Un’ora al mese di te
di Anna Galli

Come ti senti amico, amico fragile,

se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te

(Fabrizio De Andrè)

Io e Jan avevamo passato tutta l’estate sulla scala antincendio del centro, dividendoci gomme alla menta e sigarette senza filtro, che arrotolavamo con una macchinetta di plastica nera. Giocavamo a carte e a backgammon e fumavamo, controllando i movimenti degli altri ragazzi e del personale di servizio.
Se il tempo era buono, Jan chiudeva gli occhi e prendeva il sole sulla faccia. Teneva il tempo mentalmente, contando in francese fino a cento, perché diceva che doveva tenersi in esercizio con i numeri per quando sarebbe tornato a giocare a poker. Diceva che appena uscito di lì sarebbe tornato a Los Angeles, a vivere in casa di qualche vecchio amico. Diceva di avere un sacco di amici che avrebbero potuto ospitarlo. Diceva che non appena avesse ripreso il controllo, poteva fare anche mille dollari al giorno giocando a poker, e la limousine del casinò sarebbe passata a prenderlo per accompagnarlo avanti e indietro, come uno dei clienti migliori. Parlava dei buffet gratuiti dei casinò e di tutti i tipi di cibo che potevi mangiare in America, una cucina diversa per ogni giorno della settimana, messicana, cinese, thailandese, tex-mex, giapponese, francese, coreana. Diceva che là essere vegetariani non era un problema come qui, dove era costretto a vivere di formaggio e il tofu non sapevano neanche cos’era. Diceva che doveva tornare a Los Angeles per farsi rifinire il braccio sinistro, non appena avesse fatto un po’ di soldi. Aveva entrambe le braccia tatuate dalle spalle fino ai polsi. Se le radeva col rasoio, in modo che restassero sempre lisce e pulite, ma quando veniva il momento di fare il prelievo di routine era preso dal panico e pregava l’infermiera di infilargli l’ago nel dorso della mano, ché era l’unico punto in cui avrebbe potuto sopportarlo. Diceva che i tatuaggi se li era fatti per evitare di tagliarsi le vene o di diventare eroinomane.
Jan diceva un sacco di cose, e io lo stavo a sentire, perché mi piaceva la sua voce delicata e le sue storie erano diverse da quelle a cui ero abituato. Guardavo il giardino stitico sotto di noi e pensavo all’America, al primo giorno in cui l’avevo visto appoggiato alla parete nei corridoi del centro, con la maglietta a mezze maniche sulle braccia magre; pensavo alle sue mani sottili, che aveva paura di rovinare, al suo profilo da indiano, e a come non mi importava non sapere nemmeno quale fosse il suo vero nome.
Dopo sedici settimane in comunità mi dissero che potevo tornarmene a casa. Quando lo seppe, Jan chiese di parlare con la direttrice. Uscì dall’ufficio dopo mezz’ora, sventolando il suo foglio di dimissioni. Il giorno successivo, mentre caricavamo le nostre borse nel bagagliaio della macchina di mia madre, mi disse che l’aveva fatto solo per approfittare del passaggio che gli avrei dato fino in città.
Era ottobre. Mi chiudevo in camera sapendo mia madre nel corridoio, a spiare i miei rumori segreti. La valigia era aperta sul pavimento dal giorno del mio ritorno. Le cose, sparse ovunque, non trovavano ordine. Per sedici settimane avevano occupato lo spazio di un armadietto largo venticinque centimetri e il cassetto di un comodino di metallo, e adesso non riuscivano a stare dentro un armadio a tre ante.
Quando il silenzio della casa diventava insostenibile, prendevo la macchina di mia madre e andavo allo stadio comunale. Jan mi aspettava nel parcheggio, sotto la curva nord. Saliva accanto a me, ci abbracciavamo. Lui spezzava una sigaretta, io sceglievo la mia metà. Tenevamo due dita di finestrino abbassato, una via di fuga per fumo e parole.
«Dobbiamo trovarci un lavoro» dicevamo.
Ma intanto i giorni passavano e noi restavamo seduti in macchina, con il volume della radio al minimo. Jan diceva che a Los Angeles avrebbe ricominciato a suonare il basso, magari con qualche gruppo punk rock da quattro soldi, giusto per divertirsi e tenersi in allenamento. Diceva che il punk era musica elementare, che lui aveva suonato per anni in Germania con un gruppo fusion jazz, e quella sì era musica. Diceva che per un certo periodo, quando stava ad Amsterdam, aveva scritto colonne sonore di film porno, e che poteva girare in piena notte in bicicletta in maniche di camicia sotto la neve senza prender freddo. Per questo, diceva, anche se eravamo quasi a novembre lui continuava a stare con le scarpe di tela e il giubbino di jeans.
A volte ci addormentavamo sul sedile posteriore, Jan con la testa appoggiata sulle mie gambe. Appena prima del sonno, attraverso le palpebre abbassate, le luci dello stadio erano per me occhi di bestie randage venute dal deserto, erano segnali di emergenza lanciati da città lontane, fiori che si allargavano come dita per venire ad afferrarmi.

