Ogni minimo residuo
di Michele Cocchi

Ho scritto questo racconto nel 2004, avevo venticinque anni, mi ero appena laureato in psicologia e svolgevo il mio tirocinio post laurea in una struttura per bambini e adolescenti. Non c’era ancora stata la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, la guerra civile in Siria, la strage della Libia del 19 aprile 2015, la foto di Aylan.

«Ecco. È tutto pronto. Adesso puoi muovere, è il tuo turno» dico. La scacchiera pronta sul tavolo.
Christian si tasta la fasciatura tutt’attorno la testa, sulla fronte e sugli occhi. Si assicura che le ferite siano coperte. Poi solleva il mento e rimane immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
«Avevo capito che volessi giocare» dico con calma.
Cerco di essere paziente, la terapeuta ha detto che devo essere paziente. Il caldo è intollerabile, si propaga a ondate, dando la sensazione che le superfici si increspino: il lastricato di pietre del piazzale, le sedie bianche seminate sotto gli alberi, la vernice metallizzata delle automobili nel parcheggio. Christian accomoda le braccia sul tavolo, abbassa la testa.
«Hai cambiato idea?»
Fa sì con la testa.
«Però prima avevi voglia. Mi hai fatto capire che avevi voglia.» Lui fa spallucce. «È semplice. Ricordi? Si muove una volta ciascuno. Vince chi allinea per primo tre pedine. Ho messo lo scotch sulle nere così puoi riconoscerle.»
Faccio un respiro profondo, cerco di restare calmo. Mi volto a osservare gli altri ragazzi giocare ai margini della siepe. Fare una sorta di guardie e ladri usando le grandi ortensie come tane. I più piccoli corrono spesso alle gambe dei volontari, per assicurarsi della loro presenza, poi si lanciano eccitati a giocare. Si sbracciano per farsi rincorrere e poi scappano più veloci che possono. Frenano la corsa bruscamente, lasciando segni neri di gomma sulle lastre del selciato.
Dopo la prima settimana sono più disinvolti. Ai tavoli colorano con le tempere a dita; manipolano la pasta di sale; ritagliano le riviste lavorando a sculture di carta. Sulla spiaggia scavano interminabili piste per le biglie; in cerchio cantano filastrocche e brevi scioglilingua; gareggiano a chi per primo si tuffa in mare.
Christian no. Rimane impassibile. Nessuna proposta sembra interessarlo. Si rifugia in una panchina, dove si accuccia piegando le gambe sotto il sedere; oppure nella veranda, dove allunga i piedi sotto il tavolo e china la testa sul petto; o in camera, dove si sdraia sul letto e si addormenta, con le ginocchia strette alla pancia e la fronte rivolta alla parete. Io lo osservo, seduto sul letto di fianco il suo, mentre con l’unghia seguo le cuciture della coperta, in alcuni momenti pieno di frustrazione, in altri pieno di tristezza.

Riapro gli occhi. Le mani di Christian indugiano lungo i bordi della scacchiera, afferrano una pedina, giocherellano col pezzetto di scotch che ho attaccato sopra. Per un istante ho un moto di speranza. Ha dita arrossate dal sole, braccia lunghe, spalle sporgenti; i primi peli che coprono morbidi la pelle asciutta del volto. Infine lo osservo lasciare la pedina e rifugiarsi nuovamente nella sedia.

La terapista procede tra i tavoli, discute coi ragazzi che hanno allestito i laboratori di collage; per mano accompagna una bambina al tavolo dove disegnano coi pennarelli. Cerco il suo sguardo, agito la testa per dirle che non ce la faccio, che mi arrendo. Ma lei chiude il pugno all’altezza della faccia, come dire: non mollare, ce la puoi fare.
«Passerà due settimane al Centro Estivo» ha detto. «Per fargli trascorrere un po’ di tempo sul mare, permettergli di socializzare e soprattutto aiutarlo a ritrovare l’autonomia.»
Seduti sopra le sedie di giunco dell’ufficio mi spiegava in cosa consisteva il mio lavoro, e intanto il medico assentiva con la testa, sfogliando la cartella clinica. «Tu sei il più grande. Ti sei appena laureato. I volontari sono tutti dei ragazzi. Per Christian ci vuole qualcuno con un po’ di esperienza.»
Che esperienza avevo io? Avevo letto delle cose sui libri, certo, ma che ne sapevo di ragazzi ciechi e profughi? Sentivo il chiacchiericcio degli altri volontari, attendevano il loro turno dietro la porta per ricevere informazioni sui propri assistiti. Io continuavo a osservare la foto di Christian che i familiari gli avevano messo nello zaino, prima di spedirlo clandestinamente in Italia a bordo di un peschereccio. Era un primo piano, e Christian indossava una maglietta blu a maniche corte. Sullo sfondo, una spiaggia, le mura di un’antica torre d’avvistamento. La bocca di una caverna che penetra nella profondità di una scogliera. Nella foto Christian aveva dei begli occhi neri espressivi.

