Mentre muore Moni Nascosto
di Lyuba Centrone

Eccomi qua, Moni Nascosto, mentre muoio nella clinica «Casa del Sole» per un’ischemia cerebrale il giorno dopo aver battuto a scacchi Giovanni. Il mio nome, lo so già, è il motivo per cui ci metteranno qualche giorno a dimenticarsi di me. È stata una bella trovata quella di mio padre. Io, però, l’ho capito tardi. Verso i sei o sette anni ho chiesto a mia madre Carmela di cambiarmelo, o almeno di darmi un soprannome. «Cambiamolo in Pasquale, Antonio, Giuseppe… anche Gioacchino va bene, tutti sono meglio di Moni, mamma.» Ma mia madre era una donna troppo prudente e mio padre, nemmeno a dirlo, «Tu sei Moni e basta». Fortuna che non ricordo il giorno del mio battesimo. Mia madre mi ha raccontato che non avevo versato una lacrima al contrario di tutti gli altri bambini perché ero un figlio di Dio come si deve. Io, invece, ho sempre pensato che fosse per non attirare ulteriormente l’attenzione e difatti, che non fossi un figlio di Dio come si deve, se ne sono accorti tutti qualche anno più tardi. A scuola ero per tutti Moni, la mona nascosta, e sai che vergogna per tutta l’adolescenza. Poi all’università ero Moni, la monade nascosta. Progresso poetico. Forse lì ci presero abbastanza i miei amici, almeno, così ricordo di aver pensato.
Quando mio padre morì me lo disse perché mi aveva chiamato così, anche se io non ci capii niente: «Moni era un re». E chi lo sa se era vera o no quella storia del re. Ero già cieco da un anno e non ho mai imparato a leggere da quei cosi bucherellati che hanno un nome difficile già a pronunciarlo. Si può dire che da quando sono cieco, sono anche analfabeta e se non sai leggere devi per forza rinunciare a sapere un sacco di cose. Moni era un re e basta. Così disse mio padre.
Ops, vengono a mettermi il lenzuolo sul corpo. Il lettino è un po’ stretto e fa un pochino freddo. Ma tutto sommato si sta bene. Coperto dal lenzuolo devo sembrare un re davvero bello. Spero mi sistemino bene le braccia, voglio morire ordinato. Ecco l’infermiera. Che fa? Mi pulisce il sedere? Scusi, scusi signorina. Che figura, proprio oggi che son morto. La prego signorina mi perdoni, mi perdoni tanto. Deve essere stato quando mi sono sentito scoppiare all’improvviso. Che caldo che ho sentito tutto a un tratto. E chi ci ha capito niente. Dell’odore non me ne sono accorto, in quei momenti uno non è che sta attento all’odore… Ma perbacco, forse non sono ancora morto, la signorina mi ha appena detto: «Non si preoccupi, è normale». Non l’avrebbe detta a un morto questa frase. Forse sono quasi morto e quasi vivo o forse non sono più io.
Sono diventato cieco per colpa della pressione alta. Anno per anno ci vedevo sempre meno, fin quando un bel giorno non ci ho visto più. Ero un architetto, così dicevo. Ho dovuto lasciare tutto. Studio, casa, macchina. Tutto. Sono tornato a vivere dai miei genitori furioso come una bestia. Urlavo tutto il giorno, tiravo calci alle cose sulle quali inciampavo, picchiavo anche quella santa donna di mia madre. Dio mi perdoni per tutto questo. Ehi tu, Dio, non ci ho mai creduto che esisti, ma tu perdonami lo stesso. E poi, tu ci credi a quelli che non hanno mai avuto dubbi su di te?
Dicevo della mia rabbia. Sì, una rabbia incontrollabile. Mia madre l’ho mandata all’ospedale per due volte. Una volta le ho scaraventato contro il Rolex che voleva farmi mettere il giorno del funerale della buon’anima di suo padre, mio nonno Saverio, detto Lo Scrofone. Cinque punti sulla fronte. Un’altra volta l’ho messa sotto nel tentativo ridicolo di tirare fuori la macchina dal garage e fuggirmene via. Trauma cranico e gamba rotta.
