Palermo Alexanderplatz
di Mari Accardi

Mi sono innamorata poco prima di partire in Erasmus. «Se vuoi rinuncio» dicevo a lui e lui rispondeva che sarebbe stato un peccato perché in Spagna c’era un tipo particolare di lucertole senza arti che avrebbe voluto analizzare. Si stava specializzando nello studio dei rettili. Quando l’ho conosciuto girava con due topi grigi in una gabbia arrugginita: suonava col suo gruppo alla festa dell’Unità e dato che non era riuscito a passare da casa la gabbia era poggiata sopra un muretto dietro il palco. Un topo sporgeva il muso e le zampe tra le sbarre, come se volesse toccarmi, e allora gli ho accarezzato una zampa rosa prendendola tra il pollice e l’indice.
«Ti piacciono i topi?» mi ha chiesto Filippo.
«Di solito no.»
«Tanto questi fra poco muoiono. Se li mangia il mio serpente.»
Era un giorno in cui non mi andava di parlare e intanto, senza accorgermene, avevo stretto troppo la zampa del topo che aveva provato a mordermi.
«Anche a me piacciono i topi» ha detto Filippo. «Stasera per non pensarci ho comprato questa.» E mi ha fatto vedere una bottiglia di vodka al melone. «Non mi fraintendere, non sono uno di quelli che si vanta di quanto beve, era solo per farti capire che sono triste anch’io.» Filippo ha aperto la bottiglia e mi ha offerto un sorso. Non mi ero accorta subito che era il bassista del gruppo. Facevano una specie di metal con testi in una lingua inventata, e a volte con il chitarrista si prendevano a braccetto e ballavano la tarantella. Piano piano si aggiungevano gli altri ma solo a lui usciva la pancia dalla maglietta.
Il topo si agitava per liberarsi dalla mia presa. Filippo ha spostato la gabbia e mi ha fatto sedere sul tronco basso di un albero. Abbiamo parlato di musica, gli dicevo che il batterista era mio collega all’università e facevamo a gara a chi conosceva più gruppi. Vincevo io. Stava per chiedermi di fare a gara noi due ma per fortuna ha chiuso la bocca: forse ha pensato anche lui che sarebbe stato un modo molto infantile di flirtare. Gli amici di Filippo ci guardavano da lontano, il batterista ha sollevato la bottiglia di birra in segno di approvazione. Al settimo sorso di vodka ho chiesto a Filippo se mi ballava la tarantella. Ha iniziato da solo e poi mi ha trascinato con lui, mentre i topi, uno sopra all’altro, dormivano.
«Sai» mi ha detto Filippo prima di salutarci, «una volta un topolino anche più piccolo di loro ha ucciso una vipera prendendola a morsi e gli hanno fatto una statua.»
«A Palermo?»
«No, non mi ricordo dove. Probabile in Asia, tutte le notizie strambe arrivano da là.»
Per tutta la notte, sarà stata la vodka, sarà stata l’adrenalina dell’innamoramento, mi sono chiesta in quale punto della città avessero messo la statua del topo, quanto fosse grande, cosa avessero scritto sulla targa argentata e se accarezzandola portasse fortuna. Alle quattro di notte mi ha chiamato Filippo con la voce cantilenante per dirmi che la vodka non aveva aiutato e che l’indomani avrebbe riportato il serpente al negozio di animali. Fino al mattino ho dormito col pugno chiuso come se stessi trattenendo il topo, o forse Filippo.

