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Los Ingrávidos. Intervista #4 Sergío Lifante

1) Quanti anni hai, che libri hai pubblicato e come ti guadagni da vivere?
Ho ventisei anni e non ho pubblicato quasi niente, perché bisogna stare attenti a quello che si pubblica, soprattutto quando si è giovani. È apparso un mio racconto, Tokio Pigmalión, nell’ antologia Mi madre es un pez e una decina di poesie, in vari libri, per una piccolissima casa editrice, La spiral literaria. Appartiene a un’amica, è una casa editrice locale, di Sant Boi, un paese a venti minuti da Barcellona.
Per mantenermi do lezioni private di inglese, e a volte di filosofia, ma non è che guadagni molto. Ho insegnato anche in una scuola elementare, ma forse sono un po’ troppo anarchico per gli standard dei genitori dei bambini. Probabilmente me ne andrò a Londra, a vedere se posso sopravvivere scrivendo, articoli, sceneggiature, qualsiasi cosa, l’importante è che sia scrivendo.

2) Come e quando hai iniziato a interessarti di letteratura? C’è un libro, uno scrittore o un evento della tua vita che ti hanno spinto a scrivere?
C’è l’ho sempre avuto nel sangue. Ho scritto la prima storia che avuto una certa presa su degli estranei quando avevo sei anni, per San Jordi, la festa del libro e delle rose. La scrissi in inglese (Sergio Lifante ha studiato in un istituto bilingue, inglese e spagnolo N.d.r.) e tutti i professori ne furono impressionati. Vinsi il premio che c’era in palio e da quel momento vincevo praticamente ogni volta che mi sforzavo di scrivere qualcosa di decente. A scuola non è che fossi il bambino più popolare, ma San Jordi era il mio giorno. Il primo libro che mi ispirò fu Il gabbiano Jonathan Livingstone: avevo dodici anni e mi sembrò incredibile. Ebbi il mio primo contatto con la poesia l’anno successivo. Ero a Parigi, entrai nella libreria Shakespeare & Company e trovai un libro di García Lorca, Poeta a New York, tradotto in inglese. Mi incuriosì il fatto di aver trovato uno scrittore spagnolo tradotto in inglese, così comprai il libro. Mi piacque molto e da lì iniziai a leggere Neruda, Juan Ramon, Machado, lo stesso Lorca, i poeti “obbligatori”. Poi passai a Borges e a Cortázar. Mi era già chiaro che o mi sarei dedicato a quello o avrei potuto fare il cameriere, il postino, lo spazzino… Da sempre scrivere è la mia passione, faccio fumetti, scrivo recensioni di viedogiochi. Il mio interesse per i videogiochi è analogo a quello per il cinema e la letteratura, mi interessa la narrativa e i videogiochi contengono narrativa interattiva. Il livello generale non è molto alto, ma quando un gioco contiene una buona narrativa ti dà qualcosa di unico. In questo momento seguo con attenzione i videogiochi che propongono narrativa sperimentale, ce ne sono alcuni senza parole, si trovano anche esperimenti poetici. Credo che potrebbero dare una svolta alla concezione dell’arte. Da poco ho creato un videogioco, una visual novel, che in Giappone viene considerato un genere letterario a tutti gli effetti. Si chiama Andrei ed è un racconto ispirato a un film di Tarkovskij. È la storia del fantasma di un bambino che morì a Chernobyl.

