La persona giusta
di Federica Patera

Nel parco, dove le cose silenziose permanevano.
«Vite minuscole», Pierre Michon

All’inizio di ottobre si erano ritrovati a fuggire attraverso il parco in pieno orario di punta, cercando riparo nella sua vastità e nella gente che si aspettavano di trovare, ma, al contrario, furono colpiti dalla rarità di persone che videro.
Ci tornarono un paio di volte, sostando qualche ora sparpagliati, camuffati nelle intenzioni da un libro aperto, da una conversazione, da un paio di birre. La frequenza di passaggio e il tempo di fuga era ciò che dovevano calcolare. La quarta volta, infine, convinti dalla discrezione del luogo, decisero di fare una prova, di fermarsi un paio d’ore per cercare la persona giusta. Si erano dati appuntamento lungo uno dei sentieri ghiaiosi, vicino a uno spiazzo attorniato da piante di nandina.
Il più alto di tutti portò da mangiare come copertura.

Quando arrivò l’ora, lei lasciò l’ufficio insieme a tutti gli altri; li seguì fino all’incrocio, e poi si separò per proseguire attraverso il parco. Le dissero di stare attenta, sorridendo, e lei rispose che avrebbe tenuto stretta la borsa. Sorrise anche lei e fece un cenno di saluto con la mano. Il rientro attraverso il parco era il suo momento di silenzio giornaliero. Il passo spedito fino all’ingresso si frenava di colpo sulla ghiaia, man mano che il rumore del traffico esterno scompariva e le persone si disperdevano. Era sotto gli occhi di tutti, il parco, per la sua mole, eppure restava intimo; la ragazza sapeva che ci si poteva camminare mezz’ora o più senza vedere nessuno.

I tre erano accucciati sul prato, giocavano col cibo, spezzavano il pane e lo davano ai passerotti. Si accorse della ragazza il più alto; s’infilò con lo sguardo tra i suoi due compari che davano la schiena al sentiero. La vide avvicinarsi lentamente. Appoggiò le mani sulle gambe degli amici per allertarli, ma fu cauto. Quando la ragazza, come ogni sera, deviò verso la fontanella l’uomo capì che era il loro momento. Prima di bere, la ragazza appoggiò la borsa sulla panchina e appena si chinò, i tre si mossero agili, lasciando cadere al suolo dalle maglie increspate una morìa di briciole.
La ragazza si accorse della loro presenza, invece, quando i piedi spaiati si infiltrarono nella sua vista puntata a terra. Mentre l’afferravano così piegata notò l’assenza sul terreno di mozziconi di sigaretta, anche se sentiva l’odore pizzicarle le narici. Riuscirono a distrarla così, con una sigaretta accesa dal fumatore del gruppo.
L’uomo più basso, che poteva sembrare un nano, le bloccò i polsi stretti nei pugni; il compare di media statura, di fianco al nano, si mise alle sue spalle, con un braccio le immobilizzò i gomiti mentre la riportava eretta e con la mano sinistra le afferrò i capelli come se stesse assicurando una cinghia; strattonò la coda un paio di volte, in maniera violenta, ma era chiaro che non voleva romperle l’osso del collo con quei colpi all’indietro. Di fronte aveva il più alto dei tre e, dietro, il cielo. Guardò l’uomo alto e barbuto come se temesse che gli altri due avrebbero mollato la presa in un secondo e lei, sorretta dalla loro forza, sarebbe finita a terra accasciata sulla gonna.

L’uomo alto le sorrise; in mano teneva una benda, oltre alla sigaretta. La fissò, successe per caso, tanto da allentare la presa sul pezzo di stoffa che ciondolò davanti al naso del nano. Negli occhi castano scuro della ragazza si faceva difficoltà a distinguere l’iride dalla pupilla. L’uomo pensò che è inutile chiudere i buchi neri. La ragazza taceva, sperava che la lasciassero andare, di infastidirli il meno possibile, che riconoscessero in lei la ragazza sbagliata.