Quando funzioni bene il tuo diritto più prezioso è annoiarti. Guardi la tv, leggi un libro, esci a farti una passeggiata. Da cieco invece cosa fai? Immagini e l’immaginazione non sai mai fin dove può farti arrivare. Dopo i primi tempi, mi ero guadagnato l’unanime reputazione di demonio, tanto che mia madre pensava che la mia malattia fosse proprio la manifestazione di qualcosa di maligno. Pur di non avermi in casa, mi iscriveva a tutte quelle associazioni di beneficenza che imballano gruppi di disperati e li spediscono in pellegrinaggio ovunque, tutti con la ricevuta di ritorno. Nel giro di due anni ero stato a Nizza, al santuario di San Michele, Assisi, l’eremo di Camaldoli, Rimini, Napoli e in tutte le parrocchie della diocesi di Trivento. Nel 1960 mi trovavo in vacanza in Sicilia. In quel periodo mi piaceva ascoltare la radio. Seguivo in particolare Radiosera e un altro programma leggero. Chissà come si chiamava. Ricordo anche che ascoltavo un radiodramma su Moby Dick a quei tempi. Su Radiosera o forse su quell’altro programma, o forse non so, un giorno sentii parlare della partita a scacchi tra Byrne e Fischer, annunciata come la sfida del secolo. Fischer, a tredici anni, aveva battuto Byrne. Forse fu per il modo con cui alla radio avevano raccontato la sfida o forse quel giorno ero particolarmente sensibile, fatto sta che mi commossi. Mi commossi per davvero e da allora diventai un fan di Fischer. Non solo, io volevo diventare proprio un campione di scacchi, così chiesi a Giovanni di aiutarmi. Giovanni all’epoca era un ragazzo timidissimo, grasso come un maiale e difatti veniva preso in giro da tutti. Noi ci volevamo bene e sapevamo benissimo che quei poveri cristi che ci accompagnavano in giro per l’Italia lo facevano solo per estinguere il debito di sensi di colpa che ognuno di noi, in un modo o nell’altro, si sente addosso, quindi eravamo restii ad affezionarci a chicchessìa. Preferivamo la gente che ci chiamava per quello che eravamo: un cieco e un maiale, e non quei miseri perbenisti che ci invitavano alle cene di beneficienza perché io ero un ipovedente e lui un tenero fanciullo sovrappeso. Era per questa ragione che passavamo un sacco di tempo insieme. Lo incaricai di comprare un manuale di scacchi che da allora in poi mi lesse tutti i giorni, fino a quando non diventammo abbastanza pratici da dare inizio alle prime sfide tra di noi. Giocavamo alla cieca, oppure normalmente. Alla cieca, però, ero io il più bravo. Vincevo ogni partita e non facevo altro tutto il giorno se non allenarmi. Mi esercitavo sulla bobina con la registrazione del match tra lo sconosciuto Fischer e il grande Byrne, tanto che potevo giocarla a memoria quella partita. E che partita ragazzi. L’errore di Byrne fu muovere per due volte l’alfiere sulla stessa diagonale e lasciare il re al centro scacchiera non arroccato. Il fatto è che Byrne aveva giocato con superficialità, invece Fischer non era lì solo per vincere, Fischer era lì per meravigliare. E cavoli se non lo meravigliò il mondo intero, con quell’alfiere in E6.
Così passarono i miei primi dieci anni da cieco, durante i quali anche mia madre Carmela se ne partì all’altro mondo e io rimasi solo, in santa pace, a godermi il diritto alla solitudine, tra i miei scacchi e la rincorsa a una donna di nome Margherita che lavorava come commessa nella pasticceria proprio sotto casa mia. Tuttavia, il risultato di quell’amore travagliato fu solo l’aggravarsi della mia emarginazione, ma di questo preferisco non parlare.
