Come diventare una Video Girl (breve corso autogestito)
di Olga Campofreda

Mia cugina: una premessa
Sono certa di aver imparato il significato della parola compromesso molto prima della parola stessa. E se penso al momento esatto in cui ciò avvenne, io potrei indicare anche luogo, clima, orario e una serie di altri dettagli che solo i vecchi sanno tenere a mente, quando devono giocarsi i numeri sulla ruota di Napoli.
Ho imparato il significato della parola compromesso un pomeriggio dei miei dieci anni. Era giugno inoltrato. Il profumo di gelsomini fortissimo nel parco condominiale dei miei zii, davanti la porta di casa. Sulle scale, a maneggiare le chiavi, se ne stava mia cugina Cristina, dieci anni anche lei. La osservavo fare rumore con la ferraglia benché avesse già trovato la chiave adatta ad aprire, però quel gesto – che conoscevo ormai bene – la faceva sentire adulta. Quel gesto era il surrogato di un paio di scarpe col tacco per chi come noi, come lei, era ancora troppo piccola per non apparire ridicola. Un lolitismo spicciolo sul tappetino d’ingresso.
Passavo sempre i pomeriggi di inizio estate nel parco Sant’Albina, non appena la scuola finiva e le giornate si facevano calde. Il gesto delle chiavi era solo una delle scene sistematicamente ripetute da mia cugina in uno di quei pomeriggi. Puntualmente io spostavo lo sguardo da un lato ed emettevo un piccolo sbuffo impaziente, che però voleva dire proprio il contrario: quel piccolo sbuffo era la mia prima definizione di compromesso: portiamo pazienza. Lasciamo stare. Questi i sinonimi.
A dieci anni mia cugina Cristina maneggiava le chiavi di casa come aveva visto fare a sua madre e cantava le canzoni che aveva sentito cantare dagli adulti. Gli adulti li vedevamo poco. Ci capitavano nei corridoi a ora di cena, ci sistemavano la carne e il purè di patate per poi venire a ritirare i piatti vuoti con un succo di frutta in mano. Non ricordo i loro volti di allora, ricordo però che i nostri adulti cantavano Battisti.
Anche mia cugina quell’estate prese a cantare Battisti. Era da ora di pranzo che ripeteva omarenero omarenero omarenè senza nessuna variazione sul tema. Ed ecco che succede. Sulla porta. Alcune cose sono contagiose come il cattivo gusto di certi trend, talvolta. Omarenero omarenero omarenè. Mia cugina canta. Smuove il mazzo di chiavi. Omarenero omarenero omarenè. Canta ancora. E io mi accodo, flebile, timida, un po’ da coro di fondo in fading sul finire di una traccia. La vedo girarsi di scatto come un piccolo ma carismatico stratega tedesco anni trenta, caron dimonio con occhi di bragia. Non devi dire marenero, questa la sto cantando io. Se proprio vuoi continuare – sancisce mia cugina – dici almeno marebianco.
Credo di essere rimasta in silenzio per i secondi necessari a contare le sillabe della parola, per rendermi conto che metricamente non c’era poi sostanziale differenza. Ok, ho detto. Ho sbuffato al lato, con gli occhi. Ho pensato: portiamo pazienza. Marebianco mi fa impressione, ma va bene uguale. Il giorno dopo mi aveva promesso un posto da alzatrice nella sua squadra di pallavolo ai campetti del parco. C’era quel ragazzino che mi piaceva, Gianluca, anche lui avrebbe giocato nella squadra opposta. Un marebianco potevo sopportarlo.
La sera successiva, manco a dirlo, rimasi in panchina, mentre mia cugina a partita conclusa se ne stava a maneggiare il mazzo di chiavi nei pressi della fontanella. Insieme a Gianluca.

