Carletto, o l’alfabeto greco
di Antonio Senatore

Carletto spingeva la sua vecchia berlina in salita. Sudando copiosamente, ingannava la fatica maledicendo la fortuna avversa. Convinto di essere bersaglio di un malocchio, non si stupì all’apparire dei tre malintenzionati armati di bottiglie rotte, fumi alcolici e pessimo temperamento.
Dacci i soldi, si presentarono i tre, declamando all’unisono obiettivo della visita e ragione sociale del connubio. Sbuffando, l’unica risposta che Carletto riuscì a formulare, mentre il peso dell’auto cercava di riportarlo sui suoi passi, fu datemi una mano.
Sconvolti da tanto eloquio, i tre bricconi si rimboccarono le maniche.
Poco dopo i quattro si scoprirono, ancora ansimanti, in cima alla salita. Disposte a caso si potevano contare tre mani su tre milze, due fiatoni con la tosse – una secca, una grassa – e un famelico brontolio, due grotteschi tentativi di stretching, un mento sfuggente, un occhio pigro e otto scarpe malridotte. Incuneate due pietre sotto altrettante ruote si delirò di amicizia e grandi obiettivi, di scelte errate e pieghe sfortunate, di grandi numeri e massimi sistemi, di calcio e figa. Un collettivo calo di zuccheri produsse: un improbabile quanto mattutino appuntamento, un desiderio condiviso di progetti in grande stile, un sogno comune di riscatto e affrancamento, una sonora scoreggia.
In balia dell’imminente, i quattro si affezionarono alle sconclusionate idee camuffandole da realistici programmi. Ormai rapiti dall’effimera sostanza dell’impegno assunto quanto dall’imparziale avvenenza dell’orario scelto, i convenuti si ritrassero verso le rispettive tane, concedendosi un avanzo di sorriso.

Il primo malintenzionato lo chiameremo Alfa.
Si destò di buon’ora, perfettamente in tempo per tener fede all’impegno, ma temporaneamente immemore dello stesso. Barcollando speditamente, si diresse al bagno. Si espresse nella tazza, esalando al contempo un rutto sgonfio. Finito di scrollare l’appendice, posò una mano contro le piastrelle, nel tentativo disperato di distribuire equamente un consistente peso. Un ulteriore, gorgogliante rutto gli riportò alla gola un aspro ricordo di alcool indigesto. Andò in cucina, bevve molta acqua e tornò ad abbattersi sul letto, disfatto.

Il secondo malintenzionato si chiamerà Beta.
Stava cercando di spingersi nella propria donna oltre il limite orizzontale stabilito dall’incontro a tavolino tra madre natura e biologia. Sbuffava, sudava e si dimenava con vigore, accompagnato a tempo dai contraccolpi sincopati dell’amato bacino. Per le molle del letto doveva essere un gran divertimento: si contraevano, cigolavano e sghignazzavano. Nel momento esatto dell’appuntamento, gli amanti cambiarono posizione, si scambiarono fluidi e intrecciarono lenzuola gualcite.

Il terzo e ultimo malintenzionato potremmo chiamarlo Gamma.
Dormiva della grossa e avrebbe volentieri continuato, se il suo russare non avesse disturbato un vicino poco incline al dialogo. Partendo da molto lontano, i colpi sul muro raggiunsero la sua coscienza. Troppo intontito per comprendere la dinamica degli eventi, il malintenzionato si ritrovò sciattamente rassettato, con una sigaretta penzolante a un lato della bocca e lo sguardo perso nel vuoto, a dare piccoli, timidi calcetti a uno dei sassi che fermavano le ruote dell’auto. Impiegò del tempo a realizzare che la drammatica mistura di alcool, stanchezza e pigrizia degli altri avrebbe inciso una piega nefasta a tutta la faccenda. Aprì allora lo sportello e si lasciò andare sugli scomodi sedili, col cambio puntato contro un rene.

Carletto bestemmiava, ad alta voce, emotivamente al riparo da vergogna e censure. Avvicinandosi alla macchina, sconvolto dal silenzio di dio, si accorse dello sportello aperto e delle scarpe sfondate che ne spuntavano spavalde. Si ricordò allora dell’appuntamento e la purezza del suo spirito ne risentì. Diede un sonoro calcio al paraurti, chiedendo contemporaneamente all’occupante dove fossero gli altri.