In occasione della sfida tra la squadra dell’URSS e il Resto del Mondo, Fischer accettò di mettersi da capo davanti alla scacchiera dopo otto anni di ritiro dalle competizioni internazionali. Era avvenuto che il torneo delle Antille del 1962 era finito con quei farabutti di Petrosjan, Keres e Geller che si erano accordati per finire le sfide tra loro in pari. Questo gioco meschino aveva fatto in modo che Fischer finisse quarto e, quindi, fuori dai campionati del mondo per almeno tre anni. Fu una cosa vergognosa e difatti Fischer per protesta si ritirò dall’ambiente che contava.
Comunque, dicevo, in occasione del grande ritorno del campione, io e Giovanni, che nel frattempo eravamo diventati discreti scacchisti, ma disperati, come sempre, avevamo organizzato un torneo con i campioni del circondario, più il campione italiano in carica Pietro Laino.
La sfida tra i russi e gli occidentali era un fatto che andava oltre gli scacchi. Ne parlarono continuamente, c’era gente che prendeva posizione, che sembrava conoscere la verità dell’universo, che non faceva altro che riempire il mondo di stronzate. Era il 1970 e quella, per tutti, era un’estensione della Guerra Fredda. Era come se tutte le bombe che gli americani e i russi non si erano lanciati addosso, le avessero conservate e affidate per quella resa dei conti a un gruppo di folli geni delle pedine. Io non tifavo per l’Occidente e nemmeno per la Russia. Io tifavo per il mio grande idolo: Bobby Fischer. Il risultato finale fu 20 ½ a 19 ½ per i sovietici. Ma a me non me ne fregava niente e non starò qui a ricordare i pecoroni che animarono un dibattito infinito. Se devo morire adesso, voglio morire sereno. A me importava solo che Fischer avesse battuto quel bastardo di Petrosjan e che io mi stavo per giocare la finale del nostro torneo contro Laino. Il giorno prima Laino aveva battuto Giovanni, ed è una cosa che gli rimprovero ancora a Giovanni. Aveva subito il peso della tensione e si era fatto sfuggire un sacco di possibilità. Comunque, ero felice di competere con il campione italiano. Giocammo a tempo e con una scacchiera per ciechi. Io avevo i bianchi e iniziai con un’apertura siciliana. A un certo punto, Laino gioca un pedone in D5 e io non potevo crederci. Mi aveva lasciato in pasto quel pedone come se fosse un giocatore alla sua prima partita. Iniziai a sospettare che volesse lasciarmi vincere. Così a un certo punto spostai il mio alfiere campo chiaro in A6, a palese minaccia del suo cavallo. Niente, Laino mosse ancora un pedone. Pazzesco. Se è vero che non sono ancora morto, ora mi torna l’ischemia e schiatto di sicuro. «Se lei crede che io non sia degno di giocare con un campione come lei, signor Laino, le tolgo il peso di dovermelo dire e abbandono da me. Se ne torni pure a casa con il suo trofeo. Ma ricordi: in questo mondo di barbari e commercianti saper giocare a scacchi è considerata una cosa senza alcun merito. E sa perché? Perché gli scacchi, se vengono maneggiati da ipocriti come lei, restano solo dei pezzi di legno!» Scaraventai il tavolo per terra, o forse me ne andai o forse Giovanni venne vicino a me e mi fece allontanare. Non lo so, non me lo ricordo. Comunque, da allora tutti mi acclamarono, diventai una specie di personaggio leggendario provinciale e marginale. Io mi opposi con tutte le forze e mi serrai in casa. Scomparvi, letteralmente. Tanto che alcuni pensavano che mi fossi addirittura suicidato, aumentando l’interesse nei miei confronti. Erano come dei cannibali, inferociti. Mi chiamavano al telefono per farmi delle domande, citofonavano a casa. Per fortuna Rosa, che da allora si occupa di me, è sempre stata una donna incredibilmente democratica e grazie a lei ho evitato di commettere qualche bestialità.
