Emergenza
di Matteo Trevisani

Per intelligenza intendo una forma di adattamento del soggetto all’ambiente.

È che sono due giorni che non smette di piovere. Mi sembra che il sole sia un ricordo lontano, un sogno lontano che appartiene allo sconosciuto mondo degli asciutti.
Anche se so che non è possibile mi metto a immaginare come sarebbe vivere in continuazione sotto una pioggia battente. E con gli anni, coi decenni, mutare e trasformarsi, partecipare alla vita acquatica, adattarsi per vivere meglio. Perdere i capelli per non bagnarli più, testare la permeabilità della pelle e degli organi, inventarsi ombrelli con luci antipioggia, cose così. Mi metto a immaginare a che cosa mi succederebbe se a un certo punto un barile di pioggia caduta da chissà dove mi entrasse nelle vene e si sostituisse al sangue, e chiudo gli occhi, ripercorro mentalmente il traffico dei miei fluidi corporei (attraverso pori, villi intestinali, ossa appena sviluppate, vescica duodeno fegato stomaco) e quando l’acqua arriva veloce veloce a farsi pompare dal cuore per ricominciare un altro giro, al naso mi arriva chiaro e limpido un odore familiare, odore di orto, di terriccio umido, che sa di casa.
Terreno fertile pronto per germogliare.
È che il venerdì a casa è triste, è che in questo periodo mi sento una cosa rossa al centro del corpo che batte tra l’entusiasmo e la noia, batte per pompare inutilità tra le vene. La cosa mi mette ansia, mi disarma. L’immobilità ha la forma di un gigantesco e potentissimo golem, ma completamente inutile data la lentezza dei movimenti e la durezza del comprendonio. Ecco come mi sento io.
Me ne sto sul divano bianco e azzurro di casa mia, assolutamente incapace di trarre decisioni risolutive e risolvere l’impasse mentre un film rivisto cento volte passa freddo e svogliato alla televisione, senza sonoro. Sbadiglio rumorosamente e ciondolo il capo dalla noia. Mi avvicino alla finestra, e mi stupisco nel notare che non mi ero mai accorto che se, senza un motivo, mi sporgessi dalla piccola finestra del bagno, vedrei quel gran pezzo di reperto archeologico di un’era post industriale non meglio specificata che è il Gasometro di Roma, invece di goderne la solita vista mozzata.
Penso che allora dovrei anch’io iniziare a cercare di adattarmi a questa situazione, per essere annoverato tra le fila degli intelligenti. E smettere di lamentarmi che di solito non porta a nulla di buono.
Emerge, dal molle buio delle vene, filtrato dall’ormai diluito sangue misto a pioggia, la sfrontatezza necessaria per reclamare la possibilità di produrre, di non sentirsi inutili; di fare i soldi, per dirla tutta.
All’improvviso, senza nulla che possa predirmi il tragico evento, tipo un sostanziale ed istantaneo cambiamento climatico, o una folata di vento attraverso le finestre serrate, o un cane morente che si mette ad abbaiare al nulla, sento un tonfo secco provenire dalla strada e subito dopo l’assordante vagito di un allarme.
L’unico colore che mi verrebbe in mente, se dovessi disegnarlo, sarebbe l’arancione.
Sento un allarme arancione che mi spacca i timpani.
Mi avvicino alla finestra, di soppiatto, con la faccia semi nascosta dalle tendine bianche e guardo in strada.
Una signora robusta, sulla sessantina, si agita sull’asfalto bagnato. Guardo intorno, ma oltre un paio di macchine parcheggiate, un lampione che a intermittenza illumina la strada e un gatto che saltellando attraversa velocemente, non vedo anima viva.
Rimango qualche secondo a vedere se qualcuno arriva di corsa ad aiutarla mentre mi domando che cosa ci stesse facendo lì, alle dieci di sera sotto la pioggia senza ombrello, prima di infilarmi un paio di scarpe e scendere giù in strada per dare una mano.
***
Per emergenza intendo la nascita di un’unità ontologicamente autonoma e determinata qualitativamente, la cui totalità non è riducibile alla somma delle sue componenti.
Ora la signora respira, e per quello che ne so è già tanto.
Tutto quello che so l’ho imparato dalla patologia clinica televisiva, quindi per il grosso sono abbastanza preparato, ma purtroppo nel particolare non posso essere molto d’aiuto, anche se mi è capitato di sognare di scattare in piedi al suono di ‹‹chiamate un dottore›› durante un inutile viaggio in treno, per salvare la bambina che si stava strozzando con un panino troppo duro preparato dalla mamma tossica in perfetto stile anni ‘80 che non si era accorta di niente.