Una sera ci venne fame ed entrammo nella birreria che c’era dietro lo stadio. Avevo abbastanza soldi per un panino e una porzione di patatine, da smezzare. La cameriera era carina e Jan le chiese – per scherzo – se avessero bisogno di personale. Lei disse che – in effetti – cercavano qualcuno per la cucina.
Il cuoco era Sebastiano, era lui che gestiva il locale. Aveva una coda unta e sottile di capelli biondastri, tenuta insieme con uno spago, e un grembiule sporco gli reggeva la pancia da bevitore. Disse che prima di essere assunti dovevamo fare quindici giorni di prova. Ci diede gli orari di lavoro e due magliette nere con il logo della birreria. In strada, io e Jan ci guardammo in faccia e scoppiammo a ridere.
Il mio turno era martedì, giovedì e sabato, dalle sette di sera alle cinque del mattino. Se ne avevo voglia, Sebastiano mi preparava un piatto per cena e potevo mangiare in piedi in un momento di pausa, insieme a qualcuna delle cameriere. Le ragazze con me facevano le gentili, ma erano troppo veloci. Non riuscivo a stare al passo con le loro frasi acute e, per giustificarmi con me stesso, davo la colpa ai farmaci che prendevo. Il mio lavoro era semplice: lavare i piatti, preparare panini e bruschette, friggere le patatine, riempire di ketchup e maionese certi bicchierini che stavano sui tavoli, tagliare il pane, guarnire i piatti con i contorni. Il compito che mi pesava meno era ripulire i boccali di birra dalla cera delle candele, immergendoli nell’acqua bollente. Dopo un paio d’ore i blocchi di cera venivano a galla da soli e il vetro spesso rimaneva pulito, senza ombre. Quel lavoro non era male, ma dovevi essere disposto a tener bassa la testa e muovere le mani, senza troppi perché. Nei momenti di crisi, quando le ordinazioni si accumulavano e le porte a doppio battente non smettevano di aprirsi e chiudersi e le ragazze urlavano di sbrigarsi, mi affidavo a quel che Sebastiano mi diceva di fare. Non dovevo pensare, solo fare. Dopo mesi di immobilità, trovavo la stanchezza fisica rilassante. Era peggio quando, tra le due e le tre, il locale viveva un momento di stasi, i tavoli si svuotavano e il vociare dei pochi rimasti non riusciva più a scalfire la musica di sottofondo. Allora, mentre aspettavo in fondo alla cucina che si cuocesse l’ultima porzione di patatine, mi appoggiavo allo stipite di una porta cieca e guardavo in sala attraverso uno spioncino di vetro opaco. Le persone sedute erano senza audio; muovevano la bocca come pesci di un acquario sporco, boccheggiando per non affogare. Cercavo di immaginare le loro parole, ma per quanto mi sforzassi non capivo cosa avessero da dirsi; e tuttavia, non riuscivo a smettere di guardare.
A fine serata tiravo a lucido i fornelli e facevo sparire gli avanzi. I topi saccheggiavano i bidoni della spazzatura sul retro. Mi ricordavo che Jan diceva che si poteva sopravvivere per settimane mangiando il formaggio che rimaneva attaccato ai cartoni delle pizze trovati nella spazzatura. Diceva che la mensa dei poveri messicana non era affatto male, anche se era un po’ troppo piccante. Diceva che a Los Angeles aveva visto i procioni e le puzzole frugare nei bidoni dei rifiuti, a volte anche qualche coyote, mentre gli scoiattoli erano praticamente domestici.
Sebastiano faceva i conti e pagava tutti in contanti, metteva le banconote in mucchietti ordinati sul bancone del bar. Le ragazze si bevevano l’ultima birra e io mi sedevo su uno sgabello, accendendomi una sigaretta dal pacchetto di qualcuno. Loro erano abituati a trasferirsi in blocco in un altro locale che rimaneva aperto fino alle sette, ma io declinavo. Dopo le prime due volte smisero di invitarmi, e a me andava bene così. C’era una sorta di complicità aperta, tra di loro, per cui capivo che in qualsiasi momento avrei potuto aggiungermi al gruppo e, senza alcun problema, sarei stato della partita. Pensarlo mi faceva sentire bene.

