Astana
di Mario Capello

A: Mario mariocap@gmail.com
Subject: Arrivo

Caro fratellino,

mi chiedi come sto e me lo chiedi incazzato, perché, dici, non mi sono fatta sentire subito. E hai ragione, ho sbagliato. Ho telefonato a mamma appena atterrata e l’ho messaggiata dopo, una volta arrivata nel «posto che chiamo casa». Pensavo bastasse. Ma, vista la situazione tra te e la mamma, mi sa che mi sbagliavo. Quindi, scusa. Allo stesso tempo, però, mi viene da incazzarmi a mia volta. Voglio dire: cosa deve succedere perché superiate questa cosa? Possibile che neanche io riesca più a farvi parlare? Non ti dico di metterci una pietra sopra: sai che sono con te in tutto e per tutto. Però, e che cazzo.
Comunque.
Qui è bellissimo e strano.
Una volta atterrata, con il sole alle mie spalle che trasformava la pista in una distesa d’oro e rame, mi ha accolto il più incredibile aeroporto del mondo. Un gigantesco, prezioso, manufatto di cristallo trasparente come l’aria e di metallo levigato al punto da riflettere il cielo fosco. Intorno, il nulla. La pianura – ma qui la chiamano steppa – si estendeva per centinaia, forse migliaia di chilometri intorno – hai mai notato come è difficile valutare le distanze quando hai di fronte un nulla che si mangia le cose? –, verde e gialla di stoppie inaridite, con delle chiazze più scure, oleose, lì dove la brezza – il vento qui è continuo, un amico che ti regala una carezza, il più delle volte – piegava gli steli dell’erba in un inchino coreografato.
E l’aeroporto, vasto come uno stadio – come quello dei Texans, ricordi? – pressoché vuoto. Così ampio e vuoto che le poche persone che vi si muovevano apparivano rimpicciolite. Sul mio volo c’erano molti cinesi, molti del posto, una ragazza russa così bella che non ho fatto che guardarla, che osservare il suo profilo metallico perduto contro il finestrino, che cercare un bagliore nei suoi occhi di vodka ghiacciata (non ho perso il vizio, come vedi).
All’uscita – nessun controllo per la sottoscritta, sono ufficialmente una VIP – una macchina imponente, nera e lucida, una Maybach, mi aspettava in un parcheggio nuovissimo e vuoto. L’autista ha preso i miei bagagli senza una parola, mi ha aperto la portiera e mi ha portato nel «posto che chiamo casa». Uso quest’espressione perché non potrò mai sentirmi a mio agio in questo appartamento amplissimo e freddo, tutto di legno scuro e cristalli e superfici ergonomiche che sembrano ostili.
Dall’enorme finestra della sala da pranzo vedo tutta la città. Siamo al quarantesimo piano e così, quello che vedo, sono soprattutto luci e flussi.
Il posto che chiamo casa è in uno dei grattacieli nel cuore della città. Nero, con la punta mozzata di lato, sembra più a suo agio a Londra e a Shangai che in questo posto. O in un film di fantascienza, come un monolite. Si chiama Karidov Tower. Ma qui, tutto si chiama Karidov-qualcosa.
Ma ho fatto un salto in avanti eccessivo. Per arrivarci abbiamo attraversato la steppa lungo un’autostrada a otto corsie, dritta come una canna di fucile. Intorno, scorrevano campi di grano – credo – a perdita d’occhio. Uno stormo di cicogne ha attraversato il cielo – sono così grandi! – e per un istante ho pensato a te, a Racconigi, alla menta e al locale. E mi sono commossa. Stupido, eh?
Siamo entrati in città da sud e attraversato un quartiere di case basse, del colore della terra, e di condomini sovietici con i condizionatori appesi fuori, un murales della Gatorade – il nostro sponsor – dipinto sulla facciata cieca di un palazzo di otto piani, al posto, immagino, di un’immagine di Stalin.
Ma quanto ho scritto? Troppo. Domani ti racconto il resto.
Un abbraccio,
Mari

P.S. Manda un messaggio a mamma, va’. Chiedile come vanno le mani. Sta messa male.

