Catalogo dei baci
di Alessio Arena

A Elena Selillo,
sopra a una sedia senza far niente.

La figlia di Sion
è rimasta come un frascato in una vigna,
come una capanna in un campo di cocomeri,
come una città assediata
Isaia 1:8

Legato mani e piedi com’era stato negli ultimi giorni Ulisse non aveva potuto volare.
Tutto quel fieno e quell’odore di marcio, lo tenevano costretto alla compagnia di un giovane palafreniere che abitava dall’altra parte del paese, uno che l’avrebbe tenuto a bada, disse, senza alcuna provvigione, ma per diletto e per curiosità cristiana.
Ulisse aveva tentato di pregare qualche volta, simulando una voce timorosa, ma l’uomo l’aveva sempre stroncato.
«Tu sei giacobbe, vicchiariè, non fare finta ca sennò te ne muori proprio qua!»
«Che dicite? Io c’ho la stessa paura vostra, non c’entra niente questo.»
«C’entra la figlia di Don Felice che vuole fare la francesina pure lei, e voi ve la siete zucata invece di farci la predica, o no?»

Caro Combangnio,
mi dispiace che la zoppia alla gamba del cavallo.
Dietro lungo tempo che è stato alla mia casa è stato inguaribile, siccome di una licenzia sua di poca collaborazione, e maleducata, che figuratevi le pose della ‘gnora madre mia modestissima a sopportare tale niclagenza.
Detto cavallo, le ultime sere passate alla mansione di Altavilla, è stato nitrendo malamente tanto a diventare nostro gallo di controra.
Lo medico signor Emanuele Diodato addì 20 Settembre gli somministrava i sonniferi da voi consigliati meravigliandosi non poco delle abbondanti lagrime di lui nel sottoporsi alla sua attenzione, pertanto indolore e sopportabilissima.
Il cavallo ha poi parlato, confessando tutto e dappiù altre che mi riguarderò.
Ha da freddarsi a tempo debito per attaccarsi testa e mani alle mura della Vicaria.
E non altro.
Mi dico per sempre e mi segno,
il vostro combangnio,
Felice Musco.

Nella camera 16 del padiglione aragonese s’era avuto l’intervento del pubblico ufficiale quasi tutta la notte, intervento mediato dalle intermittenze di raccoglimento che il Capo Masto, il suo respiro gigante, imponeva agli altri concorrenti al nocciolo della discussione, ferocissima.
Il messaggio capitale era arrivato per mano di un ragazzetto buttato dentro in mattinata, ossuto anche lo sguardo, il sorriso retto da guancia a guancia.
«Mi sono fatto arrestare per rispetto a Don Felice e per mi meritare l’attenzione vostra – aveva spiegato una volta riconosciuto il Masto della cella – c’ho sfregiato la faccia alla figlia della carnacottara che sta alla loggia di Tuleto.»
«Problemi tuoi se ti devi sposare a una prostituta, dimmi che sei venuto a fare.»
«Questo lo vedete subito… quando mi farete fare la tirata, per diventare uno come voi.»
«Uagliò, qua dentro non ci sta bisogno di altri compagni, vuol dire che ci laverai la faccia a qualche Santo, se ti piace, e poi quando te ne esci vediamo se ci puoi acchiappare qualche grazia…»
«Non abbasta quello che ho fatto per entrare?»
«Perché Cristo ti ha mandato, me lo dici?»
Lo afferrò per il collo.
«Tengo una lettera.»
Così aveva detto, ma di lì a poco s’era realizzato che nessuno sarebbe stato in grado di leggerla, e men che meno il malcapitato che, avviata la bolgia, aveva cominciato a cacare sangue a destra e a manca.
In quello che era il covo più furente della setta, ovvero le prigioni di Castel Capuano, negli ultimi periodi, l’unico vero segretario di questi poveri timorosi briganti, arruolato come depositario di segreti confessioni aberrazioni sospensioni di giudizio e bestemmie su carta scritta, era stato proprio Ulisse, il vecchio prete che adesso si diceva zoppo.

