Poche parole, moltissime cose
di Rossella Milone

Poche parole, moltissime cose è un romanzo sulla tenacia dei sentimenti, sulle risorse che ciascuno di noi nemmeno immagina di avere.
Nanà è appena tornata dalle vacanze estive. Mentre i suoi genitori sono indaffarati a disfare i bagagli, lei è la prima a dare l’allarme: nonna Olga è fuggita con Sergio. La coppia viveva una complicità silenziosa e tenace che nessuno – nemmeno i rispettivi figli, che infatti mal sopportavano quell’amore senile – riusciva a comprendere fino in fondo. Ora che i due se ne sono andati senza dire una parola, senza lasciare un biglietto, quell’ingombrante assenza sembra accusare chi è rimasto. Sulle loro tracce provano a mettersi Ivan e Albertine – il figlio di Sergio con la fidanzata franco-palestinese –, insieme a Pietro e Bruna, genitori di Nanà, in una ricerca che coinvolge persino Abramo, il cucciolo che la bambina ha appena adottato. Interrogarsi sul perché di quella fuga finirà per mettere in scacco le apparenti certezze di tutti loro, inchiodandoli al momento presente. Perché adesso che Olga e Sergio sono chissà dove, di fronte a tanta incauta intraprendenza ogni cosa sembra essere improvvisamente finita sotto la lente d’ingrandimento, mostrando le crepe che minacciano il crollo.

Di seguito presentiamo le prime pagine del romanzo, che sarà in libreria (pubblicato da Einaudi) a partire dal 28 maggio.

***

Se Nanà non fosse tornata a casa con il cane, quel giorno nessuno si sarebbe accorto della fuga. Erano tutti troppo impegnati a riordinare le case e riassettare le stanze, la pioggia costringeva a comprare ombrelli nuovi, il freddo a fare il cambio di stagione prima di quanto si pensasse. Il balcone inzuppato di foglie secche, l’umidità dell’assenza.
Nessuno era né pronto né disposto ad accorgersi di nulla. Per questo Nanà pensò di andare in camera da letto – il costume rosso della madre aspettava di essere sistemato nella scatola dei costumi – per chiamare la nonna e raccontarle del cane. Alla vecchia conceria non l’aveva trovata, cosí aveva deciso di telefonarle, sperando che nel frattempo fosse tornata. Lei avrebbe accolto la notizia con entusiasmo, e l’entusiasmo era una cosa che a Nanà piaceva: sua nonna che rispondeva sempre con un «sí» invece che col «pronto», e che pareva disposta a darle retta anche se stava preparando una zuppa o guardando un documentario sulla montagna. Alla nonna piaceva moltissimo la montagna. «La montagna è imprevedibile», aveva detto una volta. «Tipo un’interrogazione?» «Tipo» aveva risposto Olga. «Mo studia, però, forza e coraggio.»
A Nanà piaceva quando la nonna diceva «forza e coraggio», la faceva sentire meno piccola e più preparata. Sospettava che anche a lei sarebbe piaciuta moltissimo la montagna, sebbene i suoi la portassero sempre al mare perché la mamma amava starsene in spiaggia. Sua nonna, comunque, aveva sempre molto tempo per lei, e Nanà ne approfittava di quel tempo di cui, in qualche modo, sapeva di dover fare scorta.
Il telefono squillò a vuoto: Olga ancora non era rincasata.
Quando Nanà tornò in salotto – il cane stretto al petto, quasi lo soffocava – sua madre era in piedi su una scala a fare la giocoliera con una scopa, cercando di acchiappare una ragnatela intrecciata in un angolo. Aveva le pantofole e il grembiulino arancione che usava per le faccende di casa. Senza voltarsi le chiese di andare a prenderle lo straccio. Nanà disse di sì, ma solo per finta, perché non avrebbe saputo dove mettere il cane. Non tornò con lo straccio per la scopa, ma raggiunse il padre che era in cortile a sistemare la macchina ancora imbottita di pacchi, buste per la spesa ormai vuote, cartine geografiche stropicciate, cannucce, volantini di sagre. Erano appena tornati da Agnone.
Nanà appoggiò il cane per terra, controllando che riu¬scisse a tenersi per bene sulle zampe che le sembravano troppo corte e pelose per reggerlo. Quello fece due passetti con la punta delle orecchie che dondolavano su e giù. La bambina prese dal sottoscala un filo di spago e lo legò intorno al collo del cane, poi assicurò l’altra estremità al cancelletto condominiale.
Quando raggiunse suo padre, lui aveva la testa infilata sotto al cruscotto dal lato del passeggero, intento a raccogliere qualche lattina; ce n’erano già un paio lì a fianco. Sul sedile posteriore – la vide alzandosi sulle punte –, impregnata nella trama della stoffa, c’era ancora la macchia brunastra di quando aveva vomitato, l’altroieri.