Sputacchiando, l’affaticato mezzo arrancò fino alla spiaggia. Con due lattine di birra per mano, Carletto e Gamma scesero dal trabiccolo e si accomodarono sul bagnasciuga: schiena contro il radiatore, piedi in acqua. Dunque bevvero, rassegnandosi con sollievo all’inconsistenza di certi propositi, mentre il sorgere del sole illuminava l’inizio della storia.

Alfa e Beta, da direzioni opposte, ciondolano scarsamente motivati verso l’appuntamento. Si incontrano nei pressi dei due sassi di scarso valore, constatando l’assenza dei complici. Sospirando un saluto s’incamminano, muti e apparentemente senza meta. Guidati forse dall’inconscio, si ritrovano a bighellonare nei pressi di una banca. Notano stancamente il lassismo mattutino dei portavalori: sì, pistole in pugno, ma sguardo spento; sì, attenzione alla procedura, ma sacchi posati in terra, con noncuranza; sì, telecamera di sicurezza, ma puntata sulla fiancata sbagliata del mezzo parcheggiato svogliatamente; sì, furgone blindato, ma sportelli spalancati, chiavi nel quadro e motore in folle.

Alla prima guardia giurata spetta il nome Delta.
Giocando distrattamente con la fondina, guarda la porta della banca, spalle al furgone. Il direttore, o chi ne fa le veci, è in ritardo, e non è una novità. Stancamente, la guardia sposta il peso da un piede all’altro. D’improvviso, il suo corpo reagisce a una sollecitazione sonora. Mentre si balocca con l’identificazione del segnale, il suo cervello ordina alle ginocchia di piegarsi e alle spalle di abbassarsi. Alle mani tocca l’ingrato compito di proteggere la testa. La guardia resta un attimo ferma in quella bizzarra posizione, lasciando che il tuono che l’ha sorpresa si allontani dal suo udito. Quando in cambio riceve stridore di gomme e le invettive del collega, si rialza e finalmente si volta. Rimpiangendo l’eco dello sparo si gratta la tempia, facendo sobbalzare il berretto in modo buffo.

La seconda guardia giurata si chiama Epsilon.
Ma guarda ‘sto stronzo pensa, scaricando sacchi dal furgone, convinto che il testone spuntato oltre la grata sia quello del collega. Scende dal blindato e vede il compagno, di spalle, che gioca con la fondina. Per un attimo non pensa a nulla, perché è semplicemente troppo presto per organizzare pensieri con coerenza. Si volta al rumore gommoso e stridente del furgone che lascia il marciapiede in tutta fretta. A bocca aperta, con un fluido movimento estrae l’arma e spara, uccidendo sul colpo un sacco pieno di carta e monetine. Insulta il collega accucciato e corre.

L’ometto del secondo piano di fronte alla banca è il signor Zeta.
A bocca aperta guarda la scena. Stava facendo la cacca, ma quando un brivido lo ha distratto si è ritrovato con le gambe flesse, il peso del corpo concentrato sui quadricipiti, le brache alle ginocchia tenute da mani tremanti, indeciso sul da farsi. Devo chiamare qualcuno è il grido nella sua mente che si affievolisce al ritmo dei pantaloni che scivolano di nuovo verso terra, delle chiappe che scendono di nuovo sulla tazza, del quattro orizzontale che torna a tormentarlo: chi la fa, rimane male. Dieci lettere, termina in ia.

Il vecchio barista all’angolo risponde al nome di Eta, anche se qualcuno lo chiama Scusi.
Sta servendo un cappuccino o una brioche o sta pulendo un tavolino, mentre seduto su una sedia, sorseggiando un Ferro-China, si fuma una sigaretta e guarda i malintenzionati appropriarsi del furgone parcheggiato male e sorvegliato peggio. Dopo un debito sorriso, sospetta che gli faranno delle domande. Sta porgendo un cornetto o un caffè, forse sta lavando il bagno, in quel momento, mentre grattandosi il pancione pensa a cosa potrebbe star facendo quando la cosa accade. Lucida i bicchieri? Canta una canzone?

