L’imbalsamatrice

L’imbalsamatrice

Autore: Mary B. Tolusso
Casa editrice: Gaffi
Pagine: 283

«Amava freddamente la passione e freddamente cercava di rappresentarla», diceva Baudelaire a proposito del pittore Eugène Delacroix. E dopo aver letto L’imbalsamatrice, primo romanzo della giornalista e poetessa Mary Barbara Tolusso, viene in mente proprio qualcosa del genere. Ci si trova di fronte al tentativo di usare la parola al posto dei colori, per offrire al lettore un affresco che restituisce i contorni scarni e il più delle volte miserevoli di un reale che necessita di mostrarsi per quello che è.
Mary B. Tolusso prova a fare con la scrittura qualcosa che rappresenta l’esatto contrario di quello che la sua protagonista, N., fa per mestiere. La Tolusso opera per sottrazione, allo scopo di mettere in mostra, senza ruffianeria, le piaghe, le imperfezioni e lo scheletro terrificante della realtà, scarnificando gli eventi, aggredendoli con ironia corrosiva e sarcasmo velenoso; invece N., l’imbalsamatrice, deve ottenere il risultato opposto, deve riempire, truccare la morte per allungare quel tanto che basta l’illusione della vita. Si crea così tra le righe della narrazione un movimento dicotomico, quello tra autrice e personaggio, funzionale a mettere in luce le contraddizioni della parabola dell’esistenza dell’uomo, per poter poi affrontarle senza pietà o commiserazione, senza più finzione. È il corpo, nella vita come nella morte, l’interlocutore fondamentale di N., la quale districa i nodi della propria esistenza dialogando con i cadaveri, sulla superficie fredda e lucida del tavolo autoptico, e fuggendo poi a cercare corpi vivi, corpi di donne che soddisfino il piacere, in un bisogno di carnalità frustrato in famiglia prima e nei rapporti con gli uomini poi. Sullo sfondo di una Trieste sferzata dalla bora, ma non da cartolina, si alternano brandelli disordinati di ricordi e una vasta galleria di personaggi che insieme contribuiscono a disegnare traiettorie e percorsi, a scavare i solchi di una ricerca di significato che mira a ricomporre la scissione interiore della protagonista: N. diventerà Novella solo alla fine del romanzo, quando l’apparenza di irreversibile egoismo cadrà per lasciare il posto alla fragilità. Il movimento dicotomico tra realtà e finzione si ripropone dunque in N., che diviene imbalsamatrice di se stessa pur di rimandare fino all’ultimo la resa dei conti.
Il conflitto e il contrasto di opposti percorrono il romanzo, a tratti con violenza disturbante. La descrizione delle tecniche di imbalsamazione è maniacale al pari del compiaciuto indulgere nei confronti della pulsione sessuale verso l’universo femminile: ogni strumento, dallo stile di scrittura alla costruzione di trama e personaggi, è funzionale a imprimere un messaggio preciso nella mente del lettore, a mostrargli ciò che deve vedere così com’è, senza ritrosie, senza morali spicciole. Vita e morte si intersecano e necessitano di un pizzico di realismo magico per trovare una qualsiasi forma di schematizzazione: ognuno si porta addosso il proprio inferno e non basta la tanatoprassi a cancellare l’orrore della morte, così come a N. non basta nemmeno la più coriacea delle corazze a cancellare il dolore per la scomparsa prematura del padre, per l’abbandono da parte dell’uomo amato, per le incomprensioni con la madre e i rapporti difficili con le amiche e con la propria sessualità. Novella è un personaggio straziato che cerca di rendersi presentabile al mondo, cerca di ricomporre le proprie contraddizioni, non sempre riuscendovi, ma dialogando continuamente con se stessa.
Il gesto simbolico della progressiva eliminazione dei volumi che N. aveva raccolto insieme al professore per la loro biblioteca, prima che quest’ultimo la lasciasse, riverbera un processo di spoliazione interiore e di semplificazione che allude ad un’urgenza di verità: il disfacimento è inevitabile e invade ogni cosa, dai sentimenti al tempio sacro del corpo umano. Tutto è destinato a sfaldarsi, in barba alle più sofisticate tecniche di conservazione. Novella lavora per un’illusione e questa illusione sconfina minando ogni livello dell’essere, per cui farci i conti non può che risultare disorientante e complesso, per lei come per noi, che siamo trascinati dentro un meccanismo che non possiamo ignorare.
Alla fine della narrazione, con un colpo di teatro, ogni tassello andrà al suo posto, o quasi. Ma questo ultimo atto si rivela una pennellata ridondante. Perché è il romanzo stesso ad averci insegnato che la quadratura del cerchio appartiene il più delle volte alla finzione, che è un trucco, che è inutile come mettere il belletto sulle gote della realtà.
Elisabetta Pasca
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