Durante la terza o quarta serata di prova, Sebastiano mi chiese informazioni su Jan. Come lo avessi conosciuto e la solita trafila di stronzate. Ovviamente ressi il gioco e mi inventai cose generiche, del tipo amicizie in comune e vecchi compagni di scuola. Ma il giorno dopo vidi Jan e gli chiesi come andava il suo periodo di prova. Mi rispose tutto bene, scherzammo sulle manie di Sebastiano riguardo alla pulizia dei fornelli, mi sembrò che tutto stesse filando liscio, e continuai a seguire i miei turni.
Mi piaceva tornare a casa a quell’ora strana, non più notte, non ancora giorno, in un mondo deserto. Una volta, a una rotonda, una ragazza di colore spuntò fuori di corsa da non so dove implorando un passaggio. La caricai insieme al microcane che si trascinava dietro. Non sembrava una puttana. Continuava a parlare a voce troppo alta e ripeteva: «Che culo che sei passato. Che culo, grazie». Per portarla dove voleva presi un paio di sensi unici contromano. Alla fine, per ringraziarmi, mi regalò un tanga commestibile dentro una palla di plastica trasparente.
A casa mi lavavo via il puzzo di fritto e dormivo tutto il giorno, con la coscienza pulita.

Il venerdì pomeriggio della seconda settimana di prova, mia madre mi venne a svegliare. Mi chiamava timidamente, dandomi dei colpetti sul braccio con la punta delle dita. Non capivo cosa stesse succedendo. Mi passò il telefono e dall’altra parte sentii la voce di Jan, gracchiante per i disturbi sulla linea. Chiamava da una cabina.
«Quello stronzo» diceva.
«Chi?»
«Sebastiano. Mi ha licenziato.»
«Come?»
«Non si è nemmeno preso la briga di telefonarmi. Sono andato là, e come niente fosse mi ha detto che non aveva più bisogno di aiuto. Hai capito? Ci voleva mettere contro.»
«Contro?»
«Uno contro l’altro. Ma tu non ci vai, domani, così lo lasci col culo per terra il sabato sera.»
Rimasi in silenzio.
«Non ci torni, capito, e nemmeno lo avvisi.»
«Certo» dissi, e riattaccai.

