La gestione delle distanze
di Paola Moretti

Ha dei glitter dorati nelle pieghe intorno agli occhi che le si formano quando sorride. Mi sta abbracciando. È minuta. Profuma di shampoo e nonostante le orecchie a sventola è carina. Ma non so chi sia.
Annuisco alle sue parole anche se non le sento. Il volume della musica è troppo alto. Mi ricordo di lei, era in coda dietro di me. Arriva Diane e me la presenta. Non capisco, ma sorrido. Nessuno si ricorderà di me, tanto. Né io di loro, forse. Diane la conosco. Non li mette più i glitter. Invece l’MD le piace ancora. Mi tocca e mi parla in continuazione. Ha i palmi sudati e un occhio che le pende leggermente verso il naso. Guardo le sue labbra muoversi. Sono umide, carnose, di un rosa che mi fa invidia. Non si chiudono mai, anche quando sta zitta, rimangono aperte in un sorriso beota, che si tende a tratti.
Mi sta presentando uno a uno i membri del suo gruppo, sono australiani e inglesi. Hanno tutti le pupille larghe e quando mi guardano sembra che fissino un punto dietro la mia nuca. Ci tengono a dire ognuno una frase gentile, si sa che gli anglosassoni sono campioni di small talk. E io mi chiedo che bisogno ci sia, tra dieci secondi mi farò inghiottire dalla folla e voi non vi ricorderete che faccia ho. Ballano in cerchio, mi tengo al perimetro esterno, distaccata.
Diane mi cerca con lo sguardo, si assicura che stia bene, che mi stia divertendo. Indossa una sottoveste di raso, dello stesso colore della sua bocca. Crea un bel contrasto sulla sua pelle scura.
Viene a toccarmi, abbracciarmi, controllare che io sia di carne. Le sorrido senza mostrare i denti, senza interrompere le danze. Mi chiede se voglio seguirli in bagno, dico che li aspetto qui. Appena si diluiscono nella fiumana mi sposto. Finalmente sola, posso iniziare la mia routine. Vado nell’angolo destro della sala, davanti alle casse, di fianco alla consolle. Cerco se c’è il gruppo di italiani male di cui conosco qualche membro. Proseguo verso il bar. Rallento. Mi muovo cauta, cercando di non sbattere contro nessuno. Schivo, liscio, aspetto che spostino il peso per aprirmi un varco, mi infilo negli interstizi tra spalle e bacini. Come un topo che schiaccia lo scheletro per passare nelle cavità più strette. Sono ancora lucida. Sono molto agile. Mi muovo come un mattoncino di tetris tra i danzanti – mai dritto per dritto. Riesco ad arrivare alla meta. Mi metto verso l’estremità del bancone, dove fa una curva. Guardo intorno con più calma, qui le luci non sono intermittenti. Sono seduta anche se non sono stanca, ho fatto solo il primo giro di ricognizione. Chiedo una birra. Ho bisogno di sciogliermi. Al primo sorso mi pento. Al secondo va meglio. Ruoto sullo sgabello e appoggio i gomiti sul marmo del ripiano. Con la testa seguo il ritmo della techno. Sento che la fronte si distende, il viso si rilassa. Forse accenno un sorriso. Finché lo vedo e torno seria. Ha una maglietta bianca. Penso che solo gli etero mettono magliette bianche in questo posto. Ma forse è una cazzata. Penso cose stupide per distogliere l’attenzione dalle sensazioni. La scommessa del «ci sarà o non ci sarà» l’ho vinta io. Ora però non ho più l’aspettativa a tenere alto il livello di adrenalina. Mi giro di scatto, convinta che guardandolo troppo a lungo mi noterà. Torno a guardarlo perché tanto era un’altra cazzata. Sono a tre metri di distanza in un locale gremito. Comincio ad agitarmi, a eccitarmi. La birra, di colpo, la bevo molto più in fretta. Quando