Autogestione
Eravamo entrate nell’adolescenza così, lentamente, io e la mia cugina gendarme nazista. Capii che il nostro rapporto non sarebbe cambiato quando dopo le scuole medie le sue tette cominciarono a crescere a dismisura mentre io, insomma, io cominciai a frequentare il negozio di fumetti dietro la scuola. Andava bene uguale. Da quando le nostre madri avevano preso a trattarci come gemelle, stessi vestiti, stesso taglio di capelli, stessi pomeriggi alla scuola di danza, avevo sempre preferito soccombere alla sua sicurezza sviluppando in silenzio la pratica del tirare a campare, piuttosto che intraprendere scontri frontali. Il negozio di fumetti fu una rivelazione dei miei quattordici anni. Il ragazzo dietro il bancone si chiamava Savio, aveva più o meno la mia età, era il figlio dei proprietari e tutti i martedì pomeriggio ci ritrovavamo a parlare di questa o quella nuova serie appena arrivata. Savio leggeva i manga senza aprirli completamente, perché diceva che si sarebbero rovinati. Era quel tipo di ragazzo. Era anche bruttino. Pensai che a noi bruttini si addicesse leggere storie in silenzio.
Mi insegnò lui a procedere nella sequenza dei fumetti giapponesi, da destra verso sinistra. La cosa mi sembrava esotica e tuttavia naturale quanto leggere l’ultima pagina di un romanzo appena acquistato. In base a questi dati noti, il negozio di manga divenne in poco tempo la nemesi della mia paghetta settimanale.
Un giorno Savio mi mostrò una piccola pila di libretti bianchi.
«Questo qui devi proprio leggerlo» aveva detto, «è una cosa da femmine, ti piacerà.»
Non sapevo se offendermi per essere stata appena categorizzata in quanto femmina o sentirmi lusingata. L’adolescenza fa schifo per questa storia della ricerca dell’identità, tutto sommato. Decisi comunque di non offendermi e uscii dal negozio con la pila di libretti. Era appena cominciata la prima autogestione della mia vita. Dicembre, inverno, freddo. Aula di educazione sessuale, aula di Uomini & Donne, aula di Karaoke. Aula con mia cugina che flirta con sedicenti rappresentanti di istituto. Auletta vuota di ripostiglio. Un termosifone acceso. Quella settimana prendo posto lì. Sopra un foglio segno una sorta di tabella di marcia per distribuire i tredici volumi di Video Girl Ai nel corso delle giornate autogestite. Con un ritmo di due volumetti al giorno sarei riuscita a far fruttare perfettamente il concetto di autogestione mentre nell’aula accanto mia cugina veniva appena ammessa nelle file delle troniste.
Nell’aula ripostiglio siamo solo io e una ragazza grassa con l’apparecchio ai denti che ascolta a ripetizione le canzoni dei Megadeath. Nessuno mi avrebbe disturbato.

Cultura giapponese
Il primo giorno nella mia nuova postazione con i volumi di Masakazu Katsura trascorse senza che mi rendessi conto del passare del tempo. Quando tornai a casa raccontai a mio padre di aver frequentato un corso di cultura giapponese, per supportare la causa di noi giovani e contravvenire così ai pregiudizi del genitore che pensa che l’autogestione sia solo una perdita di tempo sottratto alla formazione dell’individuo.
«E che ne sanno loro della cultura giapponese?» aveva obiettato.
«Eh, ne sanno, ne sanno.»
«All’epoca mia si faceva il corso di socialismo reale, il corso di Marxismo. C’erano i reading del Capitale…»
Pensai all’aula di Comunismo con i reading del Capitale, al secondo piano, gestita dai figli dei sindacalisti.
«Ma figurati, oramai non si fanno più queste cose» risposi, «adesso ci sono tutti questi corsi interessanti su argomenti che generalmente non si trattano a scuola.»
«Ah, per esempio?»
«Per esempio, questo sulla cultura giapponese.»
«Ah. E che ne sanno loro della cultura giapponese?» ripete mio padre.
«Interessi personali. Condivisione del sapere. Oggi funziona così…» dico, cercando di evitare il suo sguardo.
«E quindi oggi cosa hai imparato di questi giapponesi?» continua. Avrebbe proseguito fino a quando non fossi riuscita a fornire informazioni concrete, a lui sconosciute, che avrebbe comunque simulato familiari pur di non ammettere di essere impreparato. Non rispetto a sua figlia minorenne.
«Oggi hanno parlato dei rapporti sociali tra giapponesi, del modo in cui vivono la sessualità e cose di questo tipo. Per esempio in Giappone è del tutto normale andare in metropolitana leggendo fumetti un po’ hard. Non sono proprio porno, ma un po’ hard. È del tutto normale. Lo dice pure un esperto, hanno letto dei testi da un saggio.»
«Un esperto di che?»
«Di cultura giapponese.»
«E chi sarebbe?»
«Masakazu Katsura» dico prontamente. Sostengo lo sguardo.
Resta in silenzio a sbucciare un’arancia, petalo dopo petalo, una margherita di tensione generazionale.
«Figuriamoci…» dice mio padre. «Figuriamoci. Ne ho sentito parlare. Interessante.»
Sospiro.
Fine conversazione.