Elena adorata,
oggi ho pensato tutto il giorno a come la mia vita sia cambiata negli ultimi anni.
Da quando ho cominciato ad avvertire i primi malori, che tu non c’eri ancora, e io nemmeno sapevo cosa mi dicesse Dio di diventare, e poi al primo nostro incontro, che ti ho riconosciuta, io amo dire, e quando tu hai scoperto in me questo maldestro affare di potermi tenere in piedi a metri sopra la terra, cosa che pure mi ha commosso fin da sempre, il modo tuo indigesto di farne segreto con gli altri pochi confratelli.
Ricordo ancora la prima volta che mi svegliai vedendoti sorgere dall’orto del convento credendo io di stare così fermo come Cristo in croce, e sorprenderti vaga e felice mentre t’eri accorta che ti chiamavo da uno dei due sicomori che irradiavano la luce nella stanza, pesti come saranno ora ancor adesso, fioriti al legno dell’imposta della gran finestra centrale.
Come credevo io di volerti bene, Elena, quale allegria di potermi legare a te per sempre!
Purtroppo vengo a dirti dell’infelice mia sorpresa di quel signore padre tuo corrotto in spirito quanto nella temibil tempra che ho dovuto credere gli venga proprio dal demonio.
Intanto non vorrò tediarti nel rendere alla cara Judith, cui affido questa lettera, l’oneroso ardire di trasporti a voce le sofferenze mie che pur meriterei di metter sulla carta.
Lei ti dovrà clamare questo mio senso di ombrosa latitudine che porto dentro anche quando in ceppi e sorvegliato a vista.
Ho avuto mal a una gamba, sopra tutto, credendo di non potermi più levare e dar simulacro al padre tuo del mio segreto.
Pur tuttavia ho portatogli nuove preziose balzando in là dai tetti del ponte in Chiaia ed origliando ad una di quelle immense vetrate del palazzo Serra di Cassano.
Si affabula colà che il re non facciasi ammaliare dai vittoriosi moti dei contadini negli Abruzzi e si prepari a partire per Trieste o ancor più per la Sicilia.
L’amabile Mariantonia dei Carafa sorprendevami a chieder confessione, quando poi dissimulando il mio volubile atterraggio tra le cianfrusaglie di un cocchio in avaria camminavo con passo svelto per la Via Egiziaca.
Credetti, lo confesso, a un facile raggiro della nobildonna, ma ella mi ha aperto il petto chiedendo di affidare l’anima sua al Santo e di pregare molto per quel popolo ch’ella ignora avermi visto rotolare molte volte dal monte di Somma quando ancora forse non ero pronto.
Giunto che fosse il cuore mio a sopportare la tua lontananza, Elena, io potrei anco lasciare Napoli e seguir la corte, e abbandonare la casa al Largo delle Pigne che passerebbe a Donna Judith Vanacore che tanto patì della mia vergogna.
Ma tanta pena non potrei levar con me, che il tuo ricordo caro e della tua gentil signora che ha raccolto le tue grazie, non mi farebbero tentare nemmeno un passo in aria.
A lei che sta leggendoti questo andrebbe il mio febbril saluto se piacere avesse anco di perdonarmi l’ultimo mio bacio a te,
vucchella ‘e ddio, core angiaruso, ciore arangia,
Padre Ulisse.

«Che chiagnite?»
Lady Judith ebbe un sussulto, come se quasi si fosse dimenticata della ragazza ch’era rimasta lì sedutale di fronte, lo sguardo perso oltre la finestra dell’enorme salotto dei Vanacore, cui ammiccavano i bagliori della vecchia locanda di Monzù Arena sulla strada di Santa Chiara.
In realtà Elena, per un attimo, aveva temuto un qualche commento sulla chiusa della lettera.
«Che altro debbo fare, neh? Forse non lo rivedremo più nemmeno una volta, Elena…»
«Non lo dite nemmeno pazzianno – la interruppe con un gesto che la lasciò spettinata – non ci faciarranno niente di troppo pericoloso, è un prete, mio padre non si mette dentro a queste cose.»
«E invece ti sbagli, non ti devi fare illusioni, arriveranno i francesi e nelle carceri nessuno potrà fare ordine… la gente incaricata per queste cose sta dentro, si sa, e ne usciranno pure solo per comprarsi il pane.»
Elena la guardò improvvisamente divertita, gli occhi le si strinsero in uno sguardo ammirato e nello stesso tempo incuriosito dalla immobile mole dolente di Judith Vanacore, amabilmente ingarbugliata nel pizzo della sua poltrona, quasi a diventarne parte integrante, dipendenza umana di quello che era il pezzo migliore della immensa casa decaduta di famiglia, la stessa casa che, raccontò una volta ad Elena, il defunto marchese Guglielmo aveva maledetto prima di spirare, decretando che non vi camminasse in essa uomo alcuno che avesse visitato il corpo di una donna.

«Mia madre ha partorito dodici volte qua dentro – aveva spiegato Judith – tutte femmine, tutte votate alla Vergine, tranne me che quando nacqui vomitai sul pavimento il segno di una croce.»

Da allora nessuno poté dire di aver visto Judith Vanacore uscire da quella casa, dacché era bambina vi era stata relegata come segno di rispetto e di pentimento per il gesto di scempio col quale era venuta al mondo, del resto presenziato allora da Donna Chiarella De Sanctis, levatrice rispettata da tutto il quartiere, calabrese di origine, che non indugiò a colorire l’accaduto raccontando di essere stata addirittura morsicata dalla bambina.
Elena, che da poco vi era stata introdotta dalla moglie dell’ambasciatore inglese, vecchia amicizia dei Vanacore, si era chiesta spesso come Lady Judith facesse a vivere in quella casa da sola, intrappolata com’era nelle trame di tessuto di quella sua poltrona, ma esitò sempre ad azzardare domande sull’argomento.
Amava sempre di più Lady Judith e ancora più spesso le faceva visita, nascondendolo al padre, per starla anche solo a guardare, beatamente assisa in quella pur assurda prigionia che addirittura sembrava darle diletto.
Sembrava appunto che la cosa più naturale al mondo per Lady Judith era essere legata a quella poltrona.

