Stagismo di Stato
di Chiara Di Domenico

Dolcezza ci vuole, ad aprire la bocca dei leoni.

Vedi, stamattina mi sono alzata. Era già tardi, perché non ho molto coraggio, ultimamente. Sarà colpa di questo letto a due piazze, che mi lascia molto spazio intorno e che non mi fa sentire sicura e mi fa pensare troppo, appena apro gli occhi. Così ho aperto gli occhi come tutte le mattine, ho fissato il muro ingrommato dalle impronte degli inquilini precedenti (lo vedi, dormo di sopra, sul soppalco) e mi sono rivolta a me: «Margherita, un po’ più di bene». Banale, vero? Roba da vecchie zitelle. Ma poi ho continuato: «Devi volerti bene perché chiunque te ne vorrà sempre un grammo meno di te. Togli tua madre e tuo padre, per gli altri sarà sempre così, semplicemente perché gli altri non sono te». E infatti in casa non c’era nessuno. Oggi è il 9 gennaio, a gennaio mi succedono sempre cose straordinarie, straordinarie e mostruose. Incontro la gente che mi cambia la vita, faccio le scelte che poi mi restano addosso. L’anno scorso arrivavo a Roma, da un paese piccolo, da una città poco più grande, avevo uno zaino addosso, il computer e dormivo in una stanza vuota, su un materasso buttato per terra che mi aveva prestato un amico gentile. A te non è mai successo? Quando ho aperto gli occhi, stamattina, mezza parte di me aveva già capito. Il corpo aveva capito, i muscoli avevano capito, giudiziosi. La testa ha dato l’ordine: cosce e addominali li ho sentiti tendersi obbedienti, e ho avuto un moto enorme di riconoscenza che mi ha fatto sorridere. Hanno risposto egregiamente, nonostante tutto, nonostante ancora poche ore prima ne abusassi portandoli in mezzo alla via, coperti di pigiama e ciabatte, battendo i denti. Cercavo un amico, per fortuna l’ho trovato. È importante avere amici in tempo di guerra. Poi sono tornata a casa, e mandando tutto il corpo in licenza ho pensato che non sono forte, ma che posso migliorare. Vuoi parlare? Lo so che vuoi dire, che sono una stronza. Ma guarda che è violento chi è debole, mica chi è forte. Tu sei la prova. No, ora parlo io.

Così ti ho raccontato come mi sono svegliata, e come mi sono addormentata. Ieri i miei genitori mi hanno mandato duecento euro, li hanno dati a mio cugino che fa il carabiniere a Trieste ma che adesso è in ferie e veniva a Porta di Roma a comprarsi le scarpe. Gli hanno detto che i soldi erano per la Befana, forse perché un po’ si vergognavano di mandarmeli, forse per non farmi sentire in imbarazzo con lui, che a trentadue anni mi faccio ancora dare duecento euro dai genitori. Ho fatto nella mia vita molte cose che mio padre definirebbe da morta di fame. A lui fa rabbia, per cui molte cose non gliele dico. Gli dico sempre che va tutto bene. Non credo che gliele racconterò mai, e non so dirti se, raccontandogliele, mi vorrebbe più o meno bene. Pensa, mi capita perfino di avere fame e non darmi retta. Mica perché non ho da mangiare, ma perché mi sembra assurdo e una gran perdita di tempo cucinare per me e basta. Così dimagrisco, e loro si preoccupano quando li vado a trovare. Ma io sono serena, perché in guerra bisogna essere agili, non pesanti. A proposito, hai fame? Dopo ti preparo qualcosa. Ma se ti faccio mangiare usa la bocca solo per mangiare, per favore, non dire niente. Da quant’è che non ci vediamo, tre anni? No, è vero, a maggio a Torino, in fiera. Quasi ti stupiva vedermi lì alle dipendenze di nessuno eppure al lavoro. Mi guardavi come si guarda la figlia del macellaio, anzi no, che il macellaio i soldi ce li ha, mi guardavi come si guarda uno che ti ha chiesto un impiego