L’avvocato si chiama Theta.
Il mal di testa lo distrae da ogni cosa, ma lo sparo lo ha sentito. Non solo, lo ha riconosciuto: uno sparo! Non ha sentito grida di dolore, né poliziesche intimazioni. Vabbè, uno sparo… sarà scoppiato uno pneumatico, sarà caduto un vaso da un balcone, sarà stato un rumore in un cantiere. In una strada deserta, senza balconi, priva di cantieri. Allora un rumore lontano. Comunque, materia da civilisti, nulla che lo riguardi. Guarda il barista attraversare la diagonale del bar, lo sguardo corrucciato. Non vede uno sguardo sereno da tempo sufficiente ad attraversare i tre gradi di un giudizio. La cosa si riflette positivamente sulla sua carriera e negativamente sul suo rapporto con la chimica. Ingoia un analgesico, paga la colazione e va al lavoro, chiedendosi quanto dovesse essere forte il rumore, all’origine, per arrivare a lui così distinto, netto e in tiro.

La portinaia indaffarata sarà la signora Iota.
Spazza l’uscio dell’agenzia di cambio tutte le mattine. Guarda sfrecciare il furgone portavalori e scuote il capo. Neanche più l’uniforme, si mettono. Spazza un altro po’, sbuffando. Nota le guardie giurate che svoltano di corsa l’angolo gridando cose nelle radioline. Tutti sudati e trafelati, pensa, non ci sono più gli uomini di una volta. Riprende a spazzare e pensa al cappotto cammello del marito, al vistoso anello d’oro che ha portato con sé nell’aldilà, ai figli che non hanno avuto. Scruta una delle guardie, che si è fermata ad ansimare dove lei ha già pulito. Si avvicina all’uomo, annunciata da un leggero odore di disinfettante che al momento la guardia non percepisce, e gli spazza intorno ai piedi, augurandosi che capisca: «Bella giornata per ansimare, eh? Si vede che lei è giovane. Ce l’ha la ragazza? E un altro posto in cui sostare? No, perché, sa…»

Il giornalaio seduto lo chiameremo Kappa.
Ad alcuni spettano ingiustamente nomi più belli che ad altri, e Kappa è un bel nome, anche in caso di processo. Controllando i resi e gli ordini, sistemando i quotidiani e le riviste, il signor Kappa sente solo uno spostamento d’aria, come quella volta che stava per essere investito. Si rende conto che alcuni giornali sono volati via e, voltandosi verso l’angusta porticina dell’edicola, vede il retro del furgone che sbanda tra il marciapiede e la strada e si libera di un pacco di giornali rimasto impigliato alla fanaliera. Teste di cazzo, pensa il signor Kappa rimettendo a posto le sue cose. «Scusi, il mio giornale è rovinato…» «Ma no, che dice? È vintage.»

Lambda. Questo è il nome della signora che sbatte il tappeto alla finestra.
Con vigore schiaffeggia il tessuto pesante con il vecchio battipanni. L’improvviso ingresso del furgone nel suo campo visivo la distrae e le fa cadere il battipanni. Cadendo, l’oggetto batte sul tettuccio di un’auto parcheggiata. Si tratta dell’auto sportiva nuova di un giovane scavezzacollo della zona. L’antifurto grida il suo disappunto e la signora Lambda sobbalza, lasciando cadere anche il tappeto. Questo va a finire sul furgone, schermandone parzialmente il parabrezza. L’autoblindo sbanda vistosamente, rendendo ridicola la bozzetta causata dal battipanni. Il caso vuole che il giovane proprietario del veicolo sia in auto e si lanci all’inseguimento. Ah, cazzi vostri, pensa la signora Lambda, quello è un osso duro. Il tappeto misura 200×240, ha le frange, sembra che scodinzoli.

Il giovane virgulto scapestrato, proprietario di auto sportiva, si chiama Mi.
Sta aspettando i fratelli Ni e Xi per portarli a fare un giro, ma ora è partito, pace. È partito, insegue e non c’è storia, perché l’auto è più veloce del furgone. Solo che le viuzze sono strette e l’auto può solo stare dietro. Già frustrato per ragioni che non riguardano questa storia, il giovane scopre improvvisamente di aver ceduto all’ira, dunque abbassa il finestrino e dà fondo al suo repertorio di sconcezze. Il cellulare suona. Rabbiosamente, Mi risponde e impone al fratello di mezzo, con poco garbo, di prendere un’arma, la moto e darsi una mossa. Del pietrisco schizza via dall’asfalto, graffiando alcune fiancate.

