Liberaci dagli sbirri

Autore: Gabriele Reggi
Casa editrice: Isbn
Pagine: 119

Spedito a insegnare in uno sperduto paesino del sud, il protagonista di Liberaci dagli sbirri di Gabriele Reggi si rende ben presto conto di essere finito in una specie di girone infernale. A San Francesco da Stimmate – questo il nome del paese – i souvenir rappresentano il carcere dove i detenuti vivono serviti e riveriti e, sotto i santini della Madonna, si può leggere l’invocazione «Liberaci dagli sbirri». Alla contorta religiosità del luogo si aggiunge un rito, la «Piaga», in cui alcuni prescelti vestiti con il saio si fanno conficcare nelle mani aste lunghe un metro e spesse come una canna; chi sopravvive a questa marcia (che, per inciso, avviene a piedi nudi su cocci taglienti) e al dissanguamento viene trattato dalla comunità come un santo. In questa situazione, che il protagonista descrive come un dipinto di Bosch, non deve sorprendere allora che l’insegnante si innamori di una sua alunna sedicenne; Anorea è una ragazza intelligente e schiva, con una misteriosa storia personale che si intreccia a quella dei malavitosi del paese e che l’autore ci svela nell’arco del romanzo. Le sue aspirazioni di una vita migliore si scontrano con l’imposizione del lavoro di schiavitù nei campi assieme a tutte le altre donne.
Reggi si esprime con un linguaggio «accorciato», a tratti metaforico, riuscendo paradossalmente a dipingere immagini barocche tipiche di quelle pacchiane icone dei santi e dei defunti che sono disseminate nei bar e nei negozi del paese; allo stesso tempo il suo è un modo d’esprimersi specifico della letteratura di indagine e di critica sociale, a tratti giornalistico, che ha l’intento di mostrare le contraddizioni e le assurdità di un meridione dove la Storia sembra essersi fermata o pare stia guardando da un’altra parte. In tutto questo Liberaci dagli sbirri dà prova di grande attualità sia stilistica che tematica, dai periodi cinematici, dove la punteggiatura conferisce un ritmo accelerato, alle frasi fulminanti caratterizzate da un lirismo d’altri tempi («Aveva l’anima forata come la grata di un confessionale barocco»); dal lavoro forzato nei campi e dalla mafia, all’empatia nei confronti della ragazzina cresciuta precocemente.
La difficile ed eterea storia d’amore tra il protagonista e l’intoccabile Anorea si contrappone a una società arcaica, descritta senza cadere in luoghi comuni, dove tutto pare immobile e destinato a durare per sempre, dall’omertà degli abitanti ai torti subiti; le concitate scene d’azione in cui i protagonisti cercano una sorta di assoluzione da tutti i mali non fanno altro che aumentare la sensazione di impotenza che aleggia attorno al paese. Il romanzo si configura così come un disperato tentativo di farsi spazio in un mondo claustrofobico alla ricerca della salvezza. Il finale amaro e con i piedi ben piantati per terra non lascia spazio ad alcun tipo di fraintendimento: abbiamo appena finito di leggere un noir.
Mattia Filippini
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