Il padre le chiese di raccogliere le lattine in una busta e andare a buttarle nel secchio fuori dal portone; Nanà disse di sì anche a lui, ma di nuovo non obbedì. Non sapeva cosa fare col cane, che nel frattempo aveva preso a saltellare, e ogni volta la corda lo tirava in basso come un aquilone troppo pesante. A ogni strattone quello guaiva con una specie di grido affusolato che non la faceva sorridere né la impietosiva. Le ricordava, invece, l’insofferenza di quando ci si trova in un posto in cui non si vuole stare; in classe, per esempio, o al catechismo.
Il padre le chiese di chi fosse il cucciolo e chi lo avesse legato a quel modo, e Nanà scosse le spalle, storcendo un angolo della bocca; disse che non lo sapeva.
L’uomo, allora, si decise a scivolare fuori dalla macchina, scrollandosi di dosso qualche briciola di cracker e infilandosi l’orlo della camicia nei jeans. Diede un’occhiata al cane, lo raggiunse in due falcate, lo sciolse dallo spago mentre Nanà tendeva le braccia come per salvare i primi brandelli di vita del cucciolo. In quel momento pensò di chiedere a suo padre se lo potevano tenere.
Ma l’immagine della madre in bilico sulla scala le piombò in testa, e nell’attimo in cui immaginò di dire: «Possiamo tenere il…», l’idea del cucciolo che zampettava per casa fece vacillare la madre che precipitò per terra, distesa come una morta.
Il padre le disse che bisognava capire di chi fosse quel cane e perché lo avevano legato nel cortile del palazzo. Tra l’altro, aggiunse, il regolamento condominiale vietava la presenza di animali domestici. Nanà disse la prima cosa che le venne in mente, anche se non era vera: «È di nonna» spiegò.
Pietro la guardò a lungo con una specie di turbamento che lo avvilì. Era iniziato il tempo in cui i suoi errori sarebbero stati scritti a chiare lettere su sua figlia, come se lei fosse il foglio e lui la penna. «Allora perché hai detto di non saperlo?»
Nanà non abbassò lo sguardo, ma disse con decisione: «Perché sennò ti arrabbiavi con nonna».
Pietro le fissò gli occhi e negli occhi cercò qualcosa di se stesso che potesse riconoscere; vide il grigio delle sue iridi e una perplessità svagata che era soltanto di Nanà. Sapeva che Olga non avrebbe mai preso un cane, soprattutto durante l’estate, ma scelse di credere a sua figlia per principio, prima di tutto; e poi anche per comodità. «E nonna dove lo ha trovato questo cane?»
«Non lo so. Forse se la chiamiamo ce lo dice» rispose lei, sicura che non fosse in casa.
Quando Pietro la chiamò, infatti, nessuno rispose.
«Forse è uscita» disse Nanà, riprendendo possesso del cucciolo che, stretto in braccio, le leccò una guancia.
Pietro chiuse le portiere, raccolse le lattine, le andò a gettare; poi raggiunsero l’appartamento. La porta di casa affacciava sulla chiocciola delle scale, da dove, come in un imbuto, si vedeva la macchina parcheggiata laggiù in fondo.
«Aspetta fuori, e non farti vedere da tua madre con quel cane.»
«Ma non morde, è buono» si oppose Nanà.
«È sempre un cane.»
Quando ritornò, aveva con sé un ombrello e un giubbino di jeans per Nanà: cominciava a fare fresco e non era proprio il caso che la bambina si prendesse il raffreddore. «Specie adesso che sta per cominciare la scuola.»
Nanà riconobbe sua madre che parlava con la bocca di suo padre: per un attimo lui le fece pena come le faceva pena il cucciolo, e fu certa di potergli chiedere di tenere il cane. Ma poi Pietro s’infilò le mani in tasca, prese una sigaretta e l’accese in un colpo solo d’accendino, nonostante il vento cominciasse a soffiare tra le strade spoglie del paese. Con quel colpo l’aveva allontanata, le aveva intimato di non avvicinarsi troppo, rimaneva comunque una bambina. Nanà si strinse addosso il cane come se fosse quello il giubbino, e si accorse che le luci nelle altre case erano calde e accese, e già c’era l’odore di freddo che pattinava sul selciato.
Scivolarono verso casa della nonna con una specie di ansia che invece di mettere fretta li rallentava, li accompagnava come una terza persona zoppa a cui prestare continuamente attenzione: Nanà con la testa bassa per raccogliere tutte le possibili spiegazioni che avrebbe dovuto dare alle sue bugie; Pietro con uno sbuffo di fumo che gli usciva dalla bocca, preoccupato da quel gesto di Olga – cosí insolito per lei – e dalle conseguenze che quel gesto pretendeva: qualcuno che si prendesse cura del cane, la seccatura di quella cura.