è finita mi alzo e vado verso di lui, per salutarlo. Carica, per le infinite possibilità di interazione che mi si prospettano. Gli sono vicina, ma non mi vede. Non me la sento e passo oltre. Mi sono immaginata mentre cercavo di allontanarmi il prima possibile per non farmi notare, ma rimanevo intasata nella folla a pochi centimetri da lui. Presa dal panico prendo le scale. Scendere è l’opzione più sicura. I miei passi sono pesanti sui gradini di metallo. Fanno stunc stuncstunc, come i kick della traccia, come i battiti del cuore. Giù c’è un altro bar, una zona più tranquilla. Prendo un altro drink, una bibita energizzante al mate. Controllo i bagni, la fila è troppo lunga. Vado agli altri, ma cambia poco. Non è ancora urgente. Salgo le scale e lo trovo lì, appoggiato alla ringhiera alla mia sinistra. Me ne accorgo in tempo e giro rapidamente a destra, altri corpi mi fanno scudo e mi nascondono. Tutto è più istintivo qua dentro. Gli sono passata a quindici centimetri e non mi ha vista. L’ho fatto altre volte, evitare qualcuno per tutta la notte. Le circostanze lo rendono possibile. Il buio, i giochi di ombre creati dai riflettori. La musica forte. La folla. L’alterazione. Torno al bancone. Mi nascondo nel mio angolo preferito. Su un poggia-culo dietro a una colonna, vicino all’estintore. Finirò la mia bevanda. Mi rendo conto che non ho ancora fumato quindi lo faccio. E intanto lo guardo. Con chi è. Cosa fa. Come sta. Mi avrà intravista e finto? In altre occasioni è successo. Prima di buttarlo per terra lo guardo, il mozzicone. Ha il timbro ciclamino del mio rossetto. Mi alzo e cammino veloce verso di lui. Qualcuno mi intercetta. Un uomo, carino. Interrompe la mia traiettoria. Non mi ricordo esattamente chi sia. Parliamo del nulla. Annuisco e sorrido, ma non perdo di vista il mio obiettivo. Mi smarco rapida. Gli arrivo vicina in un attimo. Mi fermo a pochi centimetri dal suo corpo, paralizzata dal libero arbitrio. Ha la testa girata verso l’altro lato. Aspetto, passiva. Mi vede. Fa una faccia sorpresa. Nello stesso istante ci muoviamo l’uno verso l’altra e ci abbracciamo. È bello. Mi dice che dopo il messaggio che gli ho mandato non pensava sarei venuta. Alzo le spalle. Ho una faccia contenta, lo sento. Non so cosa dirgli. Gli resto intorno per qualche momento. Poi dico che vado a cercare Diane. Per fargli capire che non sono lì sola. E per togliermi da quel primo imbarazzo. Lui annuisce, sembra deluso, ma forse sono io a interpretare. Non gli do tempo di dire o fare nient’altro. Sono già lontana. Cammino sul ballatoio di metallo con passo sicuro. Sorpasso i bagni. Salgo le scale. Vado subito nello spazio chill-out, salendo un’altra rampa. È semivuoto, è ancora presto. Raggiungo il dancefloor del secondo piano. Probabile che ci troverò il gruppo anglofono. Per farlo sfilo davanti alle alcove. Sono tutte occupate. Aggiro il bancone a L. Non mi soffermo troppo sui visi conosciuti, nel caso anche loro mi riconoscessero. Guardo fuori dai finestroni, ma solo per un istante. C’è ancora luce fuori. Non entro nella calca, la musica non mi piace qui. Intercetto Diane, dico alla mia amica che ho incontrato Piotr.
«Sapevi che sarebbe venuto?»
«No» mento.
«Ti dà fastidio?»
«No.»

«Per qualsiasi cosa vieni da me.»
La ringrazio e le dico che non penso ce ne sarà bisogno. Faccio dietrofront e torno giù. Cammino lungo il perimetro sinistro della pista, dove si ammassano uomini con pochi vestiti addosso. Qui l’odore è acre, il sudore prepotente.