e che non hai voluto. Non ti agitare, lo so: tu il lavoro me l’hai dato. A spizzichi e bocconi, ma me l’hai dato. Mi assumevi, per qualche mese, a tempo determinato si dice, poi mi lasciavi a casa venti giorni, poi io ti venivo a trovare, a chiederti il lavoro, e tu mi riassumevi. Quanto ho chiesto in questi anni, quanto ho domandato. Dentro di me mi vedevo con un cucchiaio in mano, e il cucchiaio lo usavo per tutto: per mangiare, per bussare, per scavare quella montagna immaginaria che prima o poi qualcuno doveva cominciare a spostare. Ce l’ho ancora quel cucchiaio. Lo tengo sempre nella mano destra. Con la sinistra mi presento. So che non è leale, ma non credo di poter rischiare troppo, ancora. Insomma, tu vorrai sapere adesso perché sei qui. È che qualche mese fa ho visto un film, e mi ha tarlata, sì insomma, mi ha fatto un buco e si è infilato dentro, da qualche parte. E quel tarlo ha smosso i ricordi, sei rispuntato fuori tu. Ai tempi dei miei nonni si diceva «Il padrone». Questo nome mi è rimasto addosso come certi odori che senti da quando sei piccolo e non ti si levano più di dosso, quando penso a te, per primo, e a quelli che son venuti prima e dopo di te. Una fila interminabile di padroni che mi servivano per pagare l’affitto, il pranzo, le sigarette, i vestiti e il giornale, ma che volevano sembrare altro, e sempre inesorabilmente padroni erano. Tu però sei stato il più importante, tra i miei padroni. È con te che ho cominciato ad ascoltare meno gli altri. Con te per la prima volta ho capito che la strada è di tutti ma la casa è di un altro padrone ancora, che eri tu a decidere se potevo o no amare, andare a trovare i miei, fare dei figli. A un certo punto, tra un contratto e l’altro che non si decideva ad arrivare, volevi trasferirmi a Pescara, e io non capivo. Dicevo: vivo e lavoro a Firenze, perché mi mandi a Pescara? E tu mi guardavi, irritato dalla mia presunzione, dal mio rifiuto, e mi dicevi: così torni a casa, non sei contenta? Io sono di Pesaro, non di Pescara, tra Pesaro e Pescara ci sono trecento chilometri. Che melodramma, hai ragione, mi attengo ai fatti. Che ti devo. Li sento ancora, sai, i colleghi di Firenze. Da qualche tempo hanno smesso, finalmente, di chiedermi come sto. Agli auguri di Natale mi hanno detto che stavi aprendo l’ennesimo punto vendita, che avevi degli ottimi stagisti e degli ottimi apprendisti di cui lo stato ti paga le tasse e che dopo mandi via per prendere altri stagisti, che, nel frattempo, se hanno meno di ventinove anni, fai diventare apprendisti. Gli fai tre mesi di contratto, poi li tieni fermi venti giorni così per legge saranno sempre a inizio carriera, li metti in questo tuo cassetto misterioso e decidi, a seconda delle tue spese, se preferisci un ascensore trasparente o una cassiera in più. Ci son stata due anni in quel cassetto. La prima volta che mi hai assunto, ci avevi calcolato male, ti ricordi? C’erano undici persone in più. Mi hai fatto fare altri tre mesi, son stata fortunata, poi mi hai detto che sul contratto era ben chiara la data di fine rapporto, che lo sapevo dall’inizio. Mi ha fatto male che me l’hai detto sorridendo. Perché un padrone non sorride quando licenzia, ma tu non hai il coraggio manco di essere un padrone. È impressionante, non hai mai smesso di guardarmi fino ad ora. Questa cosa mi lusinga. Vuol dire che mi stai ascoltando. Ti brucia la testa? Dai, è quasi fatto, resisti ancora un po’. Scusa, è proprio il caso di dire che adesso sì ti sto rubando del tempo. È così liberatorio rubarti qualcosa, dai, fammi questo regalo, sopporta ancora.