Ni esegue, con un braccio di Xi stretto alla vita mentre l’altro agita una 9mm. Ni stira le marce nelle dritte, quando stacca in curva caccia il piedino per darsi una mano, fa fuori un paio di specchietti e poco dopo è lì, alle spalle del fratello. Sognando a occhi aperti di essere un pilota, scarta di lato tra due auto e si appropria del marciapiede, accelera fino ad affiancare il furgone, non si accorge di un’auto in manovra che gli taglia la strada e si trova a volare sull’asfalto con il fratello poco distante, a strusciarvi, a rotolarvi e, infine, a guardare per un attimo l’azzurro cielo chiedendosi quanto sia azzurro. L’auto sportiva inchioda subito dopo, accompagnata dal grido di Mi: «Salite, stronzi!». La luce del sole si scompone sui parabrezza, riproducendo casualmente un motivo futurista.

Omicron è il nome del garzone del fornaio.
Attraversa la strada reggendo con fatica una grossa cassetta di plastica piena di pane, coperta da un panno sporco di farina. E di farina è sporco anche il lungo grembiule di Omicron, stretto in vita da un nodo feroce dovuto, più che alla solerzia, a un orario di lavoro ancora più feroce. L’arrivo del furgone costringe il garzone a una decisione. Fa un balzo indietro e sente dolore alle mani quando il blindato gli strappa via la cassetta. Una nube di farina investe il parabrezza e s’insedia sul tappeto. Omicron sgrana gli occhi e spalanca la bocca: è in arrivo un aereo carico di… Le pagnotte rimbalzano, rotolano e si rompono; la plastica si rompe e basta.

Il bull terrier della signora Pi si chiama Rho, è tenace, sessualmente attivo e non del tutto bianco.
La vista delle gomme in movimento lo attrae più dell’arrendevole cagnetta del vicino. Drizza la coda, punta e parte. Abbaia a più non posso e corre veloce, spruzzando fiotti di saliva qua e là, lungo la strada. Prima di esplodere in un grido, la signora Pi guarda il guinzaglio allontanarsi, trascinato dall’animale. Allarga le braccia e grida. Alla vista del garzone, ne approfitta per svenirgli in grembo, offrendo alle sue forti mani l’opulenza delle proprie carni. A quel punto, Omicron si guarda intorno, stupefatto o preoccupato. Le pagnotte non rimbalzano più: giacciono e accolgono la farina che si posa su di loro come finta neve in un pessimo souvenir.

Via Sigma, incrocio corso Tau, è un continuo viavai di persone indaffarate.
Impiegati, insegnanti, studenti, rosari mattutini e donne in carriera. Auto in doppia fila, signori in doppio petto, motorini e biciclette. Un vento freddo e tagliente fa danzare le insegne e i lembi dei cappotti. Il vocio acuisce il senso di frenesia che invade l’incrocio. Un pullman, un gruppo di bambini e quattro Suv. Il furgone ha la decenza di annunciarsi con un prolungato assolo di clacson. Effetto domino. Come quando si versa dell’acqua sull’ingresso di un formicaio e, disorientate, le formiche scappano. La folla si apre a raggiera e a farne le spese sono una fiancata e un bidone. Il furgone prosegue lungo via Sigma, fino al semaforo. Il giallo dura ben trenta secondi, ma è ininfluente: potrebbe durare anche all’infinito.

Il signor Ypsilon è in pensione.
Indossa una pettorina gialla catarifrangente e agevola l’attraversamento dei pedoni. Espone con veemenza la paletta rossa. Il furgone non sembra intenzionato a rallentare, e il signor Ypsilon agita la paletta: su e giù. Il furgone mantiene la velocità, e il signor Ypsilon fa un passo indietro. Grida: «Ferma! Rallenti!», ma non sortisce alcun effetto. Il furgone prosegue la sua corsa e il signor Ypsilon scuote il capo, borbottando, lieto che in quel momento non ci fosse stato nessuno ad attraversare la strada. Sospira, si aggiusta i pantaloni e prosegue il suo lavoro. La solitudine della paletta è quasi palpabile. Rossa da un lato e verde dall’altro, giace immota nella stretta dell’uomo, in attesa che tornino le formiche.