Camminavano in silenzio, s’infilarono lungo la strada, attraverso la piazza. Il paese si era ricoperto di una foschia appannata che pareva nebbia, invece era la pioggia fatta ancora di vapore prima che d’acqua. Svoltarono in una strada dietro al parco giochi, e poi costeggiarono l’ufficio postale, il bar, il tabaccaio, e ai lati della strada una lunga fila di villette con le finestre chiuse e le luci accese, con le ombre delle persone che mangiavano un brodo – il primo brodo dell’anno – o facevano due tiri col pallone in cortile, avvolti nelle felpe. E arrivarono nel viale che portava verso la casa, stretto e lungo, affiancato da compatti schieramenti di faggi e castagni, con le foglie assopite a ciondolare come fiammelle.
Non era una villa, la casa di Olga. Ma un grosso appartamento in un vecchio casale a due piani, in una cascina fatta di pietra e legno, un arco di tufo giallognolo ad accoglierli all’ingresso.
Una volta era stata una stalla; gli animali sotto i padroni sopra. Poi era diventata la conceria dove si lavorava la pelle di capra e la nappa. C’era una scala di legno che portava all’appartamento superiore, e c’era ancora il vecchio abbeveratoio di acciaio dove Olga aveva sistemato le azalee e la menta, anche se tutt’intorno non era riuscita a debellare le ortiche. Viveva al piano superiore, che era più spazioso e caldo, mentre al piano di sotto suo marito aveva sempre accolto i pazienti; la gente andava a farsi medicare lì, dove un tempo scuoiavano le capre. Per tutti quella era rimasta «la conceria del medico», anche se né la conceria né il medico c’erano più. Olga sapeva che certe cose uno non riesce a estirparle così come non si estirpavano le ortiche dal suo giardino, e non ci faceva più caso. A volte, diceva a Nanà, le sembrava di sentire il respiro tiepido delle pecore alitare lì sotto, e si addormentava come avvolta dalla lana.
Pietro guardò le finestre sbarrate, il piccolo cancello, sotto l’arco di tufo, chiuso con una grossa catena e un lucchetto. Anche la serranda del garage, che Olga lasciava sempre aperta e dove teneva di tutto tranne una macchina, era chiusa. La casa a Nanà pareva una donna che dorme, e pensò che la nonna fosse morta, ma prima di morire si fosse premurata di sbarrare le finestre come palpebre sugli occhi.
Il padre sussurrò qualcosa, gettando il mozzicone. Si avvicinò al cancello, lo scrollò, controllò che il lucchetto fosse davvero serrato. Lo era. Era tutto chiuso, come se la casa avesse deciso di smettere, di essere una casa.
Nanà chiese dove fosse la nonna e Pietro guardò il cane come per chiederlo a lui. Il cane leccò l’occhio di Nanà, che lo chiuse, ma quello insisteva e la saliva entrò un poco lo stesso, mischiandosi alle lacrime per il troppo vento.
L’uomo citofonò, e il ronzio che echeggiò da dentro sembrò enorme, dilatato – si espandeva dalla cucina di ottone fin sopra alle travi del soffitto.
«Ma dove sta nonna?»
Pietro non ne aveva idea e quando si accorse di una specie di brontolio fitto nello stomaco, s’illuse che fosse fame.
«Forse è uscita soltanto» disse.
«E dov’è andata?»
«Qua in giro, credo.»
Guardò le strade che si stavano nascondendo nel buio e nel buio diventavano invisibili. Poi cominciò a piovere e dovette aprire l’ombrello.

Il telefono squillò mentre stava scollando dalla parete gli ultimi filamenti di ragnatela con un incisivo, lento arco della scopa.
Bruna scese dalla scala senza fretta: se non fosse riuscita a rispondere in tempo, quelli, chiunque fossero, avrebbero richiamato. Per evitare che la ragnatela le sporcasse il tappeto tenne la scopa con sé fino al telefono nel salotto, un vecchio apparecchio nero con i numeri infilati nella rotella invece che disegnati sui pulsanti. Era il telefono dello studio di suo padre.
Quando sentì rispondere «Pronto… sí…» la voce le sembrò lontana e frettolosa, come di qualcuno che sta per riattaccare e all’improvviso si accorge che un’altra persona c’è, dall’altro lato.
«Sì?» domandò Bruna.
«Sono Ivan.»