Nadia diceva che era sempre così, che se volevo trovare un fidanzato dovevo prenotare un viaggio lungo perché di sicuro sarebbe spuntato alla vigilia della partenza. «E poi che succede?» le chiedevo. «Niente di positivo, stai tranquilla…»
Quell’Erasmus era iniziato male sin dalla destinazione: avevo fatto domanda per Berlino ma mi stavo laureando in inglese e spagnolo e il professore che mi faceva il colloquio voleva spiegazioni.
«Mi sono pentita di non aver studiato il tedesco» gli dicevo.
«E a chi ce la conta?»
La Spagna più la studiavo meno mi attirava. Avevo scelto lo spagnolo dopo aver visto Donne sull’orlo di una crisi di nervi ma la mia passione era morta lì.
«La prego mi mandi a Berlino.»
«Non pensi al luogo, pensi all’esperienza. E poi in Spagna ci sono le tapas e il jamón serrano che le consiglio vivamente. Il calimocho fa schifo ma può sempre provarlo. A Saragozza purtroppo non ci sono mai stato anche se dicono che la Chiesa del Pilar è una delle meraviglie del mondo. In ogni caso con tre ore di autobus può andare sia a Madrid che a Barcellona. Faccia la brava, su.»
Non ero per niente eccitata dalla partenza. A Nadia che studiava Lettere e voleva andare a Marsiglia o a Bruxelles perché il francese era l’unica lingua che conosceva l’avevano mandata a Berlino. Alla fine una logica non c’era. Il professore mi incontrava nei corridoi e mi prendeva per il culo. «Te gustan i crauti?» mi chiedeva.

Ho incontrato Filippo il giorno in cui avevo staccato i biglietti all’agenzia di viaggi. Non ci avrei pensato mezza volta a buttarli se me l’avesse chiesto ma non me l’ha chiesto e la Spagna non era più solo tapas e jamón serrano e calimocho ma soprattutto lucertole-verme con sfumature rosa da acchiappare insieme.
Era da molto tempo che non mi innamoravo, da almeno tre anni e mezzo. Neppure un bacio avevo dato in quei tre anni e mezzo. Ero rimasta a casa, in tuta, a mangiare e ad ascoltare Planet Rock, un programma che facevano su Radio Due. Una volta che avevo deciso di uscire e aprirmi al mondo, seppure in tuta perché gli altri vestiti non mi entravano, avevo incontrato Filippo e mi era sembrata una ricompensa. A entrambi non piaceva il gelato al pistacchio.

Al primo appuntamento Filippo mi ha portato alla riserva naturale di Isola Bella, a Taormina, a catalogare le podarcis sicule. Mi ha dato un retino e un secchio e mi ha incaricato di cercare le femmine, che rispetto ai maschi hanno la testa più sottile e la pigmentazione tendente al marrone. Ne aveva prese due di sesso diverso per farmi vedere la differenza ma poi quand’ero sola ne azzeccavo una su tre. Sull’isola c’eravamo solo io e lui perché per entrare bisognava farsi dare il permesso. Faceva fresco, il vento tra le foglie creava una melodia new age, di quelle che metteva il dietologo perché mi visualizzassi in un prato fiorito, sazia. I fiori però diventavano bucaneve al cioccolato e mi veniva ancora più fame.
Io e Filippo andavamo in direzioni diverse e quando ci incontravamo ci sorridevamo: nel suo secchio c’erano almeno quindici lucertole, nel mio due. Dopo non so quante ore ci siamo fermati per mangiare un panino con tortillas che aveva portato per prepararmi alla Spagna. Ci siamo seduti per terra su una collinetta d’erba da dove si vedeva il mare, con i gomiti e le ginocchia a sfiorarsi, macchiati di terra. Pensavo a tutte le porcate che avremmo potuto fare in quell’isola. Lo guardavo di sottecchi mentre addentava il panino, mi guardava di sottecchi anche lui, ridendo di sottecchi, e mi chiedevo se ci stesse andando piano per fare le cose seriamente o se mi stesse prendendo in giro. Mi diceva: «Fotografa a mente il paesaggio, imprimitelo in testa».
Davanti al portone di casa mia, prima che scendessi dalla macchina, mi ha detto di chiudere gli occhi: «Fai finta che siamo davanti al paesaggio che ti sei impressa in testa». Mi ha tappato la bocca con la mano, ha distanziato l’indice e il medio per fare spazio e mi ha baciata. E aveva ragione lui, era più romantico.