Così stamattina mi sono alzata, ho sceso le scale del soppalco di questo ex negozio, finalmente mi sono tolta il pigiama e mi sono messa le scarpe, e sono uscita a fare colazione. Hai visto che sole? Non potevo morire proprio oggi che dopo tanta pioggia torna la luce e il calore. Ho pensato ai greci e ai romani, che aspettavano la primavera per combattere. Ho avuto voglia di combattere. Così ti sono venuta a cercare. Ho preso il 14 e sono scesa a Termini, poi il 40 e sono scesa a Chiesa Nuova, e ti ho visto, uguale a ogni apertura, sarà la quinta che vedo coi miei occhi, e tu sembri sempre un geometra che aspetta il padrone. Fai sempre le stesse cose. Che hai fatto in questi anni, ti sei sposato? O hai lavorato troppo? Neanche io mi sono sposata. Era l’unica cosa intelligente che potessi fare, una famiglia, non sono stata capace. Non mi guardare con quegli occhi, lo so che non sono decrepita, non ho la sindrome dell’anno Mille. Non ho niente da offrire se non questa faccia, ma non mi basta per essere felice. Pensa, sono così naïf da voler essere felice. Chissà mio cugino carabiniere, se è felice.

Insomma ti ho visto, era presto, ma c’erano certi raggi di sole che mi mettevano un piede davanti all’altro, i muscoli li sentivo tintinnare, l’aria gelida mi dava i pizzicotti sulle guance e un rossore che ti deve essere piaciuto, perché quando ti ho chiamato ti sei girato e mi hai guardato come se lì per lì non mi avessi riconosciuta. Per l’ennesima volta mi hai chiesto non come stavo, ma che ci facevo lì, sempre rigorosamente sorridendo, sempre con la tua esse emiliana e la tua espressione un po’ ottusa che ti stanno come il capretto sulla iena, e mi hai offerto un caffè. Allora ti ho detto che stavolta offrivo io, e fino a lì ti giuro, stavo improvvisando, non sapevo bene cosa fare. Poi mi è venuto in mente, e ho eseguito. Ho sempre avuto il difetto della zavorra. Adesso che mangio meno almeno quella sotto la pelle se n’è andata, ma mi resta il vizio di tenere tutto in borsa, e di tenere sempre sulla spalla destra queste sacche enormi e piene di cose inutili, che non butto e non metto in ordine mai: biglietti da visita, volantini, programmi del teatro, fazzoletti usati, regali. A Natale a una tombola demenziale di regali riciclati ho vinto questa, guarda che roba, sembra vera. A guardarla, perché a toccarla si capisce subito che è finta, è leggera. Dev’essere per questo che mi son scordata di toglierla. Stavo appunto prendendo i soldi per pagare il caffè, quando aprendo la borsa l’ho vista e ho avuto il colpo di genio. Poi ci ho messo dell’altro, perché ultimamente son diventata un po’ mignotta, ma per divertimento, giusto per far di necessità virtù. Ho voluto provare anche con te, per vedere se riuscivo a vincere sul tuo attaccamento compulsivo al lavoro. Avevi proprio la faccia di uno che a parte lavorare non fa un bel niente, ho pensato che potevo proprio divertirmi. L’idea di fare la stratega mi ha conquistata. Ti ho sorriso, ma non come sorridevo di solito, chissà se te ne sei accorto. Ti ho sorriso reclinando leggermente la testa, guardandoti dal basso all’alto, e questa cosa ti è piaciuta. Poi – eravamo ancora al bancone ma i caffè erano finiti e avevo anche già pagato – facendo cadere la mano ti ho sfiorato, guardando per un attimo fuori il niente dalla vetrina. E subito ti ho guardato ancora con un altro sorriso, e ti ho detto: «Perché non facciamo due passi, con questo sole?» Avevo puntato tutto, ma in fin dei