Non ho ancora iniziato a ballare per davvero. Vado nel mio posto, davanti alla consolle, spostata a destra. Non sono pronta a tornare da lui. Ma ho perso la tranquillità. Mi accorgo che lo sto cercando con lo sguardo, sento la pelle all’erta. I pori dilatati, i peli ritti. Comincio a vagare per il piano, come un cane abbandonato all’area di sosta di un’autostrada. Con poca intelligenza batto i luoghi in cui andrei io, che non sono quelli in cui andrebbe lui. Torno a ballare. Non sono calma. Cerco di lasciarmi andare. Di sentire le vibrazioni che entrano dalle narici e si espandono nelle intersezioni tra le costole. Le ginocchia da rigide si fanno più cedevoli, i movimenti dei fianchi più morbidi. Chiudo gli occhi, ma sono ancora troppo vigile. Ballo meglio quando sono vicino all’oggetto del mio desiderio. Quando immagino di essere guardata. Quando voglio attirare la sua attenzione. Da femmina ho interiorizzato lo sguardo del maschio, ma l’idea di averlo puntato sul mio corpo, qui, non mi inibisce. Delle mani si appoggiano sui miei fianchi, mi giro sorridendo, convinta che sia lui. Mi sbaglio. Scuoto la testa e lo sconosciuto lascia la presa. Alzando le mani in segno di pace. Mi sposto. Faccio un altro giro di ricognizione. Non lo trovo. Comincio a innervosirmi. La pista si riempie. Faccio un altro tentativo a vuoto. Prendo il telefono per controllare l’orario. C’è un suo messaggio su WhatsApp. Dove sei? È di tredici minuti fa. Potrei continuare a cercarlo per incontrarlo casualmente. Gli scrivo: Vienimi a prendere al bancone. Mi godo la resa, l’ammettere di averne bisogno. Risponde subito. Dove esattamente? Temo di dover aspettare. Invece si presenta dopo pochi minuti. Mi si allarga la cassa toracica, vittoriosa. Ha un’espressione contenta quando mi vede, imbarazzata quando si ferma davanti a me, leggermente disorientata prima di rimettersi in movimento. Mi prende una mano, mi porta tra i suoi amici. 
«Hai trovato Diane?» mi chiede. Gli dico di sì. Lui mi domanda dov’è. Gli rispondo che è con il suo gruppo.
«Sono cinque ventenni inglesi impasticcati. Parlano un botto.» Ci spostiamo tutti verso il bar. Mi presenta gli altri. Ora sono in mezzo a trentenni italiani fatti di coca. Mi sento molto più a mio agio. Piotr, nonostante il nome e i capelli – chiari, come tutto il resto – è cresciuto a Verona. Di suo padre non so niente, ma sospetto sia lui quello straniero. Prendo un’altra birra, anche se non mi va. Rimaniamo io e lui. Ci guardiamo negli occhi. Non sappiamo che dirci. Infila l’indice sotto alla bretella del mio body e la fa scivolare lungo la spalla. Io non faccio niente per impedirglielo. Sono consapevole che il tessuto è talmente aderente da non staccarsi dalla pelle. Noto sul suo viso un moto di stizza. Tiro su la spallina. Afferra un po’ di stoffa vicino al fianco, la tira su, senza risultato. Continuo a fissarlo, con un’espressione che credo sia tra l’indifferente e il divertito, ma in realtà non lo so. La mimica facciale è qualcosa che sfugge al mio controllo. Mi tasta lungo la coscia, il sedere, strizzato in un paio di jeans neri. Lo fa in modo più medico che sexy, ma è comunque una scusa per toccarmi.
«È un body» gli dico.
«È quello che stavo cercando di capire.» Mi scruta, studiando forse una strategia. Torna alla bretella. La prende tra pollice e indice e la tira giù con più forza, i miei riflessi sono pronti. Metto una mano sul seno che rimane coperto.
«Piantala» gli dico.
Torniamo dagli altri. Anche loro vogliono conversare. Forse sono io l’unica non interessata alla comunicazione verbale. Piotr mi conosce. Piotr lo sa. Ma non interviene. Non so se provi gusto nel vedermi in difficoltà o se provi gusto nel vedere il desiderio trasformare le facce degli altri. Vogliono sapere cosa faccio, da dove vengo, cosa penso. I miei occhi tornano sempre a lui, che ci osserva distaccato, cambiando espressione, dal sarcastico all’infastidito. Forse non sembro a disagio. Qui mi piace essere il centro dell’attenzione. Più di tutto mi piace essere il centro della sua attenzione.
«Scusa, ti sto facendo un interrogatorio» mi dice uno dei due amici.
Sorrido a bocca chiusa, colgo l’occasione per fare un passo avanti, verso Piotr. Guardo il suo petto, che si intravede sotto la maglietta. Guardo i suoi fianchi dritti e duri. Guardo le sue gambe snelle. Guardo le spalle, piccole e famigliari. Mi avvicino ancora. Inclino la testa verso l’alto per guardarlo in faccia. Fa una smorfia che non riesco a decifrare. È fatto. Mi poggia entrambe le mani sulle spalle, balliamo così per qualche secondo. Chiudo gli occhi. Fa scivolare le bretelle lungo le mie braccia. Per un attimo mi scordo dove siamo, che ci sono altre persone, lo lascio fare. Sento che mi sta scoprendo. Lo fermo quando capisco che, fosse per lui, andrebbe avanti.
«Dai» dico.
«Fatti vedere.»
«Guarda le altre. È pieno di tette qua.»
«Voglio vedere le tue.»
