Perdere
di Alessandro Mazzarelli

Colazione a casa, la mattina, Marco non la faceva più. Gli metteva tristezza. 
Appena alzato preferiva infilarsi in doccia, vestirsi in silenzio e scendere a prendere il motorino col casco già allacciato. Al bar accanto evitava di entrare. Il bancone laccato non gli piaceva, le luci al neon lo infastidivano; diceva che gli sembrava arredato col gusto di un casalese appena sbarcato da Ibiza. 
Per resistere al bisogno di caffeina, slegava la catena senza alzare lo sguardo e come un rivolo di nessuna importanza confluiva nel traffico maleodorante della Tiburtina in uno stato di apnea cognitiva fino a San Lorenzo, per fare colazione sotto al pergolato di un bar all’incrocio tra via dei Volsci e via dei Latini, per credere di abitare ancora in quel quartiere, per poter continuare a pensare che l’alloggio buio e lontano dove era finito non fosse che una sistemazione temporanea, un brutto scherzo del destino, una piega scomoda della vita che presto sarebbe stata superata. Si sedeva al tavolino d’angolo sotto i tralicci, in attesa di ordinare un cappuccino scuro senza schiuma alla cameriera dall’aria sfatta e studentesca, coltivando l’inquieta speranza che la giornata finisse in fretta.
La campagna elettorale che da mesi occupava le prime pagine era all’ultimo giro, Roma aspettava un nuovo sindaco, i capi di Marco erano impegnati nella lotta. Lui, per mille motivi, meno.
Ultimamente gli sembrava che niente avesse senso; insofferente alla sveglia, ai giornali, ai commenti sui social, alle trasmissioni televisive, agli automobilisti distratti che parlavano al cellulare, al manto stradale dissestato di via Nazionale, in quelle settimane anche il vento caldo in faccia gli sembrava più soffocante che mai, con la giacca di lino che – dopo aver svolazzato in coda mentre superava le macchine incolonnate – gli si appiccicava alla camicia a ogni semaforo; gli capitava sempre più spesso di imprecare contro i turisti che come mandrie bovine gli attraversavano la strada, pascolando col muso all’insù fino a piazza San Silvestro liberata dagli autobus, la cui nuova pavimentazione senza alberi rifletteva il calore fin dentro l’adiacente ufficio postale, da dove uscivano professionisti ogni giorno più nervosi e accaldati; anche i negozi un tempo punto di riferimento del lusso e dell’eleganza sprofondavano nel pacchiano. Osservava giornalisti e fotografi volteggiare intorno ai palazzi della politica come uccelli che scrutano il pelo dell’acqua, pronti a tuffarsi. E sapere cosa avessero nel becco non gli interessava più.
Perfino il tramonto di Roma gli appariva come l’orpello di una città inutilmente bella.
Mentre lo scontro politico si svolgeva altrove, restava seduto alla scrivania per ore, giacca cravatta e computer acceso. Come uno di quei soldati che si sono dimenticati di andare a riprendere. Senza nemmeno più la paura che dalla giungla qualcuno potesse sparare, solo con la sensazione di perdere tempo e una gran voglia di tornare a casa. Pazienza se non c’era più nessuno ad aspettarlo e se quel bilocale dove adesso abitava era molto più squallido e triste del suo ufficio luminoso. In quelle settimane mettersi a letto era l’unica cosa che voleva. Senza cenare, senza leggere, senza accendere la televisione. Solo spogliarsi lasciando cadere tutto a terra, e sdraiarsi al buio, fissando il soffitto che intravedeva appena, fissando l’idea di soffitto. Era l’unica cosa che gli dava sollievo, oltre al cappuccino scuro di San Lorenzo. Ma quello, diceva, durava troppo poco.
Con Marco Iodice siamo stati compagni di banco per tutto il liceo, sono stato il suo testimone di nozze. Poi gli impegni di ognuno, il lavoro, la famiglia. Quando il matrimonio con Ilaria è andato in crisi, io non sapevo nemmeno che stessero litigando. 
Ero andato a casa sua con la speranza di trascinarlo almeno al cinema. 
Mi aprì in mutande, il tempo di biascicare un Ciao e tornò a letto. L’appartamento era piccolo, al muro un tavolino ricoperto di fogli e giornali, l’angolo cottura con due soli fornelli; nell’altro ambiente un mobile separava il letto da un divano macchiato, il posacenere sul bracciolo e un televisore poggiato a terra con la presa staccata. L’aria era viziata, sulle pareti aloni di umidità, né un quadro, né un poster a coprire.
«Sai una cosa» mi disse restando sdraiato, dopo che per interi minuti aveva respinto i miei tentativi di conversazione a monosillabi, i suoi piedi nudi che si accavallavano, «l’accondiscendenza è il vero male dell’amicizia, e vale anche per la sinistra.» Lo sentii ridere da dietro il mobile.
«È vero che a Roma perdiamo?»
Si mise a tossire, poi sbuffò. 