***

A: Mario
Subject: Arrivo – continua

Caro fratellino,

ieri ho mollato la mail sul più bello, lo so. Ma sai che sono fatta così, no? Anche con la Tapparelle Corazzate Padova (ma un nome più stupido? Questa cosa che si prende il nome dallo sponsor, nel nostro sport, io, davvero, non so), ricordi? A metà stagione, con la media di punti più alta del campionato, l’infortunio recuperato del tutto (ma quanto ho pianto, su quella cyclette. Lo so soltanto io), prendo e me ne vado. A Clermont-Ferrand, tra tutti i posti. Ma dovevo farlo, capisci? Certo, le cose con Vivi erano tese, ma non era solo per quello. È la mia natura.
E questo spiega anche perché son qui, no? Me l’hai chiesto e io non ti ho mai risposto. Ci provo adesso. Quando il mio agente mi ha detto che l’Astana mirava a vincere la Champions, che c’erano soldi e un progetto e volevano le migliori, ho riso. L’Astana? Contro il Bamberg e quella corazzata del CSKA? Per non parlare della Tapparelle Corazzate Padova (che nome del cazzo). Assurdo. Ma quando mi ha parlato della cifra, e dei benefit che avrei avuto, mi sono detta: Mari, hai trent’anni, la carriera è lì lì, non vedrai mai più tanti soldi. E poi: quando ti ricapita di vedere Astana? Ma, soprattutto, era un modo per mollare tutto di nuovo. La squadra, le amiche, Alba, la mamma, te. Sì, anche te.
Comunque.
Ieri, abbiamo cominciato la preparazione. Aerobica e atletica. Dovresti vedere il centro. Diosanto. Mi hanno detto che vi hanno svolto i giochi panasiatici, due anni fa e che, dopo, l’hanno pressoché chiuso. Immagina un compound di decine e decine di chilometri quadrati, fatto di astroturf e altri materiali sintetici, con, al suo cuore, una cupola di vetro e cemento grande come una nave da crociera. Un oggetto alieno, di una bellezza inquietante. La notte, dal mio appartamento, lo vedo pulsare nell’oscurità, le luci di sicurezza contro gli aerei che ammiccano in un Morse che non so decifrare.
Ci sono decine di palestre e saune. E una piscina riscaldata solo per noi. Puoi immaginarlo, no? Non ho perso tempo e me ne sono appropriata. Tutte le mattine, prima dell’inizio ufficiale degli allenamenti, mi immergo nell’acqua sotto i neon accesi solo per me e scivolo per cinquanta vasche, nel silenzio pieno di echi. Chissenefrega se non è nel mio programma (studiato da un medico dello sport russo strapagato, con un’aria da alcolizzato di San Pietroburgo). Nessuno può togliermi l’acqua e il silenzio, nessuno.
Comunque, quando arrivo qui, la mattina, con la Smart che mi ha dato la squadra, resto sempre colpita da come tutto, qui, appaia inconsueto. O precario. Sarà l’altezza assurda del cielo, o il fatto che alla fine di certe strade, negli spazi ritagliati tra i palazzi, puoi vedere la curvatura terrestre, ma l’impressione è che, prima o poi, tutto verrà di nuovo inglobato dal nulla. Non spazzato via. Niente di cataclismatico. Sconfitto, semplicemente. Battuto nel suo sforzo di essere contro il non-essere (ecco, dopo tutti questi anni, tornano i rigurgiti del semestre di filo a Bologna: avevi ragione a dirmi che mi avrebbe fatto male).
Oltre la recinzione, c’è solo erba. Erba medica, perlopiù, mi hanno detto. E giusquiamo, e datura, e ortiche, e ranuncoli, e cardi. Ma, soprattutto, erba. Un mare. Un mare verde che continua fino alla taigà, a nord, fino alla puszta, a ovest e fino a Pechino, a est. Ci pensi?
Un’ultima cosa. Tutto il centro è affidato alle cure di un uomo solo e della sua famiglia. Si chiama Mohasidin, Mohasidin Clebchnikov. Vive qui, tutto l’anno, ed è quello che mi fa entrare, al mattino. È alto e grosso, con spalle da rugbista, gli occhi orientali e del colore dell’acqua di fonte. Una pelle dal colore indefinibile, che fa pensare agli Unni a cavallo e agli Ulani lanciati contro le testuggini romane. Parla un inglese semplice ma impeccabile e poi russo e kazako e un dialetto kirghiso. E, ascolta, perché questo è incredibile, addestra aquile.
Una bellissima, meravigliosa aquila reale, che è la mascotte della squadra e che, quando Mohasidin fa roteare un laccio di cuoio che produce il rumore di un motore diesel rotto, si lancia giù da questo cielo altissimo, portando con sé il sole imprigionato nelle penne lustre e nel rostro del colore del grasso sotto la carne viva, e va a posarsi sulla sua mano guantata.
A due passi, sua moglie – velata – passa un’aspirapolvere ciclonica lungo il porticato della loro casetta a due piani ai piedi della cupola di cristallo.