L’agente del centralino si chiama Phi.
Prima la chiamata delle guardie giurate, poi quelle dei passanti. Continuano e si sommano, ma non ci sono pattuglie libere. «Stiamo intervenendo, abbiate pazienza» risponde a tutti, e nelle pause chiama le volanti. Ce n’è una in zona, ma la radio gracchia e nessuno risponde. L’agente Phi è stanca di stare al centralino, non le piace più e vorrebbe tanto un cambiamento. Passa una telefonata interna e inveisce contro la pattuglia che non risponde. Si sta innervosendo, quando finalmente una voce la informa di aver avvistato il furgone. Non è la pattuglia in zona, è un’altra, ma fa lo stesso. Ogni volta che uno spinotto viene inserito, un lieve fremito elettrico attraversa le cuffie.

Gli agenti Chi e Psi si scambiano un’occhiata fugace, d’intesa.
Chi impone il suo peso all’acceleratore, Psi accende la sirena e il lampeggiante. Inseguono il furgone, gli si accodano. L’agente Psi prende il microfono, lo accende e intima l’alt ad Alfa e Beta. Forse non se l’aspettano, perché il furgone sbanda e urta un lampione. Scoda e, immettendosi nel vialone che dà sul lungomare, pessima mossa, urta contro l’angolo di un palazzo, causando l’apertura di uno sportello. Un sacco vola verso la gazzella, ma l’agente Chi è svelto e lo evita, intercettando perfettamente il secondo. Il parabrezza s’incrina ma non si rompe. Si rompe invece il sacco, ma è doppio e non ne esce nulla. Le gomme stridono e l’inseguimento prosegue. Del primo sacco nessuno sembra interessarsi. Come nessuno riflette su danni, dolori e tempo perso. Ormai, si suppone, è una questione d’onore.

Il lido Omega vanta un’accoglienza da re.
L’autoblindo si accontenta di un cancello aperto da attraversare a tutta birra. La passerella di legno tamburella allegramente sotto il peso delle ruote, fino alla fine. La volante imbocca l’ingresso del lido derapando. Raggiunta la sabbia, il portavalori rallenta e sobbalza. Al bagnasciuga si ferma e gli sportelli vomitano il proprio carico scadente. Alfa e Beta, un sacco a testa, si scompongono nelle opposte fughe. La gazzella frena e gli agenti si fiondano fuori, armi in mano.
Poco distante, un Gamma lievemente ubriaco si alza, aggrappato all’auto malmessa di Carletto, e dà un’occhiata verso il trambusto e la sirena ponendosi, senza malizia, sulla strada di Alfa. Il sacco vola, i malintenzionati volano, e vola pure qualche bestemmia. Nella confusione, l’agente Chi si convince di aver fermato i due sospetti e richiama il collega, che sta prendendo la mira per fare una sorpresa a Beta. Psi ci rimane male, è convinto che il tizio col sacchetto a cui sta mirando sia proprio uno dei farabutti a cui davano la caccia. Dopo una breve esitazione, decide, e alla stazione ne arrivano tre al prezzo di due: quando si dice un lavoro ben fatto.

Il trabiccolo di Carletto scende che è una cigolante meraviglia. Contatto inserito e motore spento. Spenti anche i fari, contro un’alba ancora lucente e di bella presenza. Carletto ha un sonno di quelli che divorano chi li nutre, come l’invidia. Frenando a tratti, arriva quasi fermo al brutto incrocio, intercettando con lo sguardo tre lettere dell’alfabeto greco. In attesa del verde, rivolge loro un cenno di saluto. Al momento giusto, senza indugi, Carletto svolta a destra, verso casa. Prima di scendere, raccoglie dal sedile il sacchetto trovato nella sabbia: quando si dice un lavoro ben fatto.

Appendice arcaica: la coda.

Digamma, Stigma, Heta. Le sorelle polacche poco interessate. Durante il tafferuglio lavoravano, perché mica hanno tempo da perdere, loro.

San, Sho, Qoppa. Gli orientali paffutelli. Durante il trambusto scattavano foto. Hanno un filmato interessante da caricare su internet.

Sampi. La vecchia alla fine della strada. Vende saggezza e gomme da masticare, e sembra non si sia accorta di nulla, o ne abbia già viste abbastanza.

Questo articolo è stato pubblicato in numero 6. Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

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