Bocciofila ‘39
di Giuseppe Rizza

Cosa cazzo avrà da ridere poi. Con la sua faccia sfregiata dall’acne.

1
Sto aggrappato al corrimano d’ottone.
Ho mani che cercano di farsi forza. Come una settantenne alla prima notte da vedova.
Il bancone è vuoto, se escludiamo qualche goccia sparsa, scampata al bicchiere.
Sembrano pozzanghere a un’ora dalla pioggia.
Alla mia destra, dopo il bancone e la lunga vetrata, un breve sentiero di ghiaia che porta direttamente alla bocciofila.
La bocciofila in realtà è un capannone usato pochi mesi all’anno, durante l’inverno.
E c’è chi, anche durante i mesi invernali, preferisce bocciare comunque all’aperto, nei due campi ricavati prima del sentiero che conduce al capannone.
Alla mia sinistra, invece, la porta a vetri che dà su una strada sterrata. È sempre stata così, l’asfalto qui non si è ancora spinto.
A meno di duecento metri c’è la stazione dei treni.
In disuso. Non è più in funzione da quasi trent’anni.
Ma io lo dimentico sempre.
Di fronte a me, fra le decine di coppe e targhe placcate, alcune foto incorniciate da un legno sottile.
Fra cui una. Quella di lui che ride, con la sua bella faccia violentata dalle cicatrici. Sembra lo schizzo di una mappa disegnato da uno scout alla sua prima uscita.
«Che avrà da ridere? Eh?».
«Avrà da ridere che ti ha fatto un culo così, e devo ammettere che non dev’essere stata una soddisfazione da poco» dice Gianni, seduto sull’unica poltrona del locale, proprio mentre, arrivato all’ultima pagina del giornale, lo getta sul tavolino accanto per trafficare con i tasti del televisore.
«È vecchio anche il televisore qui dentro» dice quasi fra sé e sé, come se fosse solo, l’unico in quella stanza. È un vecchio apparecchio in bianco e nero. Un modello che risale a chissà quale anno. Quando è al meglio delle sue funzioni, permette di far vedere per qualche ora non solo il primo, ma anche il secondo canale.
«Ha vinto una partita a bocce, tutto qui».
«Non ha vinto una partita a bocce, ha vinto la finale del torneo di bocce. E l’ha vinta battendo te».
«Questo non giustifica la sua faccia da culo».
Un leggero cigolio della porta. Entra Francesca. Capelli lunghi e biondi, bocca grande. Spesso viene a dare una mano al bar di suo zio.
Appende il cappotto color fumo e si sistema dietro al bancone, non prima di aver salutato me e Gianni.
«Di cosa si sta parlando, Prof?».
«Del fatto che a distanza di trent’anni gli rode il culo».
«Perdona le sue volgarità, Francesca».
Gianni inizia a scaricare una serie di pugni sul televisore.
«Devi sapere che anni fa, il tuo professore fu battuto in finale proprio da quel tipo incorniciato sopra la macchina del caffè».
«Ma chi, quella faccia da culo?» sbotta Francesca ridendo.
Gianni dirige il suo sguardo verso di me, che sogghigno alla battuta di Francesca.
«Vi siete messi d’accordo» aggiunge.
«Ci siamo messi d’accordo, Francesca?».
«Non mi pare» risponde lei, che nel frattempo lava un paio di bicchieri, dato che la lavastoviglie, come l’asfalto, da queste parti non ha ancora attecchito.
«Che anno era?».
«Che anno era cosa?».
«Quando il tizio ti ha spezzato le ossa».
«Il ‘71 mi pare».
«Ragazza, devi sapere» soggiunge Gianni cercando gli occhi di Francesca «che in quella finale il tuo professore non fece neanche un punto. Neanche uno. Da quel giorno, cerca ancora di riprendersi. Non è più riuscito a vincere nessuna partita».
«Si dà il caso che non ho vinto nessuna partita perché da allora non ne ho più giocate».
«Davvero Prof? Dopo quella finale non ha più giocato a bocce?».
«Già».
«E quel tizio che fine ha fatto? Non mi sembra di averlo mai visto qua dentro» chiede Francesca.
Mi volto per cercare lo sguardo di Gianni. Il suo cerca il mio.
Non è il caso di riaprire le ferite. Le mie sono state cucite malissimo.
«Il tizio ha fatto fortuna in Canada. Ha soldi a palate» aggiunge Gianni, dopo il nostro sguardo d’intesa.
Ma non li sto più a sentire, avverto solo un mormorio scomposto, mentre mi alzo a fatica dallo sgabello e mi dirigo verso la bocciofila.
Non esco. Rimango dietro la grande vetrata, con gli occhi fissi, ad osservare le due partite in corso, come un bambino rapito dallo spettacolo della pioggia.
Non resisto molto. I ricordi mi stanno sopraffacendo. Per loro sono facile terra di conquista.
Torno a sedermi aggrappandomi al corrimano che scorre lungo il bancone.
Ma fuori è una calamita. Avverto un sottile bisbiglio, un flusso di consonanti che cozzano, a volte si amalgamano, si aggregano con vocali e altre consonanti ancora, ma tutto è indistinto.
Non assume alcun significato per me. Nessuna funzione se non quella di disturbarmi mentre rapito seguo il lancio delle bocce, il loro singulto soffocato quando toccano terra, oltre i vetri, a una decina di metri da me. Una frequenza che tenta ostinatamente di intromettersi, per imbrattarmi i ricordi, per sporcarmi la visuale.
Vedo solo delle gambe. Lì, seduto al bancone, mentre Gianni e Francesca parlano di Canada e di investimenti riusciti – almeno così mi sembra – mi giungono tranci di corpi, scaglie di suoni, morsi del passato.
Sono dita, unghie, che rilasciano di slancio bocce color vinaccia o verde bottiglia, sono polpacci che si nascondono dentro pantaloni di velluto, muscoli rilassati e muscoli tesi, incroci di sguardi e di traiettorie possibili.
Mi risveglia solo il rintocco affannoso dell’orologio a pendolo, appeso in fondo alla stanza.
Due colpi che gli sono costati fatica.
Sono le quattordici.
Decido di uscire. Farmi una camminata fino alla stazione, come ogni giorno da anni.
Attraverso la sala e mi nascondo dentro il cappotto pesante.
Nessuno dei due mi saluta, né mi rivolge un cenno. Continuano a parlare.
Sanno dove sto andando.
È proprio nel momento esatto in cui abbozzo il gesto di afferrare la maniglia della porta, che una mano, dall’esterno, mi precede e mi fa andare a vuoto.
La mano anticipa l’ingresso di un uomo piuttosto grasso, avvolto in un cappotto color cenere.
Francesca e Gianni interrompono sillabe che non ricostruiranno più.
Si girano a guardarlo prima ancora che l’uomo sparga sulla sala parole impastate di saliva.
Io no. So già di chi si tratta. E poi vado di fretta.
Mi ritaglio un po’ di spazio fra la porta e l’uomo, e come un ariete m’infilo a testa bassa verso la nebbia.
È una nebbia gelatinosa, che si appiccica ai vestiti.
Soffoca i suoni, si fa ovatta.
Ma non ho bisogno di vedere per dirigermi alla stazione.
Poche centinaia di metri a destra, e lo sventolio perpetuo di una palma ne segnala la presenza.
Tutti qui si chiedono cosa ci farà mai una palma da queste parti.
Binario uno binario due.
Un orologio che a qualsiasi ora della giornata indica le 8 e 01.
Un foglio che non ricordo mai bianco, ma sempre ingiallito dalla polvere, soffocato dal sughero e dal vetro di una bacheca appesa al muro, per gli orari di arrivo e gli orari di ritorno.
È lui il vero capostazione qui dentro.
Mi siedo su una delle due panche di pietra bianca, sporcata di graffiti incomprensibili, e rimango a testa bassa.
Sento le tempie sotto le mani.
Rimango così qualche secondo.
Poi inizio a parlare.