Certo la curiosità di Elena non perdeva quota intorno ad altri casi.
«Perché Ulisse si fida solo di voi?» le chiese portandosi intanto alla finestra, quasi pentita delle parole appena pronunciate.
«Che cosa vuoi dire?»
«Voi… come l’avete conosciuto?»
«È tardi, Elenuccia, la tua carrozza aspetta alla Calata della Trinità. Cos’altro ti dovrai inventare, se ti trattieni così tanto?»
«Perché fa così? Se voi lo sapete me lo dovete dire.»
«Ho paura di non essere in grado, non ti saprei spiegare il perché, dentro le persone ci stanno un sacco di cose, e a volte stanno lì senza motivo. Neanche io capisco perché Ulisse si mette ad aspettare tutto questo tempo, perché si arrende.»
«Perché non se ne va via, se può?»
Judith sorrise tra sé.
«Mi ricordo la prima volta che l’ho visto volare: era là sopra arrampicato sull’obelisco di San Domenico, e poi in dritta verso il vecchio campanile della chiesa di San Gregorio, a volteggiare, tremando, come se il suo peso dipendesse dalla foglia di una quercia, una di quelle altissime che vedi sulla strada di Capodimonte, hai presente?»
Elena la ascoltava come si ascolta un temporale.
«Lui senza quasi fare un gesto, tra la folla di tetti dei tribunali, mi ricordo che potevo sentire come la sua tunica nera si deformava dentro le prese di vento perché perdeva quota, si avvicinava ai lumi delle finestre del centro, e lì cominciava a sembrare come liquida, Ulisse girava su se stesso… era una nuvola impazzita che veniva giù, come per pioversi addosso. Mi avesse visto qualcuno, Elena, non riuscivo a smettere di ridere. Risi come non mi era mai successo in vita mia. Era Ulisse, volava sopra Napoli con la grazia di un pesce fuor d’acqua, ispezionava distrattamente la città dall’alto, con la promessa di ricaderci, pensai, senza troppo fastidio. Risi molto perché l’avevo riconosciuto.»
«Come l’avete conosciuto voi?» Elena si riaccomodò, il suo viso di terra bruciata.
«La mia vecchia nonna, Donna Assunta Vanacore, un giorno introdusse in casa un giovane novizio al quale era stato affidato il compito di pregare per una condannata come me. Mi ricordo di non avergli rivolto parola se non dopo molti giorni di visita…»
Lady Judith indugiò improvvisando un finto colpo di tosse.
Elena ne colse l’imbarazzo, «Continuate» le disse.
«… Era pur sempre l’unico uomo che mi fosse dato di vedere, eccetto mio padre. Mi sentivo come insospettita dal suo sguardo, che era troppo vivo, troppo allegro forse, pieno di cose… uno sguardo gravido di una grandissima emozione senza sfogo. I nostri pomeriggi in questa stanza si riducevano spesso a discussioni sul libro di Giobbe, o ancora meglio sull’Apocalisse di San Giovanni ch’egli amava citare soprattutto in presenza di mio padre… battagliava impunitamente contro le sue invettive monarchiche. Venne il tempo però di scoprirci, e questo da parte sua significava riscoprire solo per me, per raccontarmelo, un’intera città. Io non sapevo niente di Napoli, non avevo mai calpestato le sue strade, non mi ero mai persa nel disegno dei vicoli, delle rade di Posillipo, degli intrighi del porto. Ulisse sarebbe stato ordinato prete di lì a poco. Io non immaginavo che sapesse volare.»

Elena era stata ad ascoltarla, ma aveva sentito come d’improvviso un pesante languore caderle giù dalla testa fino a doverle congedare le mani dai braccioli della sedia, che adesso dondolavano nervosamente sulle ginocchia.
«Che cosa hai, Elena?»
Lady Judith storse gli occhi in una quasi fatale espressione di ingenuità.
La ragazza trovò la forza di rialzarsi accompagnando il gesto con un piccolo urlo che proseguì serpeggiando nel resto della casa.
«Quando sono così ferma mi viene sempre paura di morire» disse.

Preghiera
al glorioso nostro principal
protettore S. Gennaro.

Da farsi più volte al giorno negli attuali bisogni.

O Invitto Campione della nostra Santa Fede, gloriosissimo S. Gennaro, Protettor vigilantissimo della Città, e del Regno di Napoli, eccoci a’ vostri piedi prostrati, caldamente pregarvi; che se in tutte quante le occasioni più ardue e difficili siam sempre con gran fiducia a voi subitamente ricorsi, per ricevere aiuto e difesa, questa volta però attese le gravi e pressanti circostanze in cui siamo, con maggior fervore, e speranza, imploriamo il fervente vostro patrocinio, trattandosi di affare che interessa la Vita, lo Stato, e la Religione.
Una nazione da più anni lontana da Dio, e dalla Chiesa, insidia la nostra vita, combatte il Principato, vuol distrutta la Santa Fede; ch’è quanto dire, si oppone direttamente alle mire del singolar vostro affetto verso di noi. A voi dunque in siffatto pericolosissimo incontro, a Voi ricorriamo, che stato siete da Dio costruito Ministro delle sue Grazie sopra di Noi; affinché siccome già un tempo difendeste la Città di Napoli contro agli assalti de’ Longobardi, de’ Saraceni, di Roberto Guiscardo, e del principe di Capua Riccardo, e fin veduto già foste in abiti pontificali accorrere dal Cielo, e con lancia in mano sbaragliar le schiere nemiche, per sostenerci e salvarci, così essendo in oggi eguale il pericolo, a favor nostro ben anche facciate in oggi eguali pruove di zelo: e se per noi in persona guerreggiar non volete, impetrateci almeno dal gran Signore degli Eserciti opportuno coraggio per poter con bravura prender le armi, offerir le nostre sostanze, e dar, se sia d’uopo, anche la nostra vita, per non restare vittima di gente incredula, e disumana.
Fiat pax in virtute tua, e così sia.