La sera dopo arrivai in anticipo. Sebastiano non aveva ancora acceso le fiamme pilota dei fornelli, e io non mi ero messo la maglia nera da lavoro. Era strano vedere la cucina così vuota e calma, senza odori. Lui non si stupì di vedermi già lì, anzi. Sembrava contento.
«Così ti faccio vedere come si accendono i fuochi e il forno e come preparare gli ingredienti.»
Non riuscii a dir niente e lo seguii in tutti quei suoi meticolosi rituali. Le parole mi stavano in bocca come una pastiglia dura e ruvida, incagliata sul palato. Mi decisi.
«Ho saputo che hai licenziato Jan.»
«Te l’ha detto lui?»
«Ci siamo sentiti ieri.»
Sebastiano continuava a spostare cose nel frigo, cercando quel che gli serviva. Aveva appoggiato sul tavolo un pezzo di carne e cominciava a tagliarla in strisce sottili.
«Senti, che ne diresti di venire cinque sere a settimana? Potrei cominciare a insegnarti a fare i piatti, un po’ alla volta.»
Io guardavo le sue mani, precise, dividere la carne e spostarla sul marmo bianco, muovendo il coltello con brevi gesti essenziali. La loro semplicità apparente mi ipnotizzava.
«Dopo un po’ potresti arrivare a sostituirmi in cucina. Faremmo a turno.»
Prese le fettine e cominciò a rifilarne i contorni, raggruppando gli scarti da un lato. Ad ogni passaggio, la lama sibilava sulla pietra. Quel suono mi lisciava i peli delle braccia, era un pizzicore dietro la nuca. Non sapevo se mi infastidiva o se volevo che continuasse.
«Pensaci. Non devi rispondermi adesso.»
Avvolse la carne, pulita, nella pellicola. Pulì il coltello nel grembiule e fece una sola manciata dei nervi e dei filamenti bianchi che aveva tagliato via. Li buttò nella spazzatura e mi guardò in faccia.
«Jan non era fatto per questo lavoro. Era sempre in ritardo e lasciava le cose a metà. Su di te posso contare. O almeno così pare.»
Andai nel bagno, che faceva anche da spogliatoio per le ragazze, e mi infilai la maglietta nera. Per far andare via il puzzo di fritto, mia madre la lavava a temperatura talmente alta che già cominciava a sbiadire. Annusai la manica. Sapeva di ammorbidente alle patatine. Era stirata e inamidata, e me la sentivo stringere sulla pancia, all’altezza dello stomaco.

Jan lo vidi domenica sera, sotto la curva nord. Mi aspettava con le mani nelle tasche del giubbino, ingobbito dal freddo. Lo feci salire in macchina. Il suo profilo indiano, controluce, era ancora più duro del solito.
«Ci sei andato?»
Rispondere mi sembrava una presa per il culo, così restai zitto. Sapeva già tutto, aveva parlato al telefono con mia madre la sera prima, mentre io ero già uscito.
«Bravo.»
Non riuscivo a dire niente, o peggio, mi sembrava di non avere niente da dire. Se mi mettevo ad ascoltare, dentro, era come se avessi inghiottito una tonnellata di colla a presa rapida.
«Non dirmi che ci tieni davvero. A fare lo schiavo per Sebastiano. A pulire quello schifo di cucina. Non dirmi che ci credi davvero, a quel lavoro.»
«No, certo.»
«Allora perché?»
«E tu? Perché ci andavi?»
Il parcheggio era quasi vuoto. La carcassa di una bici restava legata al palo, erano mesi che la vedevo lì. Un uomo portava a spasso il cane. Tra non molto, si sarebbero accese le luci dello stadio e l’insegna del bar dall’altra parte della strada. I vetri cominciavano ad appannarsi. Il cane annusava una pista nella carta straccia, l’uomo tirava il guinzaglio. I manifesti sul muro erano mezzi strappati, con gli angoli che pendevano di sbieco. Le macchine restavano ferme al semaforo un tempo infinito, prima di rimettersi in moto. Ovunque guardassi, tutto faticava e si piegava, basso, a far presa sul mondo, per paura di venire spazzato via.
Jan tirò fuori il sacchetto del tabacco, ma io gliene offrii una dal mio pacchetto. Sapevo che odiava farsele. Buttò fuori la prima boccata, si grattò il mento col pollice e fece: «Sai, a gennaio, credo che tornerò a Los Angeles.»
Teneva gli occhi a fessura, fissi davanti a sé, come se stesse scacciando qualcosa.

Questo articolo è stato pubblicato in Senza categoria. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

Scrivi un Commento

Il tuo indirizzo Email non verra' mai pubblicato e/o condiviso.

Puoi usare questi HTML tag e attributi: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>