Video Girl
Yota mi piaceva molto. Mi ero ritrovata, in quei giorni, a pensare più volte che mi sarebbe piaciuto avere un ragazzo come lui. Un migliore amico come lui che però sulla scala dell’ambiguità protendeva più verso il romanticismo. Ne avevo parlato anche con Megadeath, accanto a me. Un attimo di debolezza, lei aveva tirato via le cuffie, aveva mostrato il suo sorriso di ferro scintillante e aveva fatto spallucce come a dire che ci vuoi fare, così ero tornata a leggere rassegnata del fatto che a noi bruttini certe cose non sarebbero mai capitate. Certe cose capitavano nell’aula di Uomini & Donne, non a noi.
Yota continuava tuttavia a essere il mio ragazzo ideale: romantico, un po’ imbranato, sfigato e introverso ma un sacco simpatico.
«All’inizio del manga Yota è innamorato di una certa Moemi che però ha un debole per il migliore amico di lui. Sulla strada di casa si imbatte in un videonoleggio dove decide di fittare una cassetta porno» avevo raccontato a mia cugina mentre torniamo a casa il secondo giorno di autogestione.
«Oggi tra gli sfidanti non puoi capire chi è venuto a corteggiare.»
«Chi?» chiedo totalmente priva di interesse.
«Gianluca. Gianluca del parco. Te lo ricordi?»
Lo ricordavo.
«E accetterai?» domando, affrettando il passo verso casa.
«Non so, vediamo. Ancora non ha detto che corteggerà me, e io sono indecisa con Michele.»
«Michele il ragazzo di terza?»
«Michele quello con la moto Aprilia.»
«Fico.»
«Già. Fico.»

Quando mio padre a casa mi domandò riguardo la giornata autogestita parlai ancora del corso di cultura giapponese.
«C’è una leggenda che racconta dell’eroina di un libro saltata fuori dal romanzo per aiutare un giovane di nome Yota a conquistare la ragazza di cui è innamorato.»
«Metanarrativa, interessante» aveva commentato lui.
Non avrei potuto dire che l’eroina in questione si chiamava Ai Amano ed era – nella versione originale della storia – uscita fuori da un video porno fittato dal giovane Yota incapace di dichiarare il suo amore a Moemi.

Biografia non autorizzata
Il giovedì della settimana di autogestione era sceso un freddo tanto forte che io e Megadeath per la prima volta ci eravamo sfiorate i gomiti nel tentativo di fare combaciare le nostre schiene alla superficie del termosifone. Avevamo aperto i nostri volumi prima ancora della campanella, che, nonostante l’anarchia, restava funzionale allo scandire del tempo nei corridoi e nelle aule. La capacità di gestione autonoma della giornata sottostava – avevo notato – a una sola imposizione esterna, ovvero la prospettiva del pranzo, un universo atavico, prepolitico, che ci richiamava tutti verso il nucleo familiare di appartenenza. Quel giovedì mattina Megadeath aveva cominciato a leggere la biografia non autorizzata del cantante dei Metallica, mentre io ero al settimo volumetto del mio manga. Il rituale era diventato quello di un saluto accennato, uno sguardo obliquo verso la copertina dell’altra e qualche secondo per stabilire la posizione perfetta per le seguenti ore di lettura.
«Non autorizzata» dissi ad alta voce. «Mi ha sempre fatto un sacco ridere questa cosa.»
Megadeath sollevò gli occhi dalla pagina e aggrottò le sopracciglia.
«Potrebbe esserci scritta qualsiasi cosa, potrebbe trattarsi della vita del bassista di Casagiove, quello che abita oltre il ponte, quello con la toppa dei Metallica sullo zaino, oppure, che so…»
Megadeath fece spallucce come a dire fa nulla. Intanto leggo.
«Dici che non importa?» commentai.
Di nuovo spallucce.
«Dici, purché si parli di James Hetfield ti sta bene anche un mucchio di cose che potrebbero non essere successe?»
Silenzio. Megadeath era tornata a leggere e lo interpretai come un sì.
«Mi pare giusto» conclusi. E tornai alla mia storia.
Sulla strada di casa con mia cugina presi a raccontarle di Ai e Yota, di quanto a volte per amore di qualcuno siamo costretti a fare delle rinunce.
«La video girl è stata creata solo per consolare il ragazzo da una delusione d’amore, capisci? Non può innamorarsene. Se questo succede, il suo creatore farà in modo di interrompere il meccanismo di riproduzione, di conseguenza decretando la morte della ragazza.»
«Ma non sarebbe scomparsa comunque? Dopo quanto? Sette anni?»
«Non sette anni. No. No. Un mese.»
«Capirai» aveva detto mia cugina, dimostrando di non aver colto affatto la serietà della faccenda.
«Quando sei innamorato anche solo un giorno in più vale quanto sette anni.»
«Sì, può darsi» aveva commentato lei.
«Vuoi leggerlo? Domani potrei portarti il primo volume. Entro la prossima settimana dovrei aver finito la serie.»
«Vediamo. Non so se avrò tempo. Oggi pomeriggio vedo Gianluca dopo scuola. Andiamo in esterna.»
«Esterna?»
«Tipo che usciamo.»
«E dici che uscite, no?»
«Si dice in esterna. Alla fine era venuto per corteggiarmi. Ho deciso di dare una possibilità a entrambi, a lui e Michele, poi si vede.»
«E dove andrete?»
«Non so, una passeggiata, qualcosa. Vediamo. Poi domani commenteremo il video alla classe.»
«Il video?»
«Il video. Sì. Ci saranno i manager della classe autogestita di Uomini & Donne che ci riprenderanno con gli smartphone, c’è l’account Instagram e tutto, se ci vuoi seguire. Cose così. Fico, no?»
Fico, pensai. E pensai pure che mi veniva da vomitare. E la cosa peggiore era proprio che il senso di nausea non era tanto dovuto ai racconti di mia cugina, alle dinamiche da programma tv di serie zeta e tutto il resto. Il senso di nausea che provavo era dato dal fatto che quella mattina stessa avevo incrociato Gianluca davanti ai bagni della scuola. Mi aveva salutato sfiorandomi la guancia con due dita. Mi aveva chiamato Otaku, che è un po’ come dire sfigata che rifugge dalla vita reale spendendo tutto in fumetti giapponesi. Poi mi aveva sorriso e aveva aggiunto «Scherzo». Che anche lui leggeva quella roba, che Video Girl era una bomba, che per quelli come noi esiste la vita prima e dopo Video Girl.
Lo dissi a mia cugina. Non di Gianluca, ma questa cosa di Video Girl, della vita prima e dopo.
«Poi mi dirai» rispose sbrigativa, liquidandomi prima del semaforo che ci divideva verso le rispettive abitazioni.

