestazione del trauma del divorzio. Quasi per assecondare questo pensiero che, lo sa, è già penetrato nella testa dell’amico, si affretta a specificare che ha svolto delle indagini per verificare se il delitto mostruoso che ha visto nello specchio si è effettivamente compiuto, andando quindi a chiedere con circospezione al comune e ai locali, e consultando i vecchi giornali nella piccola e muta biblioteca del paese, ma non è riuscito a trovare nessuna informazione a riguardo. Con un po’ di perplessità, un giorno, dopo l’ennesima manifestazione che lo aveva gettato in uno stato di inquietudine, è anche andato a perlustrare il bosco, stringendo il bavero della giacca intorno al collo per difendersi dal vento gelido, convinto di trovare la sepoltura dello spettro che viveva in casa, ma non ha trovato nulla. Persino la coincidenza tra le apparizioni e lo spettro, che lui identifica con la donna, è disposto ad ammettere che sia completamente arbitraria.
E tuttavia, dice S. per concludere, a dispetto dell’apparente insensatezza del suo racconto, e a dispetto del fatto che, se ne rende conto benissimo anche lui, tutti questi fenomeni sono tranquillamente spiegabili a livello psicologico, cionondimeno lui percepisce chiaramente una presenza estranea nella casa: o meglio, percepisce che la casa stessa in qualche modo è diventata una presenza estranea, che non è più la casa dove ha vissuto serenamente per un anno.
L’amico tace, portando lo sguardo alla cucina, al tavolo troppo ingombrante e agli utensili raffazzonati e spaiati. Poi, non sapendo cosa dire, chiede a S. di fare un giro della casa, e questi acconsente e fa per alzarsi, ma l’amico specifica che preferirebbe farlo da solo. S. non dice nulla, fa cenno di sì con la testa, a significare che capisce. Uscendo dalla cucina, l’amico si rende conto di quanto sia illuminato fiocamente il resto della casa, e di quanto freddo faccia. Il corridoio che porta alla camera da letto è lungo e stretto e immerso in una penombra stantia, e, percorrendolo, l’amico guarda le poche stampe alle pareti, assolutamente di circostanza e, pensa, probabilmente appese dai proprietari precedenti. Una volta nella camera da letto, rimane per un po’ a ispezionare lo specchio, come aspettandosi di vedere a sua volta la scena descrittagli, o di trovare qualche interruttore che faccia partire l’apparizione, ma non nota niente di strano. Fa qualche passo per vederlo da vicino, rimane a osservarlo per un po’, ma non riesce a trovare niente che non vada. Apre e chiude due cassetti senza sapere bene perché, poi spegne la luce e si rinfila nel corridoio.
Il salotto è significativamente più piccolo di quanto si aspetta – uno studio, più che altro, con un divano e una poltrona sfondati, un largo televisore, un caminetto annerito. L’amico si fa distrarre un po’ dai libri sugli scaffali, piuttosto nutriti, poi si volta verso la televisione. Nel riflesso dello schermo spento osserva a lungo il corridoio alle sue spalle, ma nessuna figura vi striscia attraverso, nessun profilo spettrale. Il corridoio, però, mentre torna in cucina, gli sembra leggermente più freddo e più scuro di prima, e affretta il passo: è solo una casa vecchia e umida, un po’ triste, si dice, non particolarmente accogliente.
Quando torna in cucina, S. lo guarda speranzoso, come per chiedergli una conferma dei suoi dubbi, ma l’amico è costretto a deluderlo: la casa non sembra avere niente che non vada, non gli pare abitata da nessun altro. S. abbassa gli occhi e annuisce in silenzio. Vedendo che non reagisce, l’amico gli chiede cosa pensa di fare, e S. risponde che non lo sa, per ora gli ha fatto bene parlarne, e spera che, se questi fenomeni sono dettati solo da qualche suo turbamento, averli raccontati possa dissiparli. Se così non fosse, chissà, magari un prete, o magari traslocherà, aggiunge con un sorriso stinto.
Una volta alla macchina, prima di salire, l’amico si volta a salutare S., che è rimasto sul pianerottolo. Lo vede, in piedi davanti alla porta, sollevare stancamente un braccio in segno di saluto, poi voltarsi a destra e a sinistra, come cercando qualcuno o rintracciando un suono. S. rimane in un leggero stato d’allarme: poi rientra in casa, e l’amico parte.
Le strade di montagna sono ormai quasi buie, e le cime degli alberi tagliano la penombra in figure inquietanti. L’amico, guidando, ripensa alla visita, e al disagio messogli dalla storia di S.; ripensa alla normalità, allo squallore perfettamente ordinario della casa, e contemporaneamente alla serietà di S. nel raccontargli tutta quella vicenda sconclusionata, e riflette poi sull’importanza che ha il rito come insieme cosciente di abitudini nel delimitare gli spazi che abitiamo e nel delineare la nostra persona. Quindi entra in una galleria e scompare, e noi con lui.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 26 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.