Basta, la finii con gli scacchi e pure con gli uomini. Mi nascosi, letteralmente.
Il fatto, però, è che uno deve prendersi le sue responsabilità. Anche quelle del silenzio. Anzi, soprattutto quelle del silenzio. Dopo qualche tempo fui dimenticato da tutti, sia da quelli che avevano solo sentito parlare di me, sia da quelli che avevano assistito al mio gesto di protesta. Solo Rosa e Giovanni mi restarono.
Intanto Fischer stava ferocemente soccombendo sotto il peso della sua grandezza. Nel ’72 si stava finalmente giocando la finale del campionato del mondo con Spasskij e alla fine per fortuna l’ebbe vinta, ma su di lui piombarono addosso macigni di critiche per il suo comportamento da arrogante. Io, dal canto mio, nonostante il passare del tempo, mica riuscivo a dimenticarmi quella storia. Nascosto in casa, solo come un pesce in un acquario, continuavo a provare odio nei confronti di Laino che per me era diventato come un mostro. Mentre io lo odiavo, però, lui se la spassava. E alla grande, direi. Vinceva a destra e sinistra, era perfino entrato nel novero degli scacchisti più bravi al mondo. A sentire quelle cose, avvampavo. Facevo sogni di ogni genere su di lui. Una volta sognai perfino di ucciderlo sparandogli un colpo in testa durante qualche partita importante. Oppure sognavo di inseguimenti assurdi in cui finivo per pescare un pugno di mosche.
Nei sogni ci vedevo sempre, ero giovane e piuttosto attraente. Ma chi speravo di agguantare se io Laino non lo avevo neanche mai visto in faccia? Una volta uccidevo di botte un uomo basso e grasso, un’altra rapivo un vecchietto senza capelli, una volta ho perfino sognato che Laino fosse una donna. La cecità ha questo di feroce: che non puoi amare o odiare altro se non qualcuno che non hai mai visto e non vedrai mai. Ami o odi delle presenze oscure. Che follia. La vista è la cosa che ti salva da te stesso, che ti distrae dal pensare, dal cadere nell’oscurità. Da quando sono cieco non faccio che inseguire creature un po’ inquietanti. Lei, per esempio, signore attempato con le mani grosse e pelose che ora mi sta toccando il polso, lei esiste o no? E come faccio a saperlo? Resto con il dubbio! Come faccio a sapere che lei ha le mani grosse e pelose? Ed esiste o no questo lettino su cui sono stato dimenticato da un po’? Esiste il freddo che sento salire dalla punta dei piedi fin su, negli anfratti dei nervi. E io, Moni Nascosto, esisto o sono un pensiero creato dai pensieri di qualcun altro? Forse sono Bobby Fischer o Pietro Laino. O forse sono tutti e due. Magari sono il re che entrambi, o tutti, inseguono sulla scacchiera. Mio padre aveva ragione, in effetti. Io sono un re e il mio regno è la coscienza. È vero papà?
Adesso, che strano. Che incredibile sensazione: tutti i volti che non ho mai visto, mi sfilano davanti. Benvenuti, prego accomodatevi. Eccolo lì, il proprietario della pasticceria in cui lavorava Margherita. C’è anche Rosa, la mia badante ed ecco il capitano Achab che mi sta salutando e mi viene vicino per darmi un bacio. Achab, oh amico mio, dove ti ha portato tutto il tuo navigare? Anche tu qui in questa stanzetta che sarà bianca o forse verdino chiaro. E Moby Dick, dove l’hai lasciata Moby Dick? Sarò forse io Moby Dick, Achab? Guardami e dimmi se sono una balena e se questa sensazione di morire non sia altro che un soffocare momentaneo prima di rituffarmi negli abissi…

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.