3) Puoi raccontarci i tuoi momenti più difficili da scrittrice inedita e come sei arrivata alla pubblicazione?
Ci sono stati momenti difficili nella mia vita, ma non come scrittore. Perché sono sempre stato troppo giovane per preoccuparmene, credo. Ho affrontato dei piccoli fallimenti, come la mancata assegnazione di un premio che credevo di poter vincere, ma niente di traumatico. Ho vissuto momenti difficili scrivendo, ma questo è inerente al lavoro di scrittore.
Tempo fa ho avuto una depressione abbastanza forte: in pratica non uscivo dalla mia stanza. Allora mi sono fatto visitare da una psicologa, le ho fatto leggere quello che scrivevo e le è piaciuto. Mi ha detto che pensava che avessi delle buone potenzialità e che mi poteva presentar Gonzalo Canedo, l’editore di Libros del silencio. Anche a Canedo sono piaciuti i miei testi e mi ha suggerito di inviare un raccolto per l’antologia  Mi madre es un pez e da lì ho iniziato a pubblicare.

4) Di cosa parla Tokio Pigmalión?
Come suggerisce il titolo è la storia di Pigmalione e Galatea, ambientata in Giappone, nel ventunesimo secolo. Si ispira anche al film Solaris di Andreij Tarkovsky, un regista che adoro. Si tratta di pout purri poetico, nel quale ho preso l’idea di rivedere la persona che si è persa e di come questa ossessione può portare alla disperazione. Ho pensato che sarebbe stato interessante spostare la storia di Pigmalione e di Solaris a un contesto tecnologico contemporaneo e l’unico posto dove sarebbe stata verosimile, l’unico luogo dove una persona si può innamorare di un’intelligenza artificiale, è il Giappone. Parte della storia è ispirata da i freak giapponesi che si sposano con personaggi dei cartoni animati. In Giappone esiste un termine,  Moe, che si riferisce a quando ci si innamora di un personaggio di finzione. Il racconto trae spunto da varie tecnologie esistenti, per esempio un gioco che si chiama Love Plus e il cui scopo è trovare una fidanzata virtuale.

5) Cosa sta succedendo attualmente nella scena letteraria spagnola?
Gli autori spagnoli che leggo sono soprattutto poeti: Tomas Segovia, Angel Gonzales, Vicente Gallego, Antonio Gamoneda, Corredor Matheos, Carmen Borja yeAurora Luque. Forse le mie influenze narrative sono più anglosassoni che spagnole. Ho letto Uomini e topi quando avevo undici anni e successivamente Il grande Gatsby e Shakespeare. Adoro Oscar Wilde, non sarà lo scrittore migliore del mondo, ma di sicuro è uno dei più intelligenti. Ho letto sette volte Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, entrambe le parti: secondo me ha inventato il surrealismo e Alice contiene anche frammenti dadaisti. Mi piacciono molto i fumetti di Alan Moore, Neil Gaiman e Warren Ellis, i racconti di Ray Bradbury e la poesia di Billy Collins e Frank O’Hara. Inoltre, mi interessa la letteratura giapponese: ora sto leggendo Il lago di Yasanuri Kawabata e sto traducendo, per diletto, il poeta Kenji Mihazawa.

6) Che influenza ha la letteratura ispanoamericana su di te? La senti meno tua di quella spagnola? Quali sono gli scrittori ispanoamericani che apprezzi di più tra i maestri e tra i giovani?
Non sono mai riuscito a identificarmi con la narrativa spagnola, mi identifico molto di più con quella ispanoamericana: Borges, Cortazár, Puig, Sabato, Jorge Volpi, Juan Rulfo, Gabriel Garcia Márquez. In particolare, Cortázar e Borges sono alcune delle mie maggiori influenze. Borges era un genio e credo che la sua mente fosse sovraumana: ho il sospetto che fosse un extraterrestre super intelligente e questo spiegherebbe molto dei suoi libri. In Spagna c’è una pesante eredità di narrativa sociale e realista. Come diceva Oscar Wilde: «Chiunque chiami pala una pala dovrebbe usarla per lavorare». Scherzi a parte, non è che sia un genere che non abbia valore, ma a me non piace. La realtà è disgustosa, preferisco scrivere dell’irrealtà.