conti non avevo niente da perdere, e ho vinto. Mi hai detto sì e hai fatto un’espressione nuova, che non ti avevo mai visto. Come di un geometra di provincia in trasferta a Roma. E ti sei fatto prendere a braccetto, e ti sei fatto portare via. Vuoi che ti metta un po’ di musica? Abbiamo camminato. A un certo punto senza smettere di tenerti sottobraccio con la sinistra, con la destra, quella del cucchiaio, ho preso la pistola. Mi stavi chiedendo quanti anni avevo quando in tutta risposta l’hai sentita presentarsi sotto la manica, tra la tua ascella e il mio braccio. La domanda ti è morta sulle labbra insieme a tutti i sorrisi. Peccato, era solo la terza volta che mi chiedevi qualcosa. Hai cominciato a guardarti intorno come la bestia al macello, povero stupido. Avresti potuto gridare, era pieno di gente, ma sulle stesse labbra forse la domanda impicciava altre parole, sei rimasto muto, in attesa di qualsiasi cosa, e abbiamo continuato a passeggiare. Lì, devo confessartelo, ho avuto paura. Ho visto tutto: i miei trentadue anni appena trascorsi, le foto dove sorrido, le feste (chissà perché ho pensato alle feste), poi i miei genitori, la prima laurea in famiglia, la mia, i libri che ho letto, la lingua che rende liberi tutti, che mi ha difesa tante volte. Stavolta, muta, attaccavo te. Il padrone. Stavolta ero io a decidere. Mi tremavano le gambe ma non mi abbandonavano, lo sapevo da quando mi ero alzata, e allora ti ho detto una cosa così stupida, sempre sorridendo, ti ho detto: «Qui a Roma la polizia quando la chiami non arriva mai». Tu lì hai capito. Credo. Ti ho fatto salire su un autobus, ti ho fatto anche il biglietto, e siamo andati al Gianicolo come due fidanzati. Ti ho anche baciato, mentre ti sussurravo di staccare l’assegno. Dai, non guardarmi così, con cosa dovrei ammazzarti, con la pistola finta? O lasciandoti qui, magari, a morire di fame e di freddo. Vieni qui, fatti vedere. È un capolavoro, sembri un altro. Specialmente senza barba, che sembravi vent’anni più vecchio. Tu ti preoccupi. Io che dovrei dire? Lasciare quel poco che ho, e non avere avuto neanche il tempo di salutare nessuno.

Ci siamo quasi, non abbiamo più molto tempo. Tra mezz’ora si va. Stai benissimo. Mentre dormivi, mentre ti cambiavo, mentre bruciavo tutti i tuoi documenti e distruggevo il tuo telefono, ho anche trovato il tempo di scrivere la tua condanna. Perché questa lo sai che è un’esecuzione. E dai, non fare così, te l’ho già detto che non ti ammazzo, non mi piacciono gli ammazzamenti, né quelli su se stessi né quelli sugli altri. Ho trovato qualcosa di diverso. Lo sai, ripensavo spesso a quel film. Parlava di sette operai morti. Il lavoro non è una buona causa di morte, per la gente almeno – quella che ti guarda al telegiornale dico – è una morte noiosa, il lavoro. Ti guardano appena. Io ci ho pensato a morire, dopo. Poi ho visto il film. Di notte, quando mi fermavo nel letto, qualcosa scavava, si faceva spazio. C’era una fabbrica prima italiana, poi tedesca. Gli operai erano tutti più giovani di me, tranne uno che stava per andare in pensione e aveva un figlio un po’ più vecchio di me. E spiegava alla telecamera che suo padre non ha voluto mai farlo entrare in fabbrica, l’aveva fatto studiare per farlo dormire la notte, perché la fabbrica non sa che la notte non è fatta per lavorare. L’incidente li ha bruciati vivi a poche ore dall’alba. Ora ti chiederai cosa c’entri tu con tutto questo. È un sillogismo, una specie di catena di