La signora respira, ed è seduta a sporcarmi il divano, mentre la guardo perplesso ancora grondante di pioggia.
Le decorazioni azzurre del tessuto stanno pian piano macchiandosi dell’acqua della fradicia gonna marrone della donna, assumendo i toni del blu scuro, quasi viola in certi punti.
«Cosa le è successo?» Chiedo io porgendole un bicchiere d’acqua.
«Una macchina – dice la signora – una macchina mi è venuta addosso e non si è neanche fermata.»
La donna si sta calmando a forza di respirare. Le ho portato un bicchiere d’acqua ma non l’ ha toccato ed ora è poggiato sul tavolinetto basso davanti al divano. Mi guarda come se si aspettasse qualcosa.
«Come si sente?» dico io, poi aggiungo: «Vuole che chiami un’ambulanza?»
Lei si tasta il braccio sinistro, cosa che io adduco alla presenza di una zona dolorante, quindi mi sporgo con la mano oltre il bracciolo del divano per afferrare il cordless e chiamare il 118.
«Oh no – mi blocca lei – non serve, ho preso solo una botta.»
«Ne è sicura? L’ospedale è qui vicino, ci metteranno un attimo.»
La signora è perplessa, ma alla fine decide che non è niente. Strano atteggiamento, penso io. Un paio d’ore di attenzioni non le faranno male, a questa età, magari si viene a scoprire che ha, che so, il colesterolo troppo alto, o uno strano sfogo.
La mia voglia di sentirmi un eroe e salvare a tutti i costi la vita di questa donna si sta trasformando, ingigantendosi, in una cosa patetica che fa a cazzotti con la sua voglia di anonimato.
Poi magari penso che la stanno aspettando a casa, che avrà un marito o forse dei nipotini a cui badare.
Il viso della donna è rosso, come di una che è stata troppo tempo in montagna rivolta contro un vento freddo, e un accenno di doppio mento fa capolino ai lati del collo. Una zona intorno agli occhi è stranamente liscia e sembra sana ma a parte questa oasi nel deserto non dev’essere mai stata bella. I lineamenti sono rozzi e grossolani, gli occhi a palla di un blu intenso e le labbra sottili mi ricordano una tizia che ho visto alla tivù ma davvero non saprei dire chi.
Potrebbe tranquillamente essere mia madre. La differenza di età è più o meno giusta.
«Posso chiederle una cosa?» Dico io rompendo l’ennesimo, imbarazzante momento in cui tutti e due facciamo silenzio guardando il film senza sonoro di poco fa.
«Certo.»
«Che ci faceva in giro, sotto la pioggia senza ombrello?»
La signora prima mi guarda, poi distoglie lo sguardo verso la finestra (sono sicuro di vedere gli angoli della bocca che si tirano, ma no, davvero non posso esserne sicuro) poi si rivolge verso di me per fissarmi.
«È che io non mi do mica per vinta.»
Il mio volto assume un’espressione incredula, dubbiosa.
Per ostinazione intendo la persistenza di una persona in un atteggiamento o in un proposito.
«Rispetto a cosa, signora?» La signora prende coraggio, assume una finta espressione stizzita che secondo me ha provato e riprovato allo specchio per ore e poi dice: «A tutto, caro mio. Al tempo alle ore e a questa cosa odiosa che da giovane chiamavo età».
Sorrido perché capisco. Mi affaccio di nuovo alla finestra e stavolta noto subito l’insegna illuminata della clinica estetica privata.
«Duecento euro ogni due mesi, per tenere vivi questi zigomi, mentre il resto va velocemente in rovina.»
«Da quanto tempo?»
«Ormai saranno cinque anni.»
La signora si alza dal divano, e lentamente inizia a spogliarsi davanti a me. A causa dello shock, penso io. La botta deve averle mandato in tilt il senso del pudore.
«Guarda» mi fa.
Si toglie senza malizia e senza nessuna pretesa di sembrare sexy tutti gli indumenti, e rimane in reggiseno e mutande, in piedi davanti a me che sono ancora appoggiato alla finestra.
Appare all’improvviso un corpo lacerato da troppi interventi poco mascherati. Qualche cicatrice è perfettamente visibile sul petto, e una, verticale, sul fianco destro. La cellulite ne ricopre altre. I piedi sono gonfi e le mani ricoperte da geloni. Attraverso la pelle del seno cadente si notano due bolle grandi quanto un pugno, che mi ricordano le bombe d’acqua dei miei migliori ferragosto. Solo, sul viso, una fronte quasi senza rughe mi dà l’illusione di un tempo che inspiegabilmente, quasi per caso, si ferma.
Mentre rimaniamo in piedi a fissarci i rispettivi corpi, qualche automobile ancora sfreccia sotto casa, per farmi ricordare che invece le ore corrono forti.

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