«Non lavorerei in un partito politico» disse accendendosi una sigaretta, gli passai il posacenere «e non sarei un militante se non ci credessi fino all’ultimo, se nascosta da qualche parte, anche con i sondaggi più infausti e le analisi più pessimistiche, non coltivassi anche solo la speranza di un miracolo. Oggi invece penso semplicemente che dovrei cercarmi un altro lavoro, andare a vivere in un’altra città. Te lo ricordi all’università, quando a ogni sopraggiungere d’autunno ci chiedevamo se non stessimo sbagliando tutto? Poi però alle manifestazioni ci andavamo lo stesso, le occupazioni, i centri sociali. E ora questi ci urlano servi delle banche, a noi? Collusi con le mafie, addirittura. Vicino casa di Ilaria, dietro al mercato di San Lorenzo, c’è una scritta sul muro, Viva il comunismo, e sotto con un tratto diverso hanno aggiunto, E anche tu’ madre
Per non strozzarsi si era tirato su, il viso aveva un pallore insano, le occhiaie scavate, gli occhi lucidi di chi ha la febbre. Si guardò la pancia come se si accorgesse solo in quel momento di essere in mutande. Allungò una mano per afferrare una maglietta da sotto al letto e se la infilò facendo passare prima le braccia, e infine la testa come fosse sbucato da una tana di conigli.
«Non riesco più a parlare con Ilaria, litighiamo in un attimo, prima non era così, prima anche quando avevamo delle divergenze ci prendevamo il nostro tempo, provavamo a venirci incontro, ora nemmeno il tempo di finire la prima frase che già ci stiamo urlando contro. Mi faccio noia da solo, cosa c’è di peggio? Dicono che accettare la separazione sia il primo passo. Come in politica, te che dici? Anzi no, non mi dire niente. Te lo sai che lavoro fai? Quelli dicono architetto, avvocato, cameriere, impiegato, insegnante, io una perifrasi lunga un chilometro che non significa niente.» 
Gli dissi che al Tibur davano un ottimo film.
«Davvero vai ancora al cinema? E scrivi anche lettere con la penna stilografica?»
Mi passò il posacenere e si ributtò di schiena sul letto. Gli angoli del lenzuolo lasciavano intravedere un materasso sottile di gomma piuma. 
«Da me credono ancora ai sondaggi. Li pagano, quelli gli dicono i risultati che i nostri sperano e invece di chiuderla lì, ci credono. Negli uffici fanno tutti la faccia scettica, alzano le spalle, ma poi a casa, quei numeri, quei grafici, gli si annidano nel cervello, e nel giro di un paio di giorni smettono di essere sondaggi pagati dal partito e diventano le loro sensazioni personali, le loro percezioni, il loro sesto senso e si convincono, le spacciano in giro ad altri che subiscono lo stesso processo. Ma non credo basti per vincere.»
Gli dissi che eravamo preoccupati per lui, che non poteva passare tutta l’estate chiuso in casa. 
«L’altra sera sono andato a una cena… che mica solo a voi v’è presa ‘sta mania di farmi conoscere gente, e più dico no grazie, più mi rompete i coglioni, speravo di trovarmi una scusa con calma, invece poi richiamare per disdire mi faceva ancora più fatica. A casa di Palmieri, non so se te lo ricordi, quello che suonava il basso, facevano le cover degli U2, che un periodo usciva anche con noi, una sera l’abbiamo riaccompagnato a casa ubriaco che non stava in condizioni di guidare, credo abbia vomitato dal finestrino dietro, da dentro però, senza abbassarlo, cazzo come fai a non ricordarti la puzza di vomito? Vabbè ora s’è sposato, ha tutto un giro di amicizie della moglie. Una bella casa dietro via Merulana, con un salone ampio, si vede che la moglie è una che ci tiene, che va in giro per negozi d’antiquariato spacciandoli per mercatini. Palmieri ha sempre quell’aria un po’ svagata ma un prezzo l’ha pagato anche lui, ha servito gli antipasti con il grembiule di un corso di cucina fatto a Marsiglia. C’era un medico con la barbetta e gli occhiali alla John Lennon che ha detto che scaraffare i vini è una cosa anni Novanta. Al secondo bicchiere ero già pentito di esserci andato. Erano pure tutte coppie, ho pensato di simulare un malore, però lo sforzo di alzarmi dal letto ormai l’avevo fatto. Almeno mangiavo decentemente. Sono arrivate anche due ragazze senza fidanzati. E insomma ci siamo messi a tavola, conversazione inutile sulle vacanze, i viaggi, chi è stato dove, ti presto la guida, conosco un albergo, mandami il link, e mentre eravamo intenti ad arrotolare le linguine agli scampi senza sporcarci la camicia, la moglie del medico, quello contro le caraffe, con un vestito verde fasciato – che secondo me anche meno andava bene lo stesso – comunque questa approfittando di un momento di pausa nella conversazione dice, Certo che il Pd fa davvero schifo, non trovate? Non era rivolto a nessuno in particolare; mi sono sforzato di trovare nel tono un’acredine più marcata, l’indignazione per una qualche ingiustizia, una colpa grave, ma ti giuro che non c’era niente, la frase suonava uguale a tutte le altre che aveva lasciato cadere sulla tavola, uguale a quelle sul tempo e la besciamella venuta male.»