2
Mi chiedo ancora perché non li danno via questi sgabelli, che non ho mai visto nessuno qui avere meno di sessant’anni. Di solito a quell’età il nervo sciatico è andato come il fegato di un bevitore.
«Ci vorrebbero poltrone» dico a Saverio «altro che sgabelli», e lui, mentre apre la cassa per raccogliere quattro spiccioli, risponde con un’espressione smorta della bocca: «i lettini di un’infermeria ci vorrebbero per tipi come voi, altro che poltrone».
Questa sera mi dice che da lì a un mese chiuderà tutto, bar e bocciofila.
Questa sera siamo solo io e lui.
La mia risposta è chiedere un bicchiere di vino rosso.
«La cassa ormai è chiusa»: così mi dice. La cassa ormai è chiusa. «È già tardi Prof, vada a farsi una dormita. Non credo che la sua sciatica ne migliorerebbe, perché ormai è andata da anni, però una russata delle sue non le farebbe male».
«Per prima cosa non russo, e poi chiamami Professore, o al massimo, se disponi di corto respiro, Professo’, alla napoletana».
«Ecco sì, Professo’».
«Senti un po’ invece. Devo chiederti un’informazione».
«Crede di riuscire a chiederla in meno di trenta secondi?».
«Immagino di sì».
Saverio si passa uno straccetto umido fra le mani, e si abbassa come in cerca di qualcosa.
Dopo qualche secondo ne viene fuori con un blocco di carte, afferra una biro e guardandomi dritto negli occhi mi chiede: «Si riferiva a questo, Prof?».
«È quella cosa lì?».
«Sì, è quella cosa lì, esatto».
Prendo la biro fra le dita della mano destra e scrivo il mio nome sulla prima pagina del blocco.
Saverio abbozza un mezzo sorriso.
«’Notte, Prof».
«’Notte, sì» dico, e me ne esco che sto già varcando la soglia pensando a come sarà trascorrere le giornate senza la Bocciofila ’39.