A fianco a me c’è una ragazza che balla in topless, indossa delle mutande a vita alta, delle scarpe con la zeppa.
«C’è lei» gli dico, indicandola con un cenno del mento. Lui la guarda, poi dice: «Vinci tu».
Scuoto la testa con fare forzato da bacchettona. La sua insistenza mi rassicura.
«È una crudeltà tenerle coperte. Fai un favore a tutti, spogliati» mi dice.
«Finiscila.»
Lo aggiro e faccio qualche passo in avanti, verso il centro della pista. Riprendo a ballare. So che mi guarda, so che è dietro di me. Muovo le spalle in piccoli otto da destra a sinistra, lentamente. Di conseguenza i miei fianchi le seguono, ma alternati. Se la spalla sinistra va verso l’esterno, lo fa anche il fianco destro. Il sedere si muove piano e tondo. Così come la testa. La musica è sensuale. Calda, martellante, profonda. Come un amplesso. Sono i bassi a decidere le mie mosse. La traccia cambia, è meno veloce, meno spigolosa. La schiena si inarca, il petto si muove a onde, in avanti. Il bacino lo segue in delay. Il collo si stende, si flette, lascia scoperta la pelle bianca, illuminata dalle strobo. Sento le sue labbra appoggiarcisi sopra. Ho gli occhi chiusi e continuo a ondeggiare. Lo lascio fare. Le sue mani, mi accompagnano nei movimenti. Le mie, tra i suoi capelli rasati e fitti, scorrono sul cranio duro. Mi stringe a sé, il mio corpo diventa così esile avvolto dal suo. Mi prende i seni tra le mani, incrociate sul mio petto. Ci entrano bene, anche loro sono piccoli. Non li stringe, non li strizza, li soppesa. Con tenerezza, sono qualcosa che conosce. Si aggrappa alla mia pancia. Non siamo bravi a parlare, io e lui. I nostri corpi però si sono sempre capiti bene. Cedo un po’ all’indietro. Aderisco ai suoi confini, tutti, non c’è niente di noi che non si tocchi. Sento il suo uccello duro premermi contro il culo. Penso che starei così all’infinito. Mi stacco. Torna in me della rigidità, faccio un passo avanti e continuo come se niente fosse. Come se un secondo prima non avessi voluto liquefarmi tra le sue braccia e risolidificarmi con lui, come i morti di Pompei. Come lava sono anche io, le mie guance – fa caldissimo. Vorrei togliermi il body. Non posso dargli questa soddisfazione. Lo sento allontanarsi, perdere la concentrazione. Mi sento tradita e sollevata. Mi raffreddo un po’. Torna dopo poco a dirmi di andare in bagno con loro. In fila i suoi amici ci guardano. Non stiamo spesso tra la gente, ma è qui che l’intesa diventa evidente. Le battute che fanno ridere solo noi. Gli atteggiamenti del corpo, tutti tesi l’uno all’altra. Il sorriso a fior di pelle. Le offese velate. Il desiderio spinto giù, in fondo fino ai calzini. Gli amici sembrano il poliziotto buono e il poliziotto cattivo. Uno che vuole sapere di me, fa domande gentili, interessate. Uno che vuole sapere con Piotr cosa c’è, stuzzica, provoca, è interessato. Essere evasiva, elusiva, mi riesce sempre bene. Entriamo in quattro nel cubicolo. Il caldo è supremo. Il buono e Piotr prendono il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans. Mi chiede di tenergli il drink. Ogni scusa è buona per sfiorarci. Annuso il bicchiere e lo guardo schifata. Lui alza le spalle. Nessuno ci presta attenzione. Il cattivo sta pulendo lo schermo dello smartphone. L’altro ha tirato fuori una bustina da una tasca minuscola del portafogli. Piotr estrae due schede.
Sempre il buono chiede quante ne fa. Piotr mi guarda, poi risponde tre, senza distogliere gli occhi. C’è un attimo di pausa in cui i due cercano di capire la situazione, mi guardano, ho l’aria tranquilla. Il buono mi chiede se non mi drogo. Gli dico che no, in genere no. Mi chiede com’è allora che mi accompagni con un tipo come Piotr.
«Non sono brava a scegliere le compagnie.»
Versa il contenuto della bustina sul telefono, picchiettandone un lato con l’indice. Dei granelli bianchi scendono come piccole frane sulla superficie nera e lucida. Piotr porge le schede al buono. Con una di esse tritura le roccette. Con l’altra fa scendere la polvere che le è rimasta attaccata. I movimenti sono gli stessi di quando si deve ammorbidire lo stucco prima di riempire un buco nel muro.