Nei prossimi giorni ti dico delle compagne, e dell’allenatore.

Sta’ bene,
Mari

P.S. Mamma mi ha scritto che la crema al cortisone non le fa più un cazzo. Assuefatta, ancora una volta. Sentila, per favore.

***

A: Mario
Subject: La squadra

Ci crederesti, fratellino? Tra le mie compagne non c’è nessuna che mi porterei a letto. Meglio così, una volta tanto (e spero che significhi che mi sono lasciata certi casini alle spalle per sempre). Non che non ce ne siano di belle – le ragazze locali sono la miglior pubblicità al miscuglio delle razze. Ma nessuna di loro ha quella particolare combinazione: una certa sfumatura nell’odore dovuto alla traspirazione, la forma particolare di un labbro, quel certo modo di toccarti una spalla quando ti devono parlare. Insomma, niente. Visto il clima, si prospettano mesi di nera solitudine, tra le mie lenzuola di lino tessuto a mano.
Però, ho un’amica. Si chiama Jane. Viene dall’Alabama. Ha i capelli trattenuti in una serie di corn-rows strettissimi, una risata che risuona per tutta la palestra, delle gambe lunghe un metro e venti centimetri e solo diciannove anni. Ed è la più impressionante opposta che abbia mai visto in azione. Gli scout dell’Astana se la sono andata a prendere nell’NCAA, dove aveva fatto solo la stagione da rookie e ne hanno fatto la stella della squadra (insieme alla sottoscritta, of course).
Quando salta per la pipe sembra che tutta l’energia degli States salti con lei. Generazioni di fried chicken e soul food dispiegano la loro forza nel suo braccio destro.
Ed è così dolce.
L’altra sera è venuta da me – vive nell’appartamento di fronte, quello che guarda l’aeroporto – e abbiamo diviso una bottiglia di vino bianco (un Riesling niente male). Ci crederesti che non ha mai bevuto prima? Tra che non ha ventun anni, e lo sport e tutto il resto, non ha mai toccato una goccia d’alcol. E neppure i suoi. La contea dove è nata e cresciuta è una «contea asciutta». Niente alcolici. Anche se è la sede centrale della più famosa ditta di bourbon del sud. Assurdo, eh?
Comunque, abbiamo fatto conoscenza, anche grazie al vino, e Jane mi ha detto che, la prima volta che ha visto Parigi, sei settimane fa, quando ha firmato il contratto con la figlia stessa di Karidov (te l’ho detto? È lei la nostra presidente. La squadra è il suo passatempo mentre vende gas a tutto il mondo. È stata una giocatrice a sua volta e sembra una modella di intimo), ha pianto. È arrivata davanti a Notre-Dame, in un pomeriggio dove l’estate si combinava alla luce di Parigi per creare l’incanto della storia depositata sulle cose come una velatura, e ha pensato a sua nonna – che non è mai uscita da Sparta, Alabama – e ha pensato a se stessa, e ai suoi anni, e ai soldi, alla bellezza, a cosa puoi fare con il tuo corpo, certe volte, e l’impegno, e a come sua madre le dicesse sempre che era la loro speranza mentre fumava Winston seduta nel loro portico insieme alle due figlie più piccole, e a come Astana sembrasse lontana, e esotica, ma anche struggente, come la capitale di un regno di uno dei fantasy che leggeva da bambina, e come Parigi fosse, davvero, bellissima come dicevano tutti, e ha pianto.
E ha pianto anche mentre me lo raccontava.
Allora mi sono avvicinata e con il pollice le ho portato via le lacrime dallo zigomo alto e pieno, e l’ho avvolta in un abbraccio e le ho detto di non aver paura.
Intanto, fuori dalla vetrata, Astana sembrava respirare luce in silenzio, come un animale addormentato, addomesticato e selvaggio allo stesso tempo.