montaggio del pensiero: io so che c’entro con loro, so che tu c’entri con me, e di conseguenza tu c’entri con loro, vedi, il cerchio si chiude. E ti dirò di più: c’è caso che le scale mobili e gli ascensori che metti in tutti i tuoi negozi vengano proprio da lì, chissà. Anche quei padroni non volevano essere chiamati padroni. Però la fabbrica non si doveva fermare, anche se non conveniva più, anche se era rosicchiata dalla crisi. Io di questi padroni non ho inteso manco un nome. Operai mandati in ferie obbligate e ripresi. Giusto in tempo per buttarli a lavorare in un budello senza uscite di sicurezza. Che tanto si stava per sbaraccare. Non si investe sul passato, regola numero uno. Che noia, eh? Che discorsi comunisti. Via, sennò finisce che ti trovano prima del tempo. Ho voluto far le cose per bene: ho noleggiato una macchina. Ovviamente coi tuoi soldi e i tuoi documenti. Saremo a destinazione nel giro di otto ore. Non credo che ti cercheranno seriamente prima di allora. Ho fatto anche una playlist, ma vorrei che mi dicessi anche tu qualche pezzo che ti piace, magari ce l’ho e lo ascolti strada facendo. Così non ti annoi. Ti ho messo un paio di calze pesanti, ti serviranno. Vedrai, alla fine di tutto questo mi vorrai bene. Io sono – non pensare che abbia deliri di onnipotenza – la tua cura. Blanda, quasi un placebo. Non ti succederà niente di male. Non piangere, dai, te l’ho detto che non sarei mai capace di uccidere. Stai bene vestito così, anche il colore dei capelli è decisamente meglio del tuo. Sei fortunato, sai, ad avere ancora tanti capelli. Che freddo. In macchina ti toglierò il bavaglio. Tu non urlerai, e anche se lo farai sembrerà che stiamo litigando, e in ogni caso non ti slego le mani. Sono stata brava, no? Ho pensato a tutto in meno di tre ore. Immagino vorrai sapere dove ti sto portando: non lo so bene, l’importante è che non parlino la tua lingua, che non ti capiscano. Sei cambiato tanto, mi sembra un buon lavoro: non sei troppo strano, e nonostante questo con ‘sti capelli giallo paglia mal tagliati ti ho abbruttito abbastanza da non farti avvicinare. Sei coperto bene, non morirai di freddo. Scusa, ma in macchina a gennaio posso raggiungere solo posti freddi. Purtroppo in tutto questo c’è un’imperfezione che non è da poco: troverai presto qualcuno che parla italiano, e che ti riporterà a casa. Posso solo sperare che questo succeda il più tardi possibile, sennò è tutto vano. Non dico per me, che a quel punto dovrei essere abbastanza lontana, ma per te, che non avresti errato abbastanza per imparare qualcosa. Pensa un po’, alla fine ti sto facendo un regalo: ti regalo la possibilità di ricominciare. Di non lamentarti più di niente: dei debiti, dei creditori, dei dipendenti stronzi, delle maternità da sostituire, della crisi. Puoi ricominciare da capo. Come me. Ti chiedo scusa, ma perché questo succeda è necessario che io ti tolga tutto: soldi, documenti, telefono. Sennò torneresti subito indietro. Ti lascerò andare appena avremo passato il confine. Ti lascerò in un posto non troppo popolato, così potrai passeggiare. È importante passeggiare, tu non lo fai mai, si vede. Ogni passo un pensiero. Dovrai trovare qualcosa da mangiare, senza soldi. Non disperarti, vedrai che ci riuscirai. Dovrai difenderti, dovrai coprirti dal freddo. Hai visto? Niente di che, alla fine. Questa è la mia esecuzione. In nome di chi? Non lo so. Forse diranno: stagismo di stato.

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