La voce bassa, la calma nel pronunciare le lettere, il tono educato ma deciso non le dissero granché. Però il nome di Ivan si associò al viso dell’uomo sui trentacinque, quarant’anni, che aveva visto un paio di volte e di cui ricordava poco altro. Alto, snello. E mentre appoggiava gli occhi sulla ragnatela tra le setole della scopa – luccicante come la saliva nel nero del nylon – le venne in mente anche sua madre insieme al viso di Ivan, come se quella voce l’avesse bruscamente trascinata nella casa di Olga, in fondo al viale.
«Ivan» ribadì la voce al telefono, quasi avesse intuito la sua esitazione. «Il figlio di Sergio.»
E vide passeggiare Olga nel cortile della casa di legno e pietra, una gonna di seta leggera che le accarezzava le caviglie, i piedi nei mocassini comodi. Rideva, la bocca socchiusa e le mani incrociate dietro la schiena, rideva ed era felice: non aveva mai portato i capelli sciolti sulle spalle, da quando la ricordava lei; né l’aveva mai vista indossare collane, o braccialetti. In quella sua visione, invece, la madre aveva al collo una grossa collana a palle di legno arancioni, e i cerchi alle orecchie; i capelli a caschetto, tagliati all’altezza delle spalle come con un’accetta. Passeggiava con Sergio a fianco e rideva con un bagliore negli occhi che pareva acqua.
«Ah, Sergio…» fece.
«No, io sono Ivan, il figlio. Non si ricorda?»
Certo che se ne ricordava – Ivan lo sapeva benissimo –, anche se avrebbe voluto dimenticarseli tutti quanti.
Ivan fu molto gentile. Bruna si esprimeva a monosillabi, con risposte soffiate. Lui arrivò al dunque da lontano, come se un poco si dispiacesse, come se fosse seccato di doverlo chiedere proprio a lei: «Sa, per caso, se mio padre è lì?»
Lei si appoggiò una mano sul petto – all’altezza della scollatura della camicetta. Disse: «Lì dove, scusi?»
«Lì, lì da voi. Da Olga.»
Sapeva che Pietro e Nanà erano da lei adesso (suo marito, prima di andare via, le aveva detto che la bambina voleva salutare la nonna e lei gli aveva raccomandato di coprirla col giubbino di jeans); e si chiese come mai Ivan non avesse chiamato direttamente casa di Olga.
«Io non lo so» disse, con una specie di disappunto. «Perché dovrei saperlo?»
«Sto chiamando a casa di sua madre da ieri mattina e non risponde nessuno.»
La prima cosa a cui Bruna pensò non fu sua madre, ma sua figlia, il che la fece sentire una madre migliore e una figlia peggiore. Considerava Olga una donna anziana che stava ringiovanendo e per questo aveva bisogno delle stesse cure, o quantomeno delle stesse attenzioni, e preoccupazioni che riservava a Nanà.
«È strano» concesse Bruna. Guardò dalla finestra e si accorse della pioggia che scintillava sul vetro. Si chiese dove fossero Nanà e Pietro. Non disse altro, voleva che fosse Ivan a parlare. Adesso se lo ricordava bene quel viso intenso, con la barba di qualche giorno, i capelli tagliati corti, gli occhi castani. Il silenzio ci mise un po’ a riempirsi d’imbarazzo, come se entrambi avessero a disposizione veramente troppe poche parole da dirsi, mentre, da qualche parte in casa di lui o in casa di lei, una porta sbatteva per il vento.
Bruna avvertí l’esigenza di andare in camera a controllare il sonno del bambino. Così disse: «Scusi, ma adesso devo…»
«Non sento mio padre dall’altroieri» insisté Ivan. «Negli ultimi tempi ci sentiamo spesso e mi è parso strano. Allora ho pensato…»
Nessuno dei due era disposto a dire cosa stavano pensando; non serviva. Sapevano entrambi che quei due non facevano più un passo una senza l’altro, che avevano disimparato a camminare da soli, per cui se non si trovava Sergio non si trovava nemmeno Olga.
Bruna si decise ad appoggiare la scopa alla parete, e incastrando la cornetta tra l’orecchio e la spalla si sfilò il grembiulino. Un po’ la infastidiva parlare con quel grembiulino addosso, quasi Ivan potesse vederla. Lo piegò alla meglio e lo sistemò sulla poltrona.
«Ascolti» disse, «io non lo so dove sta suo padre. Siamo tornati da poco da Agnone e ho sentito mia madre una settimana fa. Appena so qualcosa le dico di avvisarla.»
Mentre la pioggia farfugliava lì fuori inondando i pioppi, cominciò a domandarsi perché doveva parlare con Ivan quando non ne aveva nessuna voglia, e si chiese perché Olga non fosse in casa.
Ivan aveva sospirato: Bruna lo sentiva muoversi indispettito, ma non fece nulla, non disse nulla per alleggerire la tensione. Riattaccarono con un cordialissimo a presto.

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