3
Mi chiamo Dino.
Ho superato i settanta.
Mia moglie dopo neppure due anni di matrimonio è scappata con uno di Modena.
Alcuni mi chiamano Prof. Altri Scerba.
Alla Bocciofila ’39 mi chiamano così perché sono un professore in pensione.
Insegnavo il complemento di causa efficiente, la proposizione oggettiva, la guerra dei cento anni, il biennio rosso, la tundra e la taiga, tasso di natalità, meriggiare pallido e assorto, io ero quell’inverno preda ad astratti furori.
Scrivevo cognomi su un registro, partecipavo a riunioni pomeridiane dove c’era sempre qualche collega assente, suo figlio potrebbe fare di più, le qualità non gli mancano, secondo le direttive dell’ultima riforma.
Solo una persona mi chiamava Scerba. Sosteneva assomigliassi a Scerbanenco, uno scrittore nato a Kiev, che qualche funzionario ministeriale ha dimenticato di inserire nei programmi scolastici.
La persona che mi chiamava così non so che fine abbia fatto.

4
Quando entro al bar della bocciofila c’è fumo.
Nuvole ammassate al soffitto.
A cadere è un insolito silenzio.
C’è chi si gira a guardarmi, chi si volta dall’altra parte e si gratta il capo.
Un silenzio che dura per due lunghissimi secondi.
Mi viene subito incontro Gianni. Mi prende sottobraccio mentre vedo il gruppo di avventori diradarsi lentamente, uscire in direzione del capannone.
«È tornato».
«Ah, ma chi lui?».
«Sei sicuro che stiamo parlando dello stesso lui?».
«E si è commosso vedendosi ritratto e appeso al muro?».
«Ah, l’hai saputo».
«Ho intuito, sì».
Dal retro sbuca Francesca. Ancora prima di posare una bottiglia sul tavolo, fa capire qual è l’ultimo argomento di dibattito alla Bocciofila ’39.
«Quell’uomo è di una spocchia senza pari. Ha parlato delle virtù della sua dentiera per venti minuti buoni».
«E, di grazia, a cosa dobbiamo l’onore del suo ritorno?» chiedo mentre mi tolgo il cappotto.
«È tornato a godersi gli ultimi anni qui, nel suo paese. In Canada cade troppa neve».
«Eh sì, il Canada non è un paese per pensionati».
«Dino, non credo abbia bisogno della pensione».
«Prof, a sentire lui, ha fatto fortuna oltreoceano. Stasera ci racconterà la seconda puntata dei suoi anni americani. C’è già la fila per ascoltarlo».
«Giusto in tempo per la chiusura» aggiungo.
Francesca mi guarda negli occhi. Un secondo appena.
«Di cosa stai parlando?» chiede Gianni.
Francesca torna nel retro.
Ormai devo dirlo. Almeno Gianni deve saperlo.
«Gianni, questi sono gli ultimi giorni della bocciofila. Mancano cinque giorni a Natale, e undici alla chiusura. Non ci sarà un nuovo anno qui dentro».
Gianni abbassa la testa. Appoggia una mano sulla mia spalla.
«Ma che dici?».
Si dirige verso la bocciofila.
«Che dici?» ripete ancora una volta.