Bagni dei maschi
Quella mattina non riuscii a finire il volumetto quotidiano. Sapevo che nell’aula accanto mia cugina aveva indossato la sua maglietta dalla scollatura più profonda per commentare alla classe il video dell’uscita del giorno prima.
«Dovrei andare a vedere?» avevo detto a Megadeath.
Lei non si era neppure preoccupata di fare spallucce questa volta, così continuai nella mia personale versione di biografia non autorizzata, in cui adolescenza, delusioni e cugine non avevano il potere di influire così tanto su processi come nausea o bruciori di stomaco o profonda tristezza.
Pur tuttavia, non riuscendo a leggere, in modo tanto ingenuo quanto premeditato, mi diressi verso i bagni dei maschi nell’ora esatta in cui il giorno prima avevo incrociato Gianluca.
Era di nuovo lì, come nelle migliori sceneggiature.
«Come mai non sei dentro in aula? Non c’è la presentazione dell’esterna?»
Lui sorrise come a prendere sottogamba la faccenda.
«Anche tu con quella parola. Era un gioco. Mi hanno spinto a farlo. Per partecipare i miei amici mi hanno dato cinquanta euro. Dieci a testa. Voglio dire, avresti rifiutato?»
Feci spallucce come solo Megadeath mi aveva insegnato. Scoprii che mi veniva molto meglio che parlargli.
«Non è stato poi così terribile uscire con Cristina.»
Spallucce.
«La parte peggiore è solo questa dei video, della gente che sta lì a guardare eccetera. Escluso tutto questo tua cugina mi ha sorpreso. Me la ricordavo più stupida, da quei pomeriggi nel parco… ti ricordi?»
«Qualcosa, sì…» mentii. «Stupida tipo?»
«Tipo un po’ vuota. Però invece abbiamo parlato un sacco. Anche lei fan di Video Girl, grande.»
«Fan di…»
Premere tasto F1 per attivare applicazione *spallucce*:
l’applicazione non risponde.
l’applicazione non risponde.
l’applicazione non risponde.
l’applicazione non risponde.
l’applicazione non risponde.