L’odore nella locanda era di carne marcia, di carne al caldo, di Peppino Spaccapaese che invocava il suo alito incarnito ad ammaliare i primi avventori della sera, di fatto già ubriachi, lerci dalla fatica, asfissiati.
Gli ospiti erano sempre i soliti, le sentinelle incartapecorite della piazzetta del Nilo, dove i bravi di Monzù Arena tenevano protetto un armamentario messo su per devozione al figlio di lui, Cristiano, un tempo guardia al palazzo del Re, morto in una battuta di caccia in quel di Caserta, per difendere Ferdinando da un lupo.
E poi i mendicanti di turno che chiudevano le proprie botteghe ambulanti attorno alla guglia del Gesù nuovo, sazi di quel sole di Dicembre che tirava la faccia a lutto già dalle prime ore del mattino.
Stasera però c’era Peppino Spaccapaese, e lo spettacolo era garantito.
I capelli lunghissimi attorcigliandosi attorno al collo, gli occhi velati dall’ombra delle sopracciglia, il possente petto, il fare dondolante ma aggressivo delle sue mani nell’aria a raccontare le storie di ogni volta.
Ciò che tradiva l’aspetto fiero della sua figura era senz’altro la voce.
Una scheggia di ferro durante un’esercitazione militare al largo di Procida l’aveva colpito a un polmone che subito s’era risucchiato tutta l’aria che aveva in corpo facendogli gridare il resto, e a quanto pare molto di più: tutta la sua voce di prode marinaio e antico ufficiale capo del Real Cantiere di Castellamare di Stabia.
Adesso Peppino Spaccapaese parlava come una signorina.
Il suo falsettone malandato ti arrivava giusto alla pancia, una minima sciocchezza abbozzata su quel tono da impiccata faceva cacare grosse risate a qualsiasi uditorio.
«A verità a me nun me passa manco po’ cazzo ‘e ‘sti sfaccimma ‘e giacubine ‘e ‘sti sfaccimma ‘e francesi ‘e sti sfaccimma ‘e rre e riggine ‘e tutti ‘e ‘sti sfaccimma ‘e latrenare ‘e sta sfaccimma ‘e città ca caccieno a ‘sti sfaccima ‘e lazzari pe’ sotto e ‘ncopp sultanto pell’avutare lu stommaco a me…»
Prese fiato dal boccale di vino che uno degli incauti spettatori gli stava offrendo, poi si ricompose ergendo la sua mole molesta tra i tavoli che adesso quasi gli facevano cerchio; con uno scatto scimmiesco si alzò sulla pancia quella specie di tonaca da prete che sembrava essere il suo unico vestito.
«… A ‘na povera pucchiacchella comme me!» piagnucolò, nel fragore divertito dell’intera locanda.
«Verite, verite, primma tanta commuziona cu lu core mmano pe’ San Gennaro e po’se fa ascì ‘sti rrose ‘a vocca» si introdusse Monzù Arena balzando dal lurido cortile del retro dov’era stato distribuendo i resti della serata ai cani.
«Uè,‘a rò è ‘sciuto Monzù?… Me pare la bonanema re lu vicerè re la Sicilia, quando lu truvajeno arraggiato ‘e veleno rint’ a lu campo de la prinzapessa de’ Cazzero… – imitandola con un lesto saltellino sulla sedia – … chino ‘e mmerda re li cavalle suje!»
«Nun stevo appriparannome pe’ me scofunare a chella vajassa ‘e soreta…» rispose prontamente il locandiere, forse anche un po’ imbarazzato per il facile apprezzamento sulla sua non troppo candida mise notturna.
«Ah, ca ve puozzano alligerire chella panza roppia ‘e pasta ca tieni, tutte queste femmine ca vi scufunate, accussì doppo putite venire da mé, ca songo la beata concessione sempre vergine di tutti li vecchi scufunaturi de lu Regno.»
«P’ammore ‘e Dio! Nun vulessimo arruvinare la storia d’ammore tra vuje e il sempre vergine generale nostro Giuvanniello…» irruppe un uomo scurissimo in volto, i capelli radi sulla fronte, forse bruciati.
«E chi sarrìa chest’ata femmenella ca parla mmiezo?»
«Don Felice Musco, per servirvi.»