5
Sono seduto sulla panca, ancora un altro giorno da solo, alla stazione.
Osservo la palma scossa dal vento.
Poi ho come la sensazione che qualcuno mi prenda a braccetto e mi porti via con sé.
Oppure che si sia seduto accanto a me, sulla panchina, e che abbia iniziato a parlare. A fare conversazione, come dice la gente per bene.
Ma il risultato è che tutto questo mi lascia tristemente confuso.
Non muta di molto il mio stato d’animo.
Mi riparo dentro l’impermeabile e faccio ritorno a casa.
In verità passo dalla bocciofila per dare un saluto veloce.
Gianni mi mette la mano sulla spalla.
Poi torno a casa. Fa freddo.
Cerco subito il letto e mi infilo dentro.
Anche se la sensazione che provo è che mi ci abbia messo qualcuno.
Aver vissuto per settanta anni non significa essersi abituati al dolore.
Chiudo gli occhi e riposo.
Credo che per un po’ funzioni.

6
«Come stai?» mi chiede subito Gianni.
«Ho smesso di chiedermelo da quando ho compiuto diciassette anni» rispondo.
«Cos’è questa storia del torneo?» mi domanda con espressione grave.
«Mi sono iscritto al torneo di bocce, cosa c’è di strano?» dico sorridendo.
«C’è di strano che è da decenni che non partecipi al torneo».
«Le bocce sono come la bici. Una volta imparato a pedalare non dimentichi più come si fa».
Non sorride.
«E come mai hai deciso proprio quest’anno di partecipare al torneo?».
«Beh, perché non ci sarà un prossimo anno. Ti ricordo che il 31 dicembre qui dentro chiude tutto».
Gianni indirizza uno sguardo in direzione di Francesca.
I suoi occhi sembrano dirle: «Gli spieghi tu come stanno le cose?».
«Prof» mi dice Francesca «ha deciso di comprare la bocciofila».
«Chi?».
«Lui» le fa eco Gianni.
Non sono un attore consumato. Non credo di aver incassato bene il colpo.
«Quindi questo viene qua dopo anni e anni che sta in Canada, e si compra la bocciofila?».
«Esatto» risponde Gianni.
Ordino qualcosa al banco.
«Un amaro, Francesca, grazie».
In pochi secondi la lingua s’impregna d’alcool. Mi accende la bocca.
«Ah, ti ricordo che fra due giorni inizia il torneo» mi dice sarcastico Gianni.
«E il tabellone è favorevole?».
«Non so cosa intendi per favorevole, dato che non tocchi le bocce da non so quanto tempo».
«Quello che voglio dire è: è stato fatto in modo che ci incontriamo per la finale o no?».
«Francesca, dai un goccio anche a me, per favore».
Il bicchiere si sporca di scuro, e Gianni beve tutto in unico sorso.
«Dino, lui non si è ancora iscritto».
Faccio segno a Francesca di versamene un altro po’.
Ora è la gola che inizia a bruciare.
«Mi deve concedere la rivincita. La possibilità di batterlo, di togliergli il titolo».
Anche Gianni indica il bicchiere. Altro sorso.
«Dino, tu per lui sei uno dei tanti che ha battuto. Sei tu che ne sei ossessionato, lui nemmeno si ricorderà di te. Quello non è stato l’unico torneo che ha vinto. Sei uno dei tanti, Dino. Uno dei tanti che ha sconfitto».
Mi alzo. Recupero il mio cappotto.
«Ciao a tutti» dico.
Poi torno indietro e ingurgito un terzo bicchiere.

7
Negli ultimi due giorni non sono uscito di casa.
Mi è venuto più facile pensare.
A volte non fa così male.
Oggi ho aperto la porta e nevicava.
Allora l’ho richiusa e sono entrato dentro.
Per osservarla meglio.
La neve, per apprezzarla cadere, la si deve osservare da dietro le finestre.
Sono rimasto così per una decina di minuti. Mi sono parsi sufficienti.