Ripete l’operazione svariate volte. Chiedo se gli sia mai successo di starnutire nel mentre. Il cattivo dice che ecco, gliel’ho tirata. Piotr sfila dalla tasca tre cannucce nere ridendo. Ne fa rotolare una tra indice e pollice, come se fosse una banconota da rendere tubolare. Mi vibra il telefono nella tasca anteriore dei jeans. Lo prendo e sullo schermo che lampeggia c’è scritto Mamma.
«Che fai non rispondi?» mi chiede il buono. Non c’è traccia di ironia nella sua domanda, benché sia divertito. Scorro l’indice sul cerchio rosso.
«Non mi sembra il caso.»
Mi sono persa il momento in cui venivano assemblate le righe. Ci sono tre mucchietti filiformi sullo smartphone.
«Sì, però mandale un messaggio. Fa’ che si preoccupa.»
Mettendo via il telefono, ci penso. Ha ragione. Mentre digito sento due che tirano. Il buono mi chiede cosa le ho scritto massaggiandosi una narice.
«Sono in giro. Ti chiamo domani. Baci.»
«Telegrafica» mi dice.
Piotr si piega verso il cellulare che funge da pianale. Si tappa una narice con l’indice, nell’altra ci ha infilato la cannuccia. Inspira forte mentre la fa scorrere sulla superficie. Avanza un segmento. Apre la bocca e il movimento della mandibola non sembra essere molto fluido. Mi porge la cannuccia. La giro dall’altra parte e finisco la botta. 
Il cattivo tira fuori una sigaretta dal pacchetto di Pall Mall rosse, la mette dritta davanti alla mia faccia.
«Leccala» mi dice. Lo fisso. Cercando di capire che cosa voglia davvero. Rapida, di sbieco, guardo Piotr che mi fissa. Tiro fuori la lingua e con la punta accarezzo la carta. La bagno poco. Ripeto il movimento appiattendo la lingua, facendo aderire bene la sigaretta alla sua superficie. È bagnata abbastanza. Il cattivo struscia la sigaretta sullo schermo.
Puliscono tutto, telefono, schede, nasi. Mettono a posto. Si guardano in giro per vedere di non aver perso niente. Si guardano tra loro per vedere di essere tutti pronti. Girano il chiavistello, si dispongono goffamente per uscire e vedono che io non mi muovo. Piotr si gira verso di me e gli dico che devo pisciare. Gli altri escono. Una parte di me spera che Piotr rimanga dentro, l’altra parte sa che se lo facesse sarebbe finita. Esce, dopo avermi detto che mi aspetta davanti all’ingresso dei cessi. Mentre abbasso le mutande le sento umide.
Fuori dal bagno c’è Diane, che mi nota, nota anche il mio sguardo guizzare verso Piotr. La mia frequenza cardiaca sembra accelerare. Lei si gira verso di lui e lo saluta. Mi avvicino anche io. Le mie gengive pizzicano.
Gli dice che le sembrava di averlo visto prima, ma che non era sicura. Conversano. Mi fa strano vederlo socievole. Ho voglia di bere. Facciamo per andarcene, sento una mano stretta attorno al polso. Mi giro, Diane mi fissa seria: «Tutto ok?» Affondo il mento nel collo in un solo gesto, come a renderlo solenne e convincente. Lascia la presa. 
«Ci vediamo dopo» le dico.
Piotr si è fermato qualche metro più avanti. Mi prende la mano e tira calibrando male la forza, gli finisco addosso e non mi sposto. Basterebbe che allungassi un minimo il collo per fare il solito sbaglio. Gli fisso le labbra tradendo quello che penso. Sbaglierebbe con me volentieri, ne sono sicura. Mi conduce al piano di sopra. Tra una rampa e l’altra si ferma, si appoggia alla ringhiera, mi avvicina a sé. Mi mette in mano il telefono e mi chiede di rispondere a un messaggio. Non ce la fa in questo momento. Lo faccio. Con un’aria scocciata per la quale non ci sarebbe motivo, se non che in questo nostro gioco, la negazione mi viene più naturale che non il dare. Raggiungiamo gli altri al bancone, ci porgono cicchetti di vodka. Lui mi sfila una bretella e io la lascio lì penzoloni, tanto il body rimane incollato. Gli altri vogliono andare su e io dico che no, la musica mi piace più qua. Piotr rimane con me. Mi chiede se gli faccio vedere le tette, per favore. Gli chiedo perché ci tenga tanto. La risposta in realtà non mi interessa. Lui me la dà comunque, ma non funziona. La mia è una presa di posizione. La sua non lo so, forse fissazione. Balliamo e di nuovo torno primitiva. Le viscere sembrano ribollirmi in fondo alla pancia, le gambe sono forti e molli allo stesso tempo. Fa caldissimo, sento il sudore scendere sullo sterno, bagnare il body. Sulla schiena si allarga piano un cerchio più scuro, umidiccio, lo sento.