Si fece silenzio tutt’attorno.
Monzù Arena era stato l’unico a riconoscerlo, prima ancora che aprisse bocca, l’aveva visto seduto tra gli altri, sudato, solennemente indaffarato nel dissimulare un ridicolo singhiozzo.
Fissava Peppino Spaccapaese mantenendo un’espressione in bilico tra il disgusto e una certa forma di curiosità, maniacale, che gl’era propria, caratteristica se non altro di quei signorotti della malavita come lui assegnati a difesa di qualche borghese repubblicano.
La gente non ricordava criminali tanto feroci come a suo tempo lo era stato Don Felice Musco, famoso, a quanto pare, anche per un insolito carteggio che aveva tenuto dal bagno di Procida dov’era stato rinchiuso per anni, con niente meno che il magnifico vicario del re, il Cardinale Ruffo.
Si diceva ch’egli avesse avuto l’ardire di perdonargli e assolverlo dall’assassinio di sua moglie mediante un decreto reale, né più né meno.
«Parlavate di Giuvanniello Acton, o mi sbaglio?» si era subito corretto Peppino, il viso pallido, gli occhi di mela marcia.
«Chi, se non lui, caro Spaccapaese? Tengo fonti assai autorevoli che mi dicono quanto ancora va per avanti il vostro sposalizio.»
«Don Felice mio, voi non sapete cosa dite – gli disse – Acton perdette la capa pe’ la riggina in persona, ca pure non fa mai la schifenzosa, questo sì, però a lui se lo tiene un po’ a stecchetta. Io sono solo un suo aiutante nei casi più plebei» rise sforzandosi di essere il più riverente possibile, smorzando intanto la premura di capire a cosa volesse arrivare Don Felice.
«Chillo, ‘o ‘nzevatone mi ha sputato pe’ tutte le carne a tempo suo, quando eravamo le riggine de la marina assieme io e isso, mi voleva mettere incinta, vedite nu poco!»
Ma l’accanito pubblico della locanda non sembrò rispondere a quest’ultima provocazione e attorno era ancora il silenzio che faceva vibrare più lentamente il singhiozzo di Don Felice.
«Io non c’entro niente con Acton, io ci sciolgo i sonni.»
«E allora fateci qualche confessione, no? Monzù Arena sarà contento che in casa sua facciamo un po’ di aurienzia alle cose di palazzo riale, jate pure, raccontateci qualcosa.»

Peppino si sentì frastornato, non era abituato a fare di quella che era venuta a essere la sua principale occupazione un argomento di pubblico interesse, e del resto a chi poteva interessare che il generale Acton sognasse spesso di seppellire la testa mozzata di re Ferdinando nella latrina massima del Sedile di Porto, oppure che si mettesse a considerare con detta testa il crescente problema della poca igiene di Carolina, che se la portasse a braccio per Sant’Elmo fino a poi adagiarla nel cannone maestro della più alta torricola del castello e sputarla giù quasi fino a Ischia, in un campo di cavoli?
«C’ha questa ossessiona pe’ la capa de lu rre. Ci parla, ci gratta il naso, ci piscia ‘a copp’, ci caca. Quello là si sarrà preso una malatia a lli cervelle per lavorare pe’ la corte. Si sente minacciato da tutti quanti, pecché tiene paura ca scoprono le sue magagne. Le ultime volte una confessione overo me l’ha fatta: ca pe’ mezza ca lu rre e la reggina si cacano sotto della attuala situazione, vonno spogliare la città intera de li ricchezze loro e li mettere a salvo. ‘O generale fa sempre accussì… se proprio una volta nun se la riesce a sunnare, la capa, mi racconta ca vede Napule scesa tutta quanta a mmare, cu la ggenta ca si affogga mmiezo a li nnave giacubbine e ‘ngopp a lu Vesuvio ‘nu fumo attuorno a n’ommo ca vola pe’ chelli parte e sta alluccano ca isso li giacubine nun lo putarranno mai piglià… ca isso è figlio ‘e Ddio!»
Qui si fermò, gettando gli occhi sulla fronte mozza di Don Felice Musco.
«Don Felì, ma lo sapevate che vostra figlia trase e jesce da la casa de li Vanacore. Se la facesse con quella pazza di Giuditta, l’inglesina, chella che fuje… come avessa dicere… violentata da lu bravo prete?»
Don Felice rise nervosamente, poi saltò dalla sedia che, scaraventata in un angolo della locanda, ruggì nelle sue trame di paglia.
Arrivato a prendere Peppino per il collo lo strinse così forte da fargli sanguinare il naso.
«Non ti mettere dove nun tieni licenza, ca ne pierdi salute.»
Poi lo lasciò stramazzare a terra, Peppino si contorceva come fosse stato in preda ai dolori di un parto, trascinandosi sempre più vicino agli scalini dell’ingresso.
«Li police tornano sempre a li rrecchie de lu patrone – biascicò – vuje nun ce putite fare niente!»

Napoli 19 Dicembre, 1798.

Mia Cara Emma, eccovi ancora tre bauli ed una cassa.
Nei tre primi v’è un poco di biancheria per tutti i miei figli, da servire a bordo, ed alcuni abiti nella cassa. Spero non essere indiscreta inviandovele. Il resto di ciò che potrà andare, andrà su di un bastimento siciliano non volendo incomodare di più. I Francesi sono entrati a Teramo ed hanno messo i prigionieri di Stato alle prime cariche.
Sono nel colmo della desolazione e delle lagrime, persuasa che il colpo sarà da sbalordire, la rapidità soprattutto, e parmi di non venirne mai a fine. Esso m’abbatterà e lo sbalordimento mi condurrà alla tomba.
Piacciavi, mia cara, farmi tutto sapere, tutto.
Siate certa della mia discrezione. Mio figlio è ritornato da Capua e racconta orrori delle truppe ritornate fuggenti. È una sventura di meno. Addio, mia cara Lady Hamilton. Mi rimetterò alla divina provvidenza e me ne farò una ragione. Il momento è crudele. Porgete i miei ossequiosi baci al nostro Padre Ulisse, del quale ho avuto cura di studiare il catalogo di appelli e di proclami che ebbe licenza di inviarmi.
Addio, mille complimenti. Abbiatevi la mia riconoscenza.
Oltre la grande nota delle persone da imbarcarsi, ne farò una particolare, che porterà un biglietto scritto, secondo il modello che vi compiego, e con cui vi prego di imbarcare e salvare, sotto la mia responsabilità.
Tutta vostra per la vita,
Carolina.