XXX,
Mari

***

A: Mario
Subject: Mistero

Fratellino, qualcosa non va.
Tra un mese inizia il campionato, e insieme, la coppa e qualcosa non va come dovrebbe. Non mi riferisco a quello che succede in campo – siamo forti, forse fortissime, e lo sappiamo. Ma fuori.
Ricordi Mohasidin? Il custode con l’aquila? Ecco, è sparito.
Adesso ti racconto tutto. Una settimana fa, dopo l’allenamento, sono uscita per ultima dal complesso. Avevo i capelli umidi e voglia di una sigaretta. Ogni tanto, mi succede. Così sono andata da lui, che potava delle siepi e gliene ho chiesta una. Me l’ha data senza fare domande (quelle che fanno tutti: ma sei un’atleta e fumi? Cose così) e abbiamo parlato per un po’. Dei moscerini danzavano nell’aria sopra le nostre teste – qui, in estate, pare che siano un incubo – come aureole organiche e gli ho chiesto dell’aquila. Lui ha sorriso orgoglioso, ma non ha voluto farmela vedere. She rests, ha mormorato, riposa. Però gli ho chiesto se potevamo fare una foto insieme, perché mi piace, come tipo, e volevo ricordarlo. Così, ci siamo fatti un selfie. E dopo, a casa, allungata sul divano di pelle, con le gambe pesanti per l’acido lattico e un dvd di Manhattan nel televisore da 70’ (qui Netflix non c’è), ho postato il nostro selfie su Facebook.
Allora, devi sapere che, per loggarti su FB, qui, devi fare un casino. Ci sono una serie di firewall e, in pratica, lo puoi fare solo se sei uno straniero.
Insomma, ho postato la foto e il giorno dopo Mohasidin era scomparso. E con lui tutta la sua famiglia.
Quando sono arrivata, alle sette, per la solita nuotata, nessuno mi ha aperto. Ho chiamato per un po’, suonato e poi sono tornata a casa. Quando sono ritornata, alle nove, con Jane, ci ha aperto un tipo mai visto, dall’aspetto orientale, massiccio come un lottatore, che ha voluto vedere i nostri documenti (fortuna che li avevo con me) e ci ha chiesto di spegnere i telefonini. Quando gli ho chiesto dov’era Mohasidin, se stava male o cosa, non mi ha risposto. Passando, ho gettato uno sguardo verso la casetta, e mi è sembrata vuota.
Da allora, non l’ho più visto.

Strano, eh?
Un abbraccio,
la tua sorellona.

P.S. Tu non hai mai paura per le tue mani? No, eh? Immagino dipenda dal fatto che le mie, sono la mia vita. Sai che è genetico, sì? Quando mi succederà, non so cosa farò.

P.P.S. In parte, ti ho mentito. Volevo dare un’immagine bella di questo posto, e ho parlato solo del mare d’erba. Non ti ho detto, però, che tutta la città è circondata da pozzi di gas e petrolio e raffinerie. E, notte e giorno, puoi vedere le fiamme in cima alle torri di estrazione e raffinazione, che bruciano perenni come le fiamme degli zoroastriani che hanno vissuto qui migliaia di anni fa e distorcono l’atmosfera, intorno e sopra di loro, e risplendono nella notte come fari che ti attirano verso qualcosa di malato, qualcosa che senti nell’aria, più ubiquo delle immagini di Karidov e delle voci dei muezzin al mattino e che, secondo me, ha a che fare con la sparizione di Mohasidin e della moglie con l’aspirapolvere ciclonico (leggeranno questa mail?).
Mi chiedo che fine abbia fatto l’aquila.
Ho paura.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.