«… certo. Mia cugina. Certo. Piace un sacco a entrambe Video Girl
«Sì, sì. Me lo ha detto che è stata lei a prestartelo. Le avevo raccontato della coincidenza, proprio ieri mattina, di quando ci siamo incrociati, insomma. Mi ha stupito. Non credo Cristina sia una persona vuota, sono stato troppo severo a giudicarla. Del resto anche io ho partecipato a quella messa in scena. Lei dovrà aver avuto le sue ragioni.»
«Eh, certo. Ne ha, certamente» commentai.
«Deve essere una persona molto romantica» aggiunse Gianluca, «pensa che parlando della storia di Ai e Yota, del periodo di riproduzione della cassetta, lei ha detto che anche solo un giorno in più vale quanto sette anni, se sei innamorato di qualcuno. Ha detto così, la frase era questa. L’ho rivalutata tua cugina, davvero. È una ragazza molto dolce.»
Non so perché me ne restai lì per circa quindici minuti a sentirmi raccontare della biografia non autorizzata di mia cugina mentre il mio stomaco tornava a riprodurre un intollerabile effetto wasabi.
Lo salutai velocemente cercando di interrompere quanto prima quella che stava diventando la scena madre della mia adolescenza.
Tornata nella mia aula ripostiglio non c’era neppure Megadeath ad ascoltarmi in silenzio. Il manga non avevo voglia di leggerlo. Lo riposi accanto sul pavimento e mi addormentai con la testa fra le braccia. Quando la sentii tornare non sollevai neppure lo sguardo.
«Va tutto male. È tutto un disastro» le dissi, senza aspettare risposta.
«Non dirlo a me» rispose la voce di un ragazzo che fino a poco prima era stata la voce di Gianluca.
Constatai che ancora una volta si trattava di lui.
Mi disse che non aveva resistito ed era andato a dare uno sguardo sull’account Instagram dell’aula autogestita. Mia cugina era appena uscita in esterna con Michele. Erano andati al parco. Scene di lui che le compra il gelato, scene di lui che le tiene la mano mentre lei cammina in equilibrio su un muretto basso («Un idiota» commenta Gianluca, «ma non lo vede che lei ci sta benissimo in equilibrio da sola?»). Ritratto della coppia con motorino e lei che si appoggia a lui nell’atto di salire sul retro.
Poi: esattamente quello che non avrei voluto accadesse, ma sapevo sarebbe successo.
«Non so» disse Gianluca. «Forse avevo sottovalutato la cosa. Forse inizia a darmi fastidio, tutto questo. In realtà mi è sempre importato. Forse. Tu cosa faresti?»
La domanda era arrivata.
Prima di rispondere presi del tempo. Qualche minuto in cui ritrovai la capacità perduta di fare spallucce. Sfogliai il manga che avevo lasciato accanto poco prima.
Tu che cosa faresti era la domanda che – a risposta conseguita – mi avrebbe trasformato definitivamente nella confidente, nell’amica. Nella video girl della situazione, ma senza il corpo perfetto delle video girl che Masakazu Katsura era stato così bravo a regalare, e – soprattutto – senza lieto fine assicurato.
Un vero Otaku conosce la vita reale e la vita fittizia che legge nei manga.
Un vero Otaku si rifugia nella vita fittizia perché la vita reale non è poi così bella. Ma una cosa in particolare sa con certezza il vero Otaku: che vita reale e vita dei fumetti non si assomigliano per niente.
«Che cosa farei…» provai a ripetere sottovoce. «Non so che dirti. In questo momento mi troverei un posto tranquillo in cui leggere, proprio come deve aver fatto la mia amica. Con quella storia dell’esterna l’aula accanto è diventata troppo rumorosa» dissi, nel momento esatto in cui un boato e un applauso scrosciante si sollevarono oltre la parete.
Mi alzai dal pavimento, raccolsi le mie cose e mi diressi verso il piano superiore lasciando Gianluca da solo. Trovai Megadeath nel sottoscala del piano ammezzato, con la sua biografia non autorizzata, giunta quasi alla fine del volume.
«Finalmente, ti ho cercato dappertutto» le dico, e lei solleva gli occhi. «Hai fatto bene a venire qui. La vita vera, lì sotto, sta diventando impossibile.»
Megadeath mi mostra ancora una volta il suo sorriso metallico, poi porta il dito alle labbra, mi fa segno di stare zitta e allora non sono proprio sicura di voler restare rintanata neppure lì sotto.
Mi allontano e me ne resto sulle scale a metà strada in attesa dell’ultima campanella.
Così.

Illustrazione di Lucrezia Chiarle
Lucrezia Chiarle nasce a Roma nel 1991. Frequenta il liceo artistico Ripetta dove inizia a sperimentare diverse tecniche, prediligendo la fotografia. Si trasferisce nel 2012 a Londra dove inizia i suoi studi in Graphic Design e Moving Image presso la Central Saint Martins, ampliando le sue competenze tecniche e artistiche. Laureata a giugno 2015, al momento si trova ancora a Londra, dove si occupa di diversi progetti che coinvolgono fotografia, disegno digitale, video e performance.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 19. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

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