«Partono domani, dicono che quella bestia di Ferdinando abbia fatto già trafugare montagne di ducati dal Banco della Pietà.»
«Non si capisce più niente, la gente jeva alluccano già da ieri notte, hanno fatto una ressa nel largo di palazzo: lo sapite ca chiedono li nomi di tutti li Giacobbe di Napoli?»
Don Felice Musco si sentiva il cuore in gola, se solo l’avessero scoperto lì in quella casa dov’era adesso, nel letto tiepido di Mariantonia Carafa, addossato all’enorme terrazza verso cui la collina di Pizzofalcone soffiava un odore di pietra battuta, di fieno arso, di morte.
«Cos’hanno contro di noi? Quale passione ha nel cuore la gente di non aiutarci, di non desiderare una vita migliore, di non provocarsi a vivere davvero? Cos’hanno contro noi, Felice, ditemelo!»
«Che siete dei magnafranchi, c’hanno questo» le rispose sedendosi al centro del letto, il respiro pesante, quasi doloroso. «A Napoli il lavoro si chiama fatica, se non è sporco di sudore, se non ti spezza i reni, è un’altra cosa. Loro non vi potranno capire mai.»
Mariantonia gli accarezzò una guancia. Gli occhi di lei, chiarissimi, le labbra, i seni leggeri e dolenti celavano una rara passione per quell’uomo che a tempo debito era stato sicario al servizio del principe di Montemiletto, suo ignaro marito.
«Don Felice, perché vi amo così tanto quando sento di più il pericolo vostro… della vostra malattia?»
«Voi vulite una ragione più cristiana per morire.»
«Cosa dite?»
«Siete malata pure voi, cara duchessa, e voi ci vedete lontano, la vostra parola fuje sempre addietro a quella dei vostri amici e parenti della rivoluzione… voi non ci credete, e avite stimato che è meglio morire della sifilide di un brigante ca pure vi vuole bene, ma non inforcata come una vajassa traditrice.»
«Il tempo ci darà ragione, Felice, comunque vadano le cose.»
«Il tempo è una cosa dei ricchi, è robba soltanto vostra, la gente normale manco se ne accorge.»
Mariantonia pianse promettendosi di farlo per l’ultima volta, accavallando le lacrime sul mento, piangeva il tempo di quella notte a sentirlo così pesante, dilatato nel suo immobile amplesso in cui fiorivano le luci del borgo orefici, gli alberi dondolanti sul profilo di Santa Lucia, il vocio soffuso e anonimo del corpo fradicio della città a tracannarsi l’ombra della collina di Posillipo vestita a festa, apocalittica.
Mariantonia baciò Don Felice sulle palpebre febbricitanti, gli volse il corpo su un fianco, e lo baciò alle spalle, fremendo, meravigliandosi di malinconia per quell’uomo il cui unico desiderio, mentre la città intera si soppesava la profondità di un baratro tremendo, era tenersi stretto in vita l’amore di sua figlia, legare al ricordo del suo prostrato corpo di antico criminale, l’affetto di Elena che gli era stata regalata pochi minuti dopo il suo primo vagito.
Don Felice Musco aveva ucciso sua moglie per questo, per non essere stata in grado lei di regalarle dei figli, e non altro se non l’opera stessa di accettare una bambina sconosciuta, frutto del peccato di orgoglio di un prete, e farne segreto di carne sua, crescerla nella strenua volontà di un amore senza passi falsi, gli era valsa la grata assoluzione del Cardinale Ruffo.
«Felice, perché volete ucciderlo?»
«Io morirò poco dopo, ma ho paura che Elena lo viene a sapere nel frattempo.»
«Sapere cosa?»
«Tutto. Il peccato da dove viene.»
«Cosa vi ha detto quel prete?»
«Mi ha detto che quella signora Hamilton, la puttana dell’ambasciatore inglese, aveva favurito la mia Elena a entrare nella casa dei Vanacore, dove è stata fatta prigioniera la femmina, sua madre, che l’ha figliata con lui, con Padre Ulisse Spaccapaese.»
«Prigioniera?»
«Attaccata, nella casa sua, come io dovrei fare con Elena se tenessi ancora tempo per stare con lei.»
«Ma perché mai, Felice?»
«Per tenere il segreto. Per non vedere mai che vola.»