«Come andiamo, è riuscita a rassegnarsi?» mi ha chiesto un giorno il professore dopo che ci avevo sbattuto contro.
«Ma che succede se in Erasmus riesco a darmi le materie che devo darmi in anticipo?»
«Lei sta via il minimo: quattro mesi. Come fa a darsi le materie se prima non finiscono le lezioni? Mica è come Palermo la Spagna…»
«Dico solo se…»
Era alto un metro e novantotto, io uno e cinquantasei. Mi ero stancata di piegare il collo, mi faceva male, e avevo puntato lo sguardo verso le sue scarpe. Insegnava Filosofia del linguaggio, materia che avevo messo nel piano di studi perché era l’unica che avrei potuto dare a Berlino.
«Le conviene darsela in Spagna la mia materia, io la boccio.» Aveva un paio di mocassini scamosciati rossi. «Ma poi lei non è più tanto giovincella, o sbaglio?» ha continuato.
«Ho perso qualche anno per motivi personali.»
«Ha sforato la linea dell’età media di uno studente Erasmus, non perda altro tempo per motivi personali.» Ho alzato la testa perché avevo la sensazione che mi stesse guardando i fianchi. Intanto Filippo mi mandava messaggi pieni di domande.
Che serenata posso cantare a un cane randagio per aiutarlo nell’accoppiamento?
Parlami d’amore Mariù gli ho detto prontamente. Me la cantava mio padre per farmi smuovere dal divano. Ridevo davanti al professore e in generale ridevo sempre quando stavo con Filippo e dato che anche lui rideva alle mie battute a volte mi veniva il dubbio che stessimo diventando compagni di merende invece che amanti. Osservavo le coppie per strada, quelle che si erano appena formate, e non mi sembrava che ridessero tanto come noi.

Il gelato al basilico potrebbe essere un’alternativa al pistacchio?

«Io lo so cosa le è successo» ha detto il professore bloccando il mio sorriso, «capita alla metà degli studenti che stanno partendo in Erasmus. Non si creda originale. Il consiglio che ho dato sempre e che mi sento di dare anche a lei è di considerarla un’illusione delle emozioni, se non vogliamo essere tecnici. Congeli tutto. Non è più tanto giovincella…»
Stavo per ribattere ma lui mi ha preceduta. «Il gelato al pistacchio non piace neanche a me, non creda.»

Avevo l’aereo alle sei di mattina, alle quattro dovevo partire da casa e alle tre ero ancora a letto con Filippo. Fino a quel momento non avevamo mai affrontato veramente il discorso. A volte mi chiedeva quanto stavo via, gli rispondevo quattro mesi e diceva che i primi due sarebbero durati un anno e gli ultimi una settimana. Sempre lo stesso commento anche se il suo massimo di partenza era stato venti giorni. Eravamo nell’ufficio di suo padre, per terra, coperti da un piumone a una piazza. Avevamo smesso di parlare e di ridere finita la cena e io dentro avevo un magone che mi faceva tremare dal freddo. Che ci stavo andando a fare in Spagna? Fino a poco tempo prima avevo fatto pure fatica a uscire nel mio quartiere. Berlino mi aveva convinto dopo aver visto un documentario dove si vedeva gente camminare a piedi scalzi, fare picnic sulle tombe dei parchi che prima erano cimiteri. Vagare disinvolta in tuta per i mille mercatini delle pulci. Mi vedevo al Kunstmarkt a cercare vestiti larghi, pensavo che così occupata non avrei avuto il tempo per mangiare. Con Filippo, però, ero sicura che le mie disfunzioni si fossero risolte: di notte sognavo uomini invece di panini e frittata, andavo all’università a piedi. Mentre sprofondavo la testa nel suo petto nel tentativo impossibile di squagliarmi dentro di lui pensavo che avrei potuto essere felice senza muovermi da Palermo anche pesando duecento chili e mangiando a vita il gelato di tutti gli altri gusti.
Il magone mi appesantiva e credo di essere rimasta nella stessa posizione per almeno un’ora. L’orologio diceva che tra quaranta minuti avremmo dovuto rivestirci. Avevo messo la sveglia a cadenza regolare per evitare che ci addormentassimo. «Mi mancherai» gli dicevo nel petto, con le labbra tra i peli a fargli il solletico. La sua pancia faceva dei lenti su e giù. Dallo zaino ha tirato fuori la foto di una lucertola arrotolata su se stessa, nel caso mi capitasse di vederla in Spagna, anche se era una tipologia diffusa nella parte sud-ovest della penisola iberica. La sua pancia faceva su, si bloccava e tornava giù. La sveglia ha suonato per l’ultima volta, mi sono staccata per afferrare il mucchietto di vestiti ai nostri piedi e quando ormai mancava solo il cardigan mi sono accorta che Filippo non si era mosso e che aveva tutta la faccia bagnata.
«Sei serio?» è stata la prima cosa che mi è venuta da dire, perché non me l’aspettavo. Gli dicevo che non sarei partita, che le lucertole verme le avremmo trovate anche in Sicilia ma lui non si muoveva, le lacrime continuavano a scendergli sul collo. Gli baciavo gli occhi, i capelli, e per sdrammatizzare ho preso una miniatura dell’amaro Montenegro dalla collezione di suo padre, che ci eravamo già scolati, e ho cercato di riempirla di lacrime. Da lui nessuna reazione. «Ti mando subito il chorizo» gli dicevo. «Non essere triste.» E ha iniziato a singhiozzare, così forte che mi escludeva.
«Non ci riesco» ha detto lui. «Non riesco a essere triste.»
«È perché ridiamo?»
«Non lo so perché…»
Ho chiuso gli occhi e mi sono ritrovata davanti al paesaggio di Isola Bella che mi ero impressa in mente, con il retino e un secchio pieno di podarcis sicule femmine.
«Forse è una reazione: sei anestetizzato per non soffrire» gli dicevo. Anestetizzata io.
«Tutti i miei amici volevano che mi innamorassi di te» continuava a singhiozzare, «e anche io volevo innamorarmi ma quando ci salutiamo e torno a casa sono sollevato…»