La temperatura non è cambiata, nel primo pomeriggio questo caldo appiccicoso avvolge il Centro. Il lungo tavolo dove i ragazzi lavorano è ricoperto di rotoli di cartoncino bristol colorato, scotch, colla, pennarelli a punta fine e grossa, una pila di giornali e di riviste. Organizzano le proposte di gita per il weekend. Scelgono le località e ritagliano le foto; le incollano sul cartoncino e scrivono sotto le modalità di viaggio e i prezzi. Li osservo da lontano, seduto su una panchina, una rivista aperta sulle ginocchia. Christian, le braccia inerti, siede vicino a me. Le spalle ricurve, la testa che vacilla in avanti come quella troppo pesante dei neonati.
Stamani gli ho rifatto il letto e preparato i vestiti: costume, maglietta, calzoncini, le ciabatte con la suola di gomma. L’ho guidato lungo le scale e in veranda gli ho apparecchiato la colazione: versato il latte nella tazza, imburrato il pane spalmandoci la marmellata, preparato una scodella di yogurt e cereali. L’ho guardato masticare e bere silenziosamente.
Al tavolo vicino una bambina inzuppava un biscotto nel latte. Con l’altra mano sollevava una lunga ciocca di capelli facendola ricadere sulle spalle. All’improvviso ha mollato il biscotto ed è venuta verso di noi. Si è inginocchiata sulla sedia libera, ha guardato Christian e gli ha domandato come si chiamasse. Poi, senza aspettare la sua risposta ha detto: «Io mi chiamo Martina».
Ha infilato la mano dentro la tasca dei pantaloncini e tirato fuori una piccola marionetta da dita. Una tigre di stoffa che ha adattato all’indice e agitato davanti a Christian. «Io sono Martina tu come ti chiami?» gli ha chiesto di nuovo con voce roca, per imitare la tigre. Dopodiché ha ruggito.
«Martina, lui è Christian» ho detto io. «Non può vederti, ha una ferita agli occhi.» Poi mi sono rivolto a Christian: «Martina sta giocando con una marionetta da dita, una piccola tigre di stoffa».
Christian ha lasciato cadere il tovagliolo sul tavolo e si è lasciato andare sullo schienale della sedia.
«Ti sei fatto bua agli occhi?» ha domandato Martina, sempre con la voce da tigre. Agitava la marionetta su e giù, piegando il dito. «Puoi vedermi se faccio così?» ha detto facendo una linguaccia. «E se faccio così?» si è premuta un dito sul naso schiacciandolo in una smorfia.
Ha sollevato una ciocca di capelli che le sono ricaduti in due ciuffetti sulla spalla. «È arrabbiato?» mi ha chiesto.
«Non lo so. Forse sì, è arrabbiato. Non parla nemmeno con me.»
Mi sono rivolto a Christian: «Sei arrabbiato? Vedi Martina? Non risponde nemmeno alle mie domande».
«Forse è triste, allora.» La bambina è balzata a terra, si è avvicinata a Christian e gli ha mollato un bacio sulla guancia, poi è corsa al suo tavolo e ha ripreso il biscotto che aveva lasciato.
Martina ha ragione. Christian è triste, e di fronte alla sua tristezza io mi sento impotente. «Che posso fare io?» ho domandato più tardi alla terapista.
«Devi comunicare con lui.»
«Come?»
«Non lo so, devi trovare un modo.»
È quando Martina se n’è andata, che ho visto Christian leccarsi il dorso di una mano e strofinarsi la guancia proprio dove lei aveva premuto le labbra, come per cancellare ogni minimo residuo.
In camera, prima di andare sulla spiaggia, gli chiedo di aiutarmi a fare lo zaino. Ginocchioni davanti ai cassetti, gli mostro la consistenza della spugna degli asciugamani rispetto all’acrilico dei costumi. Tastiamo la carta, la plastica, il vetro, il metallo. Gli faccio notare che hanno temperature diverse, diverse consistenze e superfici. In bagno gli suggerisco come riconoscere lo shampoo e il docciaschiuma sul piano della doccia. Per almeno sei mesi le sue mani dovranno essere i suoi occhi. Deve farci l’abitudine, non può pensare che ci sarà sempre qualcuno ad aiutarlo.
Lo osservo muoversi annoiato nella camera, eseguire meccanico i miei suggerimenti e poi abbandonarsi sul letto, o sulla sedia, o rimanere in piedi in un angolo della stanza con la testa ciondoloni. «Ha capito che sarà per sei mesi? Che poi gli occhi riprenderanno a funzionare?» «Lo sa, ha capito» dice la terapista. «Il problema non è cosa gli occhi non vedono, ma cosa hanno visto.»
Mi lavo le mani e mi sciacquo il viso. Viene da un Paese in guerra, mi ripeto. I suoi genitori sono lontani, i familiari apparentemente irraggiungibili. Al davanzale della finestra guardo fuori e premo l’asciugamano sulla pelle. Nel piazzale gli altri sono pronti per andare, snocciolati lungo la siepe come per sottrarsi a questa luce incandescente. Lascio l’asciugamano e mi specchio passando le dita sulle palpebre chiuse, le riapro, mi concentro sul colore dei miei occhi.
«È ora Christian» gli dico.

