Sangue di cane

Autore: Veronica Tomassini
Casa editrice: Laurana Editore
Pagine: 225

Anche la letteratura ha una sua posologia, come i medicinali. Ci sono libri che vanno assunti poco per volta, dilazionati nei mesi, sospesi e poi ripresi a tempo debito, e libri che vanno consumati senza interruzioni, in un’unica trance di trattamento. Ci sono poi libri strani, che sballano ogni possibile corretta modalità di assunzione e interferiscono con l’assetto percettivo ed emotivo del lettore, libri che dovrebbero essere letti con cautela, ma finiscono sempre per lasciarsi divorare in una dinamica che assomiglia all’overdose. A quest’ultima categoria appartiene Sangue di cane, opera di esordio della giornalista siciliana Veronica Tomassini.
Sangue di cane non è un testo facile. Abbiamo a che fare con una storia d’amore che non può essere ricondotta entro i canoni rassicuranti del cliché romantico/tragico o del melò tradizionale. La voce narrante è quella di una ragazza della buona borghesia siracusana, e protagonista assoluto è l’amore di lei, ricambiato, per Slawek, un polacco alcolizzato che chiede l’elemosina ai semafori e trascina la sua esistenza dentro i buchi neri di una Siracusa indifferente e cieca. Un amore totalizzante, che spazza via convenzioni sociali e buon senso e viaggia sul binario della predestinazione, annodando le vite dei protagonisti al percorso doloroso del popolo polacco e all’esercito degli invisibili dimenticati dal mondo «civile». Il romanzo esplode fin dalle prime battute, attraverso una lingua ieratica e carnale al tempo stesso che lascia addosso una sensazione di disagio. Ti verrebbe voglia di posarlo al più presto sul comodino, per riprendere la lettura in un altro momento. Invece non lo fai, continui a percorrere l’amara e avvincente via crucis dei personaggi, dalla prima all’ultima frase, con una partecipazione intensa, viscerale. Sangue di cane è concepito come una fluviale lettera d’amore di una donna ormai abbandonata, una sorta di lungo monologo vibrante, secco, in cui le pause per tirare il fiato, la cadenza dei capitoli, risultano quasi impercettibili e trasmettono l’angoscia tutta intera, producendo una sorta di fisiologica stanchezza. Una passione pericolosa, giocata tutta sul filo tagliente dell’incertezza, sull’ansia continua della fine, della perdita, dell’impossibilità di amare senza paura. Veronica Tomassini ci prende per un braccio e ci strattona dentro un inferno senza fiamme, l’inferno di Slawek e dei migranti dell’Est come lui, un inferno in cui l’unica speranza è l’oblio, l’unico sollievo la vodka e dove ogni possibilità di redenzione viene periodicamente azzerata dalla morte.
Questo amore resiste ad ogni tipo di avversità, dall’ostilità della famiglia della protagonista e della società intera ai tradimenti e all’ alcolismo di Slawek, ma si spezza proprio quando sembra aver finalmente trovato requie ed essersi irreggimentato in un’idea pacifica di famiglia. Slawek, sangue d’un cane polacco, sparisce proprio all’inizio dell’happy end, lasciando alla sua donna un figlio da crescere da sola e il peso di un’assenza impossibile da colmare.
Sangue di cane è il racconto di una ferita che si riapre proprio quando sembra essersi rimarginata del tutto. È una guerra rabbiosa contro le ipocrisie di appartenenza sociale e nazionale, è un viaggio nell’abisso e nella perdizione, dentro la parte più distruttiva del sentimento amoroso, è la metafora di una salvezza possibile destinata a sfaldarsi ad un passo dal traguardo, destinata a resistere solo nel dolore e nella precarietà. È però anche una colossale abbuffata di parole che rischia di mandare in tilt il lettore, il cui coinvolgimento è continuamente minacciato da un lirismo che, alla lunga, tende all’esasperazione, e dall’accumulo di immagini che appesantiscono la narrazione e la rendono troppo rarefatta.
L’autrice riesce comunque a restituirci con potenza narrativa il senso profondo di una saga sociale ed umana autentica, un miracolo di bellezza imperfetta che si attua senza il «e vissero felici e contenti» finale.
Elisabetta Pasca
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