Era tornato a sedersi sulle gambe incrociate, gli occhi febbricitanti, sotto le ascelle la maglietta già bagnata. Il suo sguardo correva per la stanza come una donnola in fuga, ma non c’era molto su cui posarsi, anche il mobile che divideva la stanza era vuoto, nemmeno un libro appoggiato tra gli scaffali, si vede che stavano ancora tutti da Ilaria. Sembrava entrato in quell’appartamento il giorno prima per sbaglio; e invece ci viveva da mesi. Quando il suo sguardo tornò a fermarsi su di me sembrò calmarsi. Dopo un breve momento d’imbarazzo la conversazione era ripresa, qualcuno aveva chiesto del vino, qualcun altro faceva i complimenti ai padroni di casa per l’arredamento e per le linguine, altri parlavano col vicino di posto.
«Non tanto quella seduta di fronte a me, ma l’altra era un po’ il mio tipo, aveva lunghi capelli neri, piuttosto giovane se devo dire, cercavo di inserirmi nella conversazione, di farmi notare; non che mi senta particolarmente brillante, però nemmeno volevo fare la parte del depresso che guarda fisso nel piatto; sicuro lo sapevano tutti che sto divorziando, figurati se non ci ricamate da settimane. Cercavo di incrociare lo sguardo di questa ragazza, quando la moglie del medico è tornata sul tema, Quelli sono proprio i peggiori, falsi e moralisti. Non una voce si è levata in difesa del mio partito, neanche una. Anzi, hanno preso a scherzarci sopra, queste capre, facevano le battutine. Metà delle cose che dicevano erano false o imprecise, soprattutto quelle che diceva il medico, ma non importava a nessuno, alcuni si contraddicevano da soli, senza capirlo, c’era un ingegnere che per un periodo ha lavorato a Milano, che ce l’ha ripetuto più volte, che aveva lavorato a Milano, con la fidanzata incinta di fianco che gli teneva sempre la mano come se dovesse volare via tipo palloncino, questo diceva che di motivi per parlarne male ne poteva trovare a decine; non li ha mica elencati, ha solo fatto finta, faceva quello informato, e in un attimo è diventato facile per tutti, le critiche confluivano da ogni parte del tavolo, trovando immediato successo, sprigionando il sorriso, la complicità, l’intesa. Li ho osservati bastonare il mio partito con allegria e soddisfazione per tutta la cena, come avevo visto bastonare solo le pignatte alle fiere di paese, con le risate sguaiate e gli applausi di contorno di quelli che seguono sempre la maggioranza. E non è che non mi sia venuta voglia di rispondere, che un conto è se lo critico io, il mio partito; se ci fosse stata Ilaria forse l’avrei anche fatto, mi sarei messo a discutere, che di bicchieri non stavo mica indietro, ma per chi, per il medico? Per quella gente che conoscevo appena, per Palmieri che restava pur sempre uno che aveva vomitato sul finestrino, per fare colpo su quella ragazza di cui nemmeno ricordavo il nome? Certo che la risposta adesso è sì, vale sempre la pena, perché può essere utile alla causa, anche solo nel medio periodo, perché si può avere la fortuna di convincere, oppure di soccombere ma avendo seminato un dubbio, per consentire al medico con gli occhialini o all’ingegnere ho-lavorato-a-Milano di ascoltare una versione diversa o anche solo per una frase che avrebbe ripreso a scavare poi. Sulla carta vale sempre la pena, ma dove la prendevo la forza per non rimanere in silenzio? E se anche l’avessi trovata lì, sotto la sedia, tutta l’energia per litigare, tornato a casa credi che avrei trovato la mia piantagione di dubbi potata di qualche ramo? Sarebbe rimasta intatta anche se avessi litigato con tutti, rigogliosa e immarcescibile, coi dubbi in fiore. E non avrei potuto far altro che annaffiarla con tutte le parole ascoltate, depurate giusto delle più sciocche.» 
Si sdraiò di nuovo sul letto, gli occhi al soffitto, i pochi ricci appiccicati sulla fronte sudata. Aspettai alcuni minuti in silenzio, muovendomi ogni tanto sul divano. Ma non aveva più voglia di parlare. 
Non era finito giugno che sulla spiaggia di Fregene incontrai Palmieri con la moglie. Grandi saluti, baci, abbracci. Mi chiesero di Marco, se l’avessi visto negli ultimi tempi, che loro l’avevano invitato una sera a cena ma non si era presentato. Senza neanche avvertire. 
Tornando a Roma chiamai Ilaria. Mi disse che Marco le raccontava di appuntamenti di lavoro inesistenti, di riunioni a cui fingeva di andare, che inventava bugie pur di non uscire di casa. «Ci stiamo separando» sospirò, «non ho voglia di litigare anche per questo.»

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 24 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.