Era passato meno di un mese quando la situazione sembrò precipitare, ed Elena, alquanto inebetita dai dolori alla testa e lungo la schiena che la tormentavano ormai da tempo, si trovò nella folla accalcatasi al Largo della Carità dove, a quanto pare, un forestiero, con la sola colpa di esserlo e di trovarsi in città nonostante i casi particolari, era stato assalito e sopraffatto a colpi di pietre.
La gente attorno al cadavere sfigurato sul lurido marciapiede gridava al giacobino infedele, inferocita, gli uomini impugnati ai loro utensili di mestiere, armi dell’ultima ora, alcune donne affaccendate, dimesse anime e corpo nell’interpretazione di un odio senza punto di fuga, puro, vicino a Dio.
«Tagliatancelle, chella capa ‘e morte!»
«Facitelo piezzo piezzo!»
«Purtammece la capa ‘ncopp a ‘ na pertica fino addinto a lu palazzo riale!»
Elena credette di svenire quando una mano l’afferrò trascinandola quasi di peso in un anfratto della piazza che risaliva fin dentro ai fondaci rutilanti di Montesanto.
«E tu ti vai respiranno chest’aria ‘e mmerda?» disse la mano.
Quando furono ai limiti della bolgia Elena poté riconoscerla.
«Don Peppino, che sta succedendo?»
«Chillo la ‘nterra è lu curriere de lu rre, chelli bestie non l’hanno ricanusciuto, e mo se lo portano in braccio cu la creanza d’essere fedeli a lu regno, non stanno capendo cchiù niente.»
«Don Peppino, pure io non mi sento bene, portatemi da padre Ulisse.»
«Lo tengono nascosto, Elenuccia – farfugliò pietoso – ma io lo so che ti sta succedendo, e saccio che non ti devi preoccupare.»

La portò con sé in una carrozza approntata all’angolo dell’antico sanatorio dei pellegrini, lo stesso dove di nascosto si sarebbero controllate quelle strane macchie che andavano crescendo sul palmo delle mani e dei piedi di Mariantonia Carafa.
Verso sera Elena fu sistemata in una dipendenza della vecchia proprietà dell’ambasciatore inglese Hamilton, presso la cui giovane moglie Peppino Spaccapaese da tempo prestava i suoi clandestini servizi di oniromanzia.
Quella degli Spaccapaese era stata da sempre una famiglia molto legata ai nobili inglesi di Napoli, tanto da risultare cosa scontata non soltanto che dapprima Peppino, il primogenito, fosse destinato alla nuovissima marina militare riassestata dal generale Acton trasferitosi dalla Toscana, ma anche che a Ulisse, il secondo, venisse affidata l’educazione spirituale di Lady Judith, figlia di Guglielmo Vanacore che in Inghilterra aveva acquisito il titolo di marchese di Bathollonway sposando la rampolla di una famiglia legata alla casa reale.
La stessa Lady Emma Hamilton aveva sollecitato affinché la figlia segreta di Ulisse fosse portata in casa sua durante quei giorni di sconvolgimento.
«Quella merda francese non solcherà la porta di casa mia» aveva detto a Peppino «E prima che sia troppo tardi ho bisogno che quella ragazza sia consapevole di ciò che è stato, e soprattutto voglio che sia in grado di aiutare la povera Judith».
«Lo frate mio cercaje di avvicinarsi a questa sua figlia in tutte le maniere possibili, questo senza mai farci capire niente a lei, senza nessuna rivelazione, ma certo aveva dovuto fare un altro patto con quell’anima assassina di Felice Musco, pure nella galera s’era fatto mettere, per fare lo scrivano dei compagni suoi che organizzavano ancora le solite magagne, oppure per fare lu messo con certi giacobbi che stavano dentro e che Felice Musco così poteva mettere in contatto con la puttana sua, la Carafessa.»

Elena restava tutto il tempo rannicchiata alla finestra di una delle stanze private dell’ambasciatore, dove poco prima erano stati ammucchiati i bauli carichi dei beni di corte che l’ammiraglio Nelson, altro compatriota del letto della regina Carolina, aveva provveduto a imbarcare nella sua flotta in fuga verso sud.
Prima che fosse notte, Lady Hamilton le si faceva vicino, il suo viso di angelo decaduto, il gesto dei fianchi nel camminare per la stanza, a Elena sembrava impossibile che una donna così bella potesse essere anche così ricca e così gentile con lei.
«Io non mi merito di stare qui» le disse dopo qualche giorno.
«Potrai scegliere i posti in cui stare, Elena, nessuno come te, vedrai, è padrone di tale desiderio.»
«Che sta succedendo?»
«Io voglio solo aiutarti, voglio dirti delle cose che non sai.»
«Mio padre è malato, qualcuno ci ha detto che io facevo visita alla signora Vanacore e voi sapete la storia, si è molto arrabbiato, e io me ne sono stata nella casa di Padre Ulisse, che sta al Largo delle Pigne, senza dire niente a nessuno, però lui non so che fine ha fatto.»
«È nelle mani di Felice Musco» assentì, provocatoria, Lady Emma.
«Mio padre l’ho visto volare sopra il campanile di Sant’Eligio, il giorno che mi sono cresimata, e allora mi ha creduto, che io ce l’avevo detto altre volte, e mi ha detto che non andavo mai più da lui, nemmeno a confessarmi, e che lo vuole solo punire.»
«Povere noi, Elena, sappiamo tutte e due che non è così. L’ha tenuto parecchio tempo in quella vostra proprietà di Avellino, dove ha dovuto subire anche le follie della madre di Don Felice. Io stessa non ho voluto riferire quanto accaduto alla regina in partenza, che mi affidava i suoi rispetti per Padre Ulisse. È pur sempre il suo confessore, e saperlo prossimo alla morte le avrebbe recato solo altro danno.»
«Perché dite così?»
Elena era in preda a un altro dei suoi terribili crampi, i piedi le si gelavano toccando il pavimento, cosa che cercava di dissimulare seduta, tenendoli a mezz’aria sotto la lunga gonna turchese.
Sudava, e i capelli le affollavano la nuca, ritirandosi lentamente dalle spalle su dove erano adagiati.
Lady Emma fece giusto in tempo a raccontarle di sua madre e di suo padre, a dirle della loro commovente blasfemia di essersi amati in cielo, un giorno, di essere arrivati fino a notte tra gli speroni di nuvola che solcavano il Vesuvio, di aver volato amandosi nel sonno miope di una città intera che non avrebbe mai considerato tale vizio.
«Abbi cura di baciarci dall’alto quando ci mancheranno le forze, Elena» le raccomandò.
E da lì la vide piangere capitolando sul soffitto del grande salone contiguo, e man mano adagiarsi alle pareti e sugli specchi, come un piccione impazzito, fino a scalare l’inferriata del grande balcone e spingersi verso una luna di pane raffermo, imbandita sullo sfondo della collina del Vomero.