Dopo la spiaggia sediamo ancora fuori. Il piazzale adesso mi appare deserto. I ragazzi sono nelle camere a riposare, oppure si sono incamminati lungo la passeggiata, diretti alla gelateria. Sul nostro tavolo, molti barattoli di plastilina colorata. Vicino allo stenditoio, riconosco le teste di due bambini giocare sotto un lenzuolo; fanno capolino per controllare se qualcuno li cerca e ancora si nascondono ridendo.
«Perché non mi racconti qualcosa?» gli propongo. La voce già arrendevole. «Sai parlare, no?»
Lui fa sì con la testa.
«Allora perché non mi racconti qualcosa? Qualunque cosa.»
Lui fa no con la testa.
«È una settimana che stiamo insieme e ancora non mi hai detto niente. Potresti parlarmi del posto dove vivevi. Se era in montagna, oppure al mare.» Afferro un salsicciotto di plastilina e lo scarto.  «Magari in città.»
Ma lui rimane seduto senza scomporsi, il respiro pesante come si fosse assopito.
«Potresti parlarmi della tua scuola. Se era grande, o se era piccola.» Alzo il mento, come per pensare, poi inizio a manipolare la pasta per ammorbidirla. «Potresti dirmi dei tuoi compagni. Avevi dei compagni, no?»
Lui non risponde e allora sento un calore in mezzo alla stomaco e le braccia tendersi. Immagino di scuoterlo e di urlargli qualcosa in faccia. Non ti puoi comportare così. Qua ci sono persone che ti assistono, ti danno affetto, ti aiutano dalla mattina quando ti alzi alla sera quando vai a dormire. Il tuo comportamento è ingiusto. È ingrato. Ma devo trattenermi. Questo è un tirocinio, mi ripeto. Devo dimostrare che ho imparato qualcosa. Non posso farmi sopraffare dalle emozioni. Per questo mi hanno scelto, perché posseggo degli strumenti.
«Un amico del cuore, uno con cui andavi d’accordo. Uno di quelli con cui non ci si stanca mai di stare insieme.» Mi rendo conto che adesso parlo tanto per parlare. Per rompere questo silenzio intollerabile.
Una bottiglia di plastica rotola sul piano di un tavolo vicino. La osservo cadere. Il tempo è cambiato senza che me ne accorgessi, ora il vento ha preso a tirare e il cielo è offuscato da nuvole minacciose. I bambini sotto il lenzuolo sono scomparsi. Da lontano, in direzione del mare, arriva il riverbero dei tuoni.
«Io alla tua età un migliore amico ce l’avevo» dico quasi senza pensare. «Si chiamava Giacomo. Con lui ho fatto tutte le scuole elementari, eravamo nella stessa classe. Vivevamo in campagna, e la nostra scuola era a pochi passi dal paese. Andavamo e tornavamo da soli, questo ci faceva sentire grandi. Ci sembrava straordinario, a otto o nove anni andare a scuola senza essere accompagnati e già possedere le chiavi di casa. Ci fermavamo nei campi a rubare le pannocchie di granturco, poi il pomeriggio facevamo un fuoco e le abbrustolivamo. Una volta, sul fuoco, ci abbiamo tenuto un uovo, per quasi due ore, alla debita distanza, nella speranza che si schiudesse. Capisci? Pensavamo di far nascere un pulcino.»
Quando sollevo la testa, Christian è proteso verso di me, in una posizione di attenzione. Le labbra leggermente schiuse. Gli sorrido: «Dai, mettiamo a posto questa plastilina e andiamo a prepararci. Dobbiamo farci la doccia e poi andare dalla dottoressa per la medicazione».
Mi aiuta, e vedo chiaramente che mentre riponiamo i salsicciotti nei barattoli, Christian ne prende due e li infila nella tasca dei pantaloncini. Però non dico niente, voglio vedere cosa ha in mente.

