Autore: Gabriele Dadati
Casa editrice: Gaffi
Pagine: 201
Non è facile parlare di questo primo romanzo di Gabriele Dadati, perché è un romanzo che si tiene tutto dentro, che raramente esce allo scoperto e che quando lo fa lascia comunque il dubbio di non aver colto in pieno quanto l’autore volesse esprimere.
Diviso in tre parti – Purgatorio, Inferno, Paradiso – che, oltre a richiamare La divina commedia, appaiono come un rimando alla classica struttura in tre atti cinematografica, Il libro nero del mondo si apre con una scena del film che il giovane regista Gabriele Lazzari sta girando: un uomo che consapevolmente va incontro al suo carnefice, rappresentato dal cannibale protagonista della pellicola.
Per tutta la prima parte seguiamo Gabriele Lazzari nei suoi rapporti con i colleghi del set – dall’aiuto regia Ruggero, alla segretaria di edizione Alice, al direttore della fotografia Hans – lo seguiamo mentre è solo, lo seguiamo in casa, lo seguiamo nella relazione con la moglie Nicole, relazione che Dadati è molto bravo a tenere sul filo, insinuando il sospetto che qualcosa non funzioni per poi smentirlo per poi insinuarlo ancora, il tutto con estrema semplicità e senza mai forzare. E poi c’è il fantasma di una bambina che piange in giardino, c’è un continuo – ma non invadente – accenno al “mostruoso”, al decadimento. Purgatorio appare come la sapiente preparazione di una storia che sembrerebbe destinata ad esplodere nella seconda parte, in seguito ad un improvviso colpo di scena. E il colpo di scena, in effetti, non tarda ad arrivare: l’attore che nel film impersona il cannibale viene rapito, ma in realtà non è altro che un’esca per arrivare al regista, il quale, precipitatosi in suo soccorso, cade nella trappola del sequestratore – un uomo convinto di aver ricevuto da Dio la missione di debellare il male, uccidere ogni sua personificazione, un serial killer che ha scelto Lazzari come testimone e divulgatore delle sue imprese purificatrici.
Da questo punto in poi tutto inizia ad essere più nebuloso, accade in fretta, e la narrazione cede il passo ad un’astrattezza in cui si percepisce il tentativo di tracciare delle linee e dei temi guida che, però, invece di andare di pari passo con la storia se ne distaccano, rimangono “penzolanti”. La sensazione che si ha è che non sia più la storia nella sua interezza ad essere portatrice di senso, ma singole immagini, singole azioni, singole frasi. E in un romanzo complesso e ambizioso come questo di Dadati senza dubbio è, la scelta di cambiare repentinamente strada e spostare l’attenzione su “simboli”, accenni, riferimenti biblici, lascia un po’ il sapore della rinuncia.
Francesco Sparacino