Avviso Pubblico

Si fa noto a tutti i cittadini Napoletani di fare per tre sere continue da oggi l’illuminazione ad oglio al di fuori delle proprie abitazioni per l’arrivo dell’armata alleata francese, comminandosi la pena di ducati venti ai trasgressori. Le suddette tre sere deve ciascun Cittadino anche al di fuori della sua Casa tenere in ogni sera un lume per la pubblica tranquillità.

Tanto volò Elena nel cercare suo padre, prima di liberare Lady Judith, che parve vederla una notte anche la duchessa Carafa, sul terrazzo dei Cassano, il suo profilo sfigurato dal rimorso di veder morire un uomo in casa sua alla vigilia della vittoria giacobina.
«Da quando l’imbecille del Principe Pignatelli ha firmato la resa con il nostro Championnet le cose vanno quasi come ci aspettavamo – le commentava, ombrosa nel suo sorriso di cipria, la sorella Giulia – dacché la repubblica ha bisogno anche di noi andremo casa per casa a chiedere offerte per la cassa nazionale, ma anche cibo e vestiti, solleciteremo ogni carità.»
«Spero allora di averne le forze necessarie.»
Giulia Carafa la fissava, attenta ad ogni piccola deformazione che nel suo viso introduceva quel respirare piano, dimesso, in sordina.
«Stanotte ho sognato di gettarmi in un pozzo» le disse Mariantonia.
«Non so cosa mi nascondi, ma sappi che qualunque cosa essa sia, non ti è permesso, soprattutto in questo momento.»
Giulia era quasi minacciosa.
«Se solo potessi mostrarmi la ragione di tutto quanto è stato e sarà fatto, Giulia. Annullerei del tutto i miei dolori. Ma ciò che stento a capire è tutto questo vostro valore, tuo figlio Gennaro subito capitano della Guardia Nazionale, il nostro caro Luigi chiamato a far parte della Municipalità, insomma come se tutti noi non ci accorgessimo di questa gente, che non vuole la nostra rivoluzione, perché non è anche la loro.»
«Questo sarà nostro dovere, dobbiamo palesare la nostra buona fede nel farci vicino a loro.»
«Cosa? Cosa altro posso fare per avvicinarmi a quest’inferno!» Mariantonia tossì violentemente, il petto sembrò scoppiarle, abbracciò sua sorella, tremando.
«Sono malata, Giulia, eppur non voglio che la misura di questo mio amore sia la morte.»
«Che cosa stai dicendo?»
«Esiste un uomo che mi ha ammalata, Giulia, un brigante, un plebeo… con il suo stesso odio ho permesso che uccidesse un prete nella mia stessa casa.»

Al popolo napolitano

Cittadini,
io ho sospeso per un momento la vendetta militare provocata dalla orribile licenza, e dalla frenesia di alcuni individui stipendiati da’ vostri assassini. So quanto questo popolo è buono, e gemo nel mio cuore dei mali inevitabili, che ha sofferto. Profittate dunque, cittadini, di questo momento, rientrate nell’ordine, deponete le armi nel Castello Nuovo, e la Religione, le proprietà, le persone saranno conservate.
Quella casa da cui partirà un colpo di fucile sarà bruciata, e gli abitanti saranno fucilati. Ma se la calma sarà ristabilita, obblierò il passato, e la felicità ritornerà su queste ridenti contrade.

Napoli 4 Piovoso ann. 7.23. Gennaio 1799

Generale in capo

Championnet.

Ulisse in realtà non sarebbe morto così presto.
Quando Felice Musco gli porse il bicchiere il cui veleno era da digerire tra la folla di un altrove che anche egli si augurava di veder presto, il prete aveva chiesto gli venisse somministrato per altra via, onde evitare che la mortale medicina potesse risalirgli dallo stomaco alla bocca, in preda agli sbalzi di latitudine che pure in corpo poteva presentire.
«Non mi seppellite con la pancia all’aria, solo questo vi chiedo.»
«È cosa che non vi deve riguardare.»
«E invece sì, vi prego, mi perderei di vista la città.»
Don Felice non capì, eppure quando il gioco si concluse, si ricordò della particolare richiesta, e diede i giusti ordini in merito agli uomini che avevano portato il corpo fino a una radura nascosta nella piana di Miano.
Fu poco dopo, che svincolata finalmente la sua mollezza dalle trame della poltrona cui era stata trattenuta per anni, Lady Judith balzò dalla finestra tenendosi alla tenera presa di sua figlia Elena, e disse: «Lo riconosceremo subito. La gente come noi pure se muore rimane a volare da queste parti».

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