Alla sera, in ambulatorio, resto in piedi, in disparte, la schiena poggiata alla parete. Lo osservo sedersi sul lettino e afferrarsi le ginocchia con le mani.
«Cercherò di non farti male» dice la dottoressa mentre prende il necessario dal cassetto.
Taglia le bende e disfà la fasciatura, lentamente, un giro alla volta. Lui serra le dita spingendo un ginocchio contro l’altro e contrae i muscoli delle cosce. Ancora, dopo una settimana, questa scena mi fa soffrire, sento lo stomaco chiudersi in una morsa. La fronte di Christian è coperta di una pelle rossastra; le sopracciglia non sono ancora ricresciute; sulle palpebre le cicatrici fresche; alla radice del naso delle piaghe color ruggine. Durante la medicazione, nella penombra della stanza, intravedo anche la cornea, rosso fuoco, l’iride e la pupilla sepolte sotto una pellicola di sangue non ancora riassorbito.
Le sue dita uncinano la gomma del lettino. «Ho quasi finito» gli dice la dottoressa con un soffio di voce. Poi gli rifà la fasciatura.

Lo lascio in sala mensa e torno in camera per prendergli una felpa. La nostra stanza è piccola. Una scrivania e un armadio di legno chiaro. Due lettini alle pareti. Le valigie aperte in un angolo col contenuto sparso sui letti: magliette colorate, bermuda, creme protettive all’olio di cocco, un mangiacassette giallo, due cuffie per la piscina. Con la coda dell’occhio vedo tutto questo, e poi vedo gli oggetti di plastilina sul mio cuscino. Deve averceli messi mentre mi facevo la doccia. Non metto subito a fuoco, poi capisco: una pannocchia blu, lunga e appuntita, con tante palline rosse attaccate come chicchi; e un uovo, sempre blu. Uno vicino all’altro, rudimentali ma precisi. Li tengo, incredulo, tra le mani, poi li lascio sul comodino.

Dopo cena raggiungiamo i ragazzi più grandi nella saletta interna. Poltroncine di pelle e un grande televisore appeso a una parete. Molte sedie sparse nella sala. Ci sono anche i volontari, i terapisti e i medici. Tutti concentrati a guardare un servizio al telegiornale. La Marina Militare ha recuperato, a trecentosettanta metri di profondità, un barcone affondato nel Canale di Sicilia. Dicono sia stato il più grave naufragio del Mediterraneo, con più di cinquecento morti. Nella sala si accende una discussione. Qualcuno sostiene che sia soltanto uno spreco di risorse, che i morti sono morti e il mare dà loro degna sepoltura. Per qualcuno è soltanto una vetrina politica, uno specchietto per le allodole. Altri sostengono che sia un atto di grande umanità, un gesto d’amore nei confronti di quegli uomini e dei loro parenti. Altri ancora che avrebbero dovuto, anziché ripescare barconi, aiutare i profughi. Due volontari, sui diciassette anni, magliette attillate e anelli di acciaio alle dita, sono i più accaniti: buttare questi soldi per uomini e donne che in Italia nemmeno ci vogliono restare, dicono, è davvero uno scandalo. Christian, seduto su una poltroncina, piange. Non me ne accorgo subito, lo capisco per via dei singhiozzi, e per il fatto che tira su col naso, perché le lacrime vengono assorbite dalle garze intorno agli occhi.
«Vieni, andiamocene» gli dico. «Andiamo dagli altri.»
Ci mettiamo fuori, coi più piccoli, dove sul grande telo proiettano un cartone animato. Non gli chiedo perché pianga, sarebbe inutile, però lo ringrazio per le piccole sculture di plastilina e gli passo una mano tra i capelli. «Domani» gli dico cercando di farlo sorridere «ti racconto di quando io e Giacomo ci siamo convinti di aver trovato l’oro nel torrente dietro casa. E la mattina dopo siamo scappati per andare in città a comprare due setacci.»