«È bruttissimo non riuscire a innamorarsi…»

Continuava a singhiozzare girato di lato e io a bere le sue lacrime dalla miniatura del Montenegro perché non sapevo che dire e volevo piangere anch’io. Sullo schermo del cellulare compariva Casa.
«Devo andare» ho detto. Ha guardato l’orologio e si è rivestito mettendosi il maglione alla rovescia. In macchina abbiamo fatto finta di niente. Quando atterravo gli avrei mandato un messaggio e appena possibile gli facevo avere il numero spagnolo. «Meglio un fisso, che costa meno» diceva lui. In faccia aveva ancora le chiazze del pianto.
«Vedrai che ti mancherò. Ti mancherò in maniera insopportabile» gli dicevo.
«Speriamo.»

E poi, dopo un viaggio in aereo a tenermi le tempie per paura che scoppiassero, mi sono ritrovata alla stazione degli autobus di Barcellona, al centro del piazzale, senza essermi lavata, con i clacson che mi intimavano di spostarmi. Non li sentivo. Guardavo i cartelli con le destinazioni scritte su ogni parabrezza ma non ricordavo il nome della città dove dovevo andare. «Fra poco ti investono» mi dicevano i passanti e rispondevo in inglese che magari mi avessero investito. Il mio trolley gigante imbottito di roba a caso che non avevo neppure piegato per il peso cadeva in avanti e io lo sollevavo. Cadeva e lo risollevavo, come fosse uno yo yo. Un autista è sceso, mi ha preso le valige e mi ha spinto verso l’entrata di un bar. «Adesso ti siedi, ti bevi una jarra de cerveza e non rompi più i coglioni a nessuno. Capito?»
«Yes, sir.»
Chiamavo i numeri degli annunci di stanze senza neppure controllare le vie nella cartina. Non ce l’avevo una cartina. L’unica cosa di cui veramente mi importava era che in casa ci fosse il telefono fisso. Quando mi sono decisa a perlustrare la città ho comprato un retino. Andavo al parco di prima mattina, finché c’era luce, e cercavo le lucertole verme o qualsiasi tipo di lucertola spagnola. Ero attrezzata con macchina fotografica e cestino della merenda ma raccattavo soltanto oggetti spaiati. Un bambino che veniva lì con suo padre dopo la scuola si è preso di coraggio e mi ha detto che le lucertole d’inverno sono ancora in letargo.
Ogni settimana chiedevo a Filippo se gli mancavo e lui diceva di no, finché dopo un mese mi ha lasciata e io, a un’ora dal centro, in una stanza dove entrava solo il letto, mi sono resa conto che per altri tre mesi avrei dovuto vivere in Spagna, e se non mi fossi data Filosofia del linguaggio non mi sarei mai laureata.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 16. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

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