Fra mezz’ora c’è il mio primo incontro.
Anche se Gianni non è d’accordo ingurgito un goccio di whisky.
Gli chiedo se nel frattempo Mister Acne si sia iscritto al torneo.
Mi risponde che ci stanno già aspettando. Lo interpreto come un no.
Il mio primo avversario si chiama Alberto, ha settantasette anni, e a quanto pare si è iscritto solo per far contenta la figlia.
«Papà, superati i sessanta, un hobby lo si deve avere».
Dice di averle risposto che forse era in evidente ritardo, e che lei aveva aggiunto: «Papà, ma quando si è in forte ritardo, è meglio rimanere a casa o andare comunque all’appuntamento?».
Rimanere a casa, senza ombra di dubbio, penso io.
«E allora eccomi qua. L’ultima volta che ho bocciato era agosto. Non ho idea di quale anno. Ricordo solamente un sole come una fionda».
Lo batto facilmente.
Probabilmente non è l’hobby adatto a lui.

8
Il trucco è stato quello di figurarmi la sua faccia in quella degli altri.
Ogni avversario che mi capita sotto tiro, io mi immagino lui, con il suo bel faccino sfigurato dall’acne.
È stato così anche per la partita degli ottavi di finale.
Ritaglio la testa del settantenne di turno e al suo posto incollo quella di Mister Sfregio.
È lui che sfido. Lui che batto.
Qualche psicologo lo chiamerebbe training motivazionale.
È sufficiente per un paio di partite.
Poi sfodero qualche colpo dei miei, imparato quando ero ancora un ragazzino, in spiaggia, in una delle mie estati siciliane.
Il mio trucco è il trucco.
Si chiama così quella mossa con cui togli la boccia avversaria più vicina al pallino e al suo posto riesci a mettere la tua. Ovviamente con un unico lancio.
Con un’unica bocciata sottrai il punto vincente al tuo avversario e riesci pure a prendere il suo posto vicino al pallino.
È nota anche come fermo.
È una mossa impegnativa. È già difficile bocciare, cioè allontanare la boccia avversaria, qui in più non ti puoi limitare a scalciare l’avversario, devi proprio prendere il suo posto.
È l’asso nella manica. Il coniglio che esce fuori dal cilindro.
E comunque, sia detto per inciso, ho ragione io: il talento non va mai in soffitta. Neanche in età pensionabile. Rimane semplicemente nel ripostiglio. Quando ti fa comodo, apri la porta a soffietto, e il gioco è fatto. Senza bisogno di salire o scendere le scale.
E così, grazie al trucco numero uno e al trucco numero due, mi ritrovo in finale.
Ancora una volta, a distanza di tutti quegli anni passati in mezzo.

9
Oggi è l’ultimo dell’anno. Il giorno della finale del torneo, giù alla Bocciofila ’39.
Al momento di certo c’è solo che questa notte andrò a letto presto. Capita così.
Ci sono età in cui non puoi permetterti di festeggiare. Sarebbe un gesto d’estrema fiducia nei confronti dell’umanità.
E non ci sono i presupposti.
Dopo giorni di tregua anche oggi nevica.
La finale è prevista per le 11.00 del mattino.
Il mio avversario si chiama Giuliano Friso, e non ha ancora compiuto i fatidici settanta anni.
Piacere, Dino Sparagna, una moglie fuggita con uno di Modena.
Mormorano che il mio avversario sia decisamente più forte di me.
Dicono che non c’è partita.
Aggiungono che questa volta non ci saranno trucchi che reggeranno.
Giù la maschera.
Faccio colazione con un bicchiere di vino. Rosso.
Avrà macchiato tutto lo stomaco.
Apro la porta di casa.
Ci sono tracce di neve.
Rientro per vederla meglio.
Bastano cinque minuti.