Dico alla terapista che Christian è malato. Stamattina rimane a letto a riposarsi, non è opportuno portarlo fuori con questi dolori intestinali, forse ha qualche linea di febbre.
Cammino da solo, fuori dal Centro. Lungo il viale asfaltato osservo i giardini delle villette. Oltre le recinzioni, le donne stendono i panni; gli uomini montano amache per i bambini; i più piccoli pedalano coi tricicli e giocano alle costruzioni. Se chiudo gli occhi continuo a sentire le loro voci. Nella piazza alberata compro focaccine rotonde all’olio; una bibita al chiosco; il quotidiano all’edicola. Seduto sulla panchina getto le briciole ai piccioni grassi che beccano la ghiaia. Dall’altra parte della piazza, tra due case rosa chiaro, c’è una piccola cartolibreria con una matita di gommapiuma all’ingresso. Il vento soffia improvviso e una folata ingrossa la tenda del chiosco con uno scoppio rumoroso. La luce finalmente mi appare più tenue.

Christian si è appena svegliato. Strofina la testa sul cuscino, si aggiusta la fasciatura sugli occhi.
«Ti ho comprato un regalo» gli dico.
Sistemo i recipienti di coccio sulla scrivania, la bacinella con l’acqua, i rulli per spianare, le forbici, gli stampi metallici, la carta assorbente.
Passa le mani tra i capelli arruffati, si aggiusta i pantaloni. Alla scrivania muove le mani per esplorare gli oggetti.
«È creta» gli dico mentre tasta il pacchetto avvolto in una pellicola trasparente. «Ci sono anche le forbici.» Faccio una pausa. «Ma solo se ne avrai voglia…» aggiungo.
Christian taglia la confezione e tocca il panetto per prendervi confidenza. Affonda le dita nella pasta, poi la scava con le unghie deformandola. Ne stacca un pezzo grande come un pugno e lo massaggia col palmo delle mani. Nella stanza si solleva un odore di ciclamino; di castagno fiorito; di resina collosa; di mora matura. Quando il pugno di creta è abbastanza morbido lo preme coi polpastrelli. Io raggiungo il lavandino nel bagno e bevo un bicchiere d’acqua. Fuori si vedono gli ultimi bambini correre distratti sul selciato, mentre gli altri sono già nella veranda per i laboratori della mattina.
«Ho detto alla terapista che non stai bene. Sei libero di restare in stanza, se vuoi. Io torno tra un’oretta, così puoi lavorare in pace.»

Di Christian, negli anni, ho avuto poche notizie, sempre più diradate nel tempo. Purtroppo ha perso l’uso di un occhio, l’altro invece è guarito completamente. Dopo alcuni mesi ha ripreso a parlare. Si è trasferito in Francia, dove hanno rintracciato alcuni suoi parenti, uno zio e un fratello maggiore. Di lui conservo cinque o sei piccole sculture, delle molte che ha modellato nelle due settimane successive; ha deciso di regalarmele, e io per questo gli sono grato. La prima, però, è quella che non potrò mai dimenticare. Due parallelepipedi, uno più grande dell’altro. Due bare. Che sono bare lo so perché vi ha inciso sopra una croce col coltellino. Non so a chi appartenessero, se fossero morti reali o immaginari, se dentro vi fossero i genitori lontani o io e lui chiusi dentro quella stanza. Non gliel’ho chiesto e lui non me l’ha detto, e anche di questo, in un certo senso, gli sono grato.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 22 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.