«Se te lo togli tu, me lo tolgo anche io» mi sussurra all’orecchio.
Mi piacerebbe vedere il suo petto sudato, appoggiarci i palmi, la faccia, la lingua. Gli dico che non mi interessa. Balliamo spalla a spalla. La nostra relazione ora è una continua gestione delle distanze. Ci guardiamo, lui mi sorpassa e anche da dietro è uno spettacolo. Approfitto del fatto che lui sia di schiena per cambiarmi velocemente. Nei club ci vado equipaggiata. Faccio scendere il body e lo lascio pendere sopra i jeans. Mi infilo una t-shirt corta, larga e semitrasparente. Si respira. Lui si gira.
«E questo quando è successo?»
«Ora.»
«Cioè me lo sono appena perso?»
Annuisco ridendo, lui squadra la mia figura tutta. Mi alza la maglietta sollevando l’orlo con l’indice. Glielo lascio fare. Mi sfiora l’ansa del seno mentre continuiamo a ballare. Sento il mio desiderio staccarsi da me e andare incontro al suo. Creare un campo magnetico in quei pochi centimetri che ci separano. Siamo uno davanti all’altra sembra da ore. Mi guarda negli occhi, con dolcezza, con ferocia. Con terrore. Mi guarda negli occhi perché mi vuole. Mi bacia. Faccio in tempo a sentirne il sapore salato, poi mi sottraggo. Lui ci riprova, in buona fede, con meno foga. Mi sottraggo ancora. Gli dico no, guardando per terra. Gli dico no, guardandolo in faccia. Stiamo fermi mentre intorno a noi tutto si muove. È una scena già vista. Le luci, la gente, l’aria, le superfici. Tornano i suoi amici. Si volta verso la consolle e riprende a ballare. All’improvviso mi pento. Gli appoggio le mani sulle spalle, il contatto, lo voglio. Lui le prende tra le sue, mi muove come una marionetta al contrario, avvolge le mie braccia intorno al suo torace e per un po’ stiamo così. Abbracciati. Memori di quello che siamo stati.
Ho la guancia contro la sua scapola e non la vorrei staccare.
Gli dico che devo tornare a casa.
«Adesso?» Faccio sì con la testa.
Mi chiede se voglio che mi accompagni.
«Come vuoi» rispondo. Avrei preferito l’onestà monosillabica di un sì. È bello cedere.
Lui viene fuori dal dancefloor. Lo porto al mio nascondiglio. Glielo rivelo. Ci fumiamo due sigarette di fila, come se avere qualcosa da fare fosse la scusa necessaria a non farmi andare. Mi stiracchio contro la colonna come un gatto che si rifà le unghie. Lui mi accarezza la schiena, poi spinge tra le scapole come a volermi spezzare. Gli accarezzo la testa, appoggio la mia sulla sua spalla. Mi fa il morso dell’asino, come quando mi voleva bene davvero. Sussulto. Mi raddrizzo. Gli tolgo una ciglia caduta vicino al naso.
«Non che voglia che vai, ma…»
Non lo faccio finire e dico sì, che è ora.
Mi accompagna alle scale. Io scendo un gradino e poi mi volto a guardarlo. Si staglia come un Cristo tra le luci e il fumo artificiale. Io sono una Maddalena che non si dispera. La crocifissione l’abbiamo già vissuta. Vedo la sua bocca muoversi. Le sue labbra belle, piene. Penso a cosa sarebbe successo se non mi fossi tirata indietro. Avremmo ricominciato tutto da capo, condannati a ripeterci ad infinitum. Oppure la terza è la volta buona. Avremmo capito come stare vicini senza ferirci. Il dislivello che ci separa sembra insormontabile. Sta ancora parlando. Le sue parole mi arrivano attutite e lievi, come se avessero viaggiato attraverso mille galassie prima di raggiungere me.
«Deve esistere un universo parallelo» dice, «in cui siamo una coppia e siamo felici.»

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 26 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.