10
Prima di entrare mi tolgo il cappotto. È umido di nevischio.
Che il bar sia pieno di gente me ne accorgo già mentre parcheggio l’auto.
Gianni mi prende subito la mano fra le sue, e all’orecchio mi dice di stare tranquillo.
Certo, gli dico, non siamo mica alla maturità.
Un secondo dopo mi raggiunge anche Francesca. Mi sussurra probabilmente qualcosa di ben augurante.
Non capisco granché.
Perché intanto guardo lui, Mister Sfregio. Si sta dirigendo verso di me.
Si è fermato a un metro da me.
Dice vi prego, fate silenzio.
E tutti in pochi secondi smettono di parlare.
È un discorso del tipo “oggi ho l’onore di”.
Mi cerca le mani. Le nascondo dentro il cappotto. Alza il braccio del mio avversario. Poi lo libera.
Dice che è una giornata importante. Che questa data se la ricorderanno tutti per un po’.
Certo, non per tantissimo, dice, data la vostra età.
Ridono tutti. Alcuni si toccano.
La vostra età. Lui è immune al contagio.
Aggiunge che ha già voluto una novità per la finale del torneo.
Per la prima volta anche il perdente della finale riceverà la sua coppa. La sua coppetta, la chiama.
Finisce dicendo che si sta chiudendo un ciclo. Che da domani un altro ne inizierà. Un nuovo corso.
L’annuncio è ufficiale. È il nuovo proprietario della Bocciofila ’39. Applausi degli astanti.
Non mi fa gli auguri.

11
La storia del talento non è poi così vera.
A volte si esaurisce.
Le mie tre riprese le perdo in poco meno di venti minuti.
È un evento indolore.
Se escludo che spesso mi ritrovo la sua faccia intorno, con gli sfregi che mi fissano.
Non c’è neppure bisogno di fare uno sforzo d’immaginazione.

12
Tutti hanno parole di conforto mentre tengo la mia coppa in mano. La mia coppetta.
Gianni sembra più triste di me.
Francesca, con un sorriso più debole di altre volte, mi augura un sereno anno nuovo.
Rientro a casa e dormo a lungo, senza mangiare altro che qualche grissino.
Mi risveglio che sono già le nove di sera.
Non è che mi metta a riflettere a lungo. Ma decido di trascorrere un Capodanno diverso.
Scendo in garage insieme alla coppa vinta qualche ora prima.
E dopo qualche minuto riprendo l’auto.
Apro il cofano. Lo chiudo.
In pochi minuti sarò fuori dal paese, davanti alla Bocciofila ’39.
Si avvertono comunque i rumori dei festeggiamenti.
E nevica ancora.
Il freddo che punge, filtra attraverso uno spiraglio del finestrino e invade l’abitacolo.
L’aria gelida mi taglia il viso.
Il piede schiaccia il pedale. Non ho mai visto l’indicatore di velocità spingersi così in avanti.
Quando arrivo a destinazione stringo entrambe le mani sul volante.
Fisso per quasi un minuto il biancore che avanza.
Poi scendo e sbatto la portiera.
Afferro il cric.
Colpisco forte. Più forte che posso.
Il vetro si rompe.
Ma non è ancora abbastanza.
I festeggiamenti continuano.
Do un altro colpo. Ancora più forte.
Il vetro dell’entrata finisce tutto all’interno.
Entro senza difficoltà.
Calpesto le schegge.
Saluto FacciadiMinchia.
È ancora in posa, dentro la foto, appeso al muro.
Prendo una bottiglia di qualcosa.
Spero sia whisky.
Esco e torno in auto.
Poso la bottiglia sul sedile accanto al guidatore, dove c’è già la mia coppa.
Ne rubo un sorso.
Apro il cofano.
Prendo la tanica di benzina che tengo di scorta in garage. Mi dicevo che poteva sempre tornare utile un giorno.
Così è stato.
Spargo benzina all’interno del bar. Sul bancone. Sul pavimento. Fino all’ultima goccia.
Mi metto in strada, a qualche metro di distanza dall’entrata.
I festeggiamenti continuano.
Cerco con la mano, dentro la tasca del cappotto, la scatola di fiammiferi.
Ne accendo due, tre.
I festeggiamenti continuano.
Il bar inizia a prendere fuoco.
Torno in auto.
Ho la mia coppa accanto. Secondo posto.
Bevo dalla bottiglia godendomi lo spettacolo della Bocciofila ’39 che sta per andare in fumo.
Qualche paio di minuti, il tempo di scolarmi la bottiglia, poi penso che è meglio andare.
I festeggiamenti continuano imperterriti.

13
Stamattina mi alzo dentro un nuovo anno.
Apro la porta, c’è neve.
Rientro in casa per vederla meglio.

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