7) Com’è nato il racconto che hai pubblicato su “Colla”?
La storia si divide in due parti, quella narrata da me e quella narrata dalla mia amica a cui è dedicato il racconto.
Questa mia amica è morta a settembre. Mi aveva raccontato la storia di un uomo che aveva incontrato a Venezia, che non appariva nelle foto e che le aveva detto che lei era un ange pendu. Era una storia che raccontava sempre, la sua storia preferita. Era una produttrice, ma le piaceva molto scrivere: aveva pubblicato un romanzo giovanile intitolato Zafirot y la esfera perfecta, delle poesie e alcuni libri di cucina. Ma soprattutto era un’incredibile narratrice orale. Mi raccontava la storia di Graves come se fosse vera: lei e una sua amica erano fermamente convinte che la faccia di Graves non apparisse nelle foto. Non so fino a che punto si trattasse di un ricordo reale e quanto sia stato poi costruito nel tempo. In ogni caso, le avevo detto che un giorno avrei scritto la sua storia e quando ho avuto l’opportunità di scrivere per una rivista italiana ho pensato che fosse il momento giusto per mantenere la promessa. La sua idea era che Graves fosse un angelo, ma io ho pensato che sarebbe stato più interessante creare un personaggio che fosse una specie di Dr Who, ma imprigionato in un città, che potesse viaggiare solo nel tempo.

8) Qual è l’ultimo libro di uno scrittore italiano che hai letto? Qual è il tuo scrittore italiano preferito?
Hugo Pratt, soprattutto Mu  la città perduta. Ho letto molti romanzi di avventura e nessuno è alla sua altezza né Julio Vernes, né alexandre Dumas, né Emilio Salgari. Le storie di Corto Maltese sono una meraviglia: Hugo Pratt riesce a mantenere un livello intellettuale alto senza mai apparire pretenzioso, è sempre divertente, è sempre acuto. Scrivere letteratura d’avventura ed essere capaci di toccare temi filosofici e sociali, con la grazia con cui vengono affrontati in Corto Maltese, senza mai perdere l’intensità della narrazione è molto difficile. La storia continua ad avanzare costantemente e costantemente si imparano cose sul nostro mondo, si riflette e non si perde mai il filo. Hugo Pratt è capace di combinare tutto insieme e di fare in modo che tutto sia scorrevole.

9) Stai scrivendo qualcosa in questo momento? Hai qualche progetto?
Sto scrivendo un romanzo. Si chiama La Ciudad Doliente ed è ispirato ai miti e alla letteratura che parlano dell’inferno, alla Bibbia, Dante, Blake, Milton, la Cabala, la mistica indù e quella buddista. È la storia di un musicista che muore a New Orleans, ucciso dall’uragano Katrina e si ritrova negli inferi. Per me l’inferno è una società capitalista e grigia: ho preso un’idea distopica alla Brazil, mi sono ispirato a un certo noir retro-futurista e ho creato una città, Pandemonio, divisa in circoli. Il protagonista si trova nell’ottavo circolo ed è implicato come testimone nell’omicidio di un angelo. Contro la sua volontà si ritrova coinvolto in una trama di cospirazioni corporative, stile Chinatown. Gli angeli governano l’inferno e i diavoli sono i servitori. Non c’è molta differenza con la nostra società, è esattamente lo stesso schifo, con le persone che vengono manipolate dei media. La realtà de La Ciudad Doliente è analoga alla nostra, ma più aspra: ci sono solo quattro ore di luce, si tratta di una specie di inverno nordico, con la differenza che a Pandemonio fa molto caldo. Al centro della vicenda c’è l’apparizione di una droga che permette ai diavoli di sentire quello che sentono gli angeli. La domanda da cui è nato il libro è: «Cosa succederebbe se avessi un lavoro da otto ore al giorno, in un ufficio dove fai sempre le stesse cose, e sapessi che non andrai mai in pensione». È il problema dell’uomo moderno e la società capitalista, con la differenza che nell’inferno non esiste la morte, c’è solo dolore senza fine.

 

 

 

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