Si sentì un cinguettìo che fece voltare l’uomo alto verso destra; un passo alla volta, in punta di piedi, si allontanò dalla ragazza e arrivò al bordo della strada. Gli altri due uomini lo osservavano come non si aspettavano; lui li ignorò. C’erano tre passerotti rivolti verso il prato che beccavano le briciole di pane. L’uomo infilò la benda nella tasca, si chinò e ne afferrò uno in un gesto rapido. Sentiva il passerotto vivo fra le sue dita, cercava di non stringere troppo ma non lo avrebbe lasciato volare via. Si sedette sul bordo della strada, con le gambe appena aperte e le ginocchia piegate; sollevò la mano che custodiva il piccolo volatile, e i suoi occhi pure, mentre il suo mento tirava una linea dritta al suolo. Il passerotto e la ragazza dovevano essere sullo stesso raggio visivo, perché l’impressione che guardasse uno o l’altra mutava senza una ragione. Fu allora che la ragazza si spaventò, d’istinto, senza che un movimento nuovo venisse abbozzato da uno dei tre. Iniziò a respirare profondamente, sonoramente; inspirare ed espirare. Il movimento della testa seguiva il ritmo, e il secondo uomo, quello alle sue spalle che le stringeva i capelli, la seguì ondeggiare, anche lui dubbioso della scena cui assisteva. Il nano, invece, rimase attaccato ai polsi di lei, con lo sguardo sui piedi per nascondere la faccia.
La ragazza ancora non si era messa a urlare, qualcosa le bisbigliava nella testa di tenere chiusa la bocca, che il clamore non l’avrebbe soccorsa in quel parco amato per il silenzio. L’uomo alto si alzò, protendendo in avanti il braccio e la mano con il passerotto, che continuava a cinguettare e dimenarsi; smise un istante quando l’uomo gli appoggiò le labbra sul culmine della testa. Adesso la ragazza iniziò a piangere senza che le fosse detto nulla, e strinse le labbra una contro l’altra, con forza. I due uomini che la tenevano stavano tremando; d’abitudine la prescelta veniva legata e imbavagliata, a volte persino stordita, ma questa volta dovevano fare affidamento sui loro muscoli.
L’uomo alto tornò al suo posto; gli bastò solo un lungo istante per essere di nuovo di fronte alla ragazza. Il piccolo uccello finì a tiro del nano, che era sul punto di capitolare e accarezzarlo se la mano non si fosse levata in un gesto fino alla bocca della ragazza. Quest’ultima strinse le labbra di più; non voleva, si rifiutava di aprire la bocca, anche se la voglia di urlare insisteva; avrebbe potuto farlo senza dire una parola, uno di quegli urli che vengono dal fondo e tengono una lettera per sempre. Urlare avrebbe soltanto anticipato un destino che non voleva immaginarsi, che desiderava non arrivasse mai nonostante le fosse di fronte. Lui rise spalancando tutta la bocca ma senza emettere un suono. La luce serale resisteva ad abbassarsi fino in fondo. C’erano solo lui e lei adesso, chi avrebbe ceduto era il gioco.
L’uomo alto era nella condizione di barare per costringerla a fare ciò che voleva lui, lo sapevano entrambi. Così, con la mano libera, le schiacciò le gote, l’indice e il pollice premettero come una morsa a un centimetro dagli angoli della bocca, le fecero fare l’imitazione del pesciolino, e lui con lei, i loro visi a un paio di centimetri di distanza, come se volesse baciarla. Lei non si illuse e lui riprese sùbito a ridere e rimbalzò con la testa al suo posto, allineato con la schiena e le gambe. Aprì appena l’anulare e il mignolo per assicurarsi che il passerotto non si fosse arreso, fosse ancora pronto a volare. La bocca di lei era stritolata tanto da ridurre il labbro inferiore a un’escrescenza rossastra. L’uomo vi sporse la testa del passerotto, morbida con le piume leggere e di un castano acceso, come per farlo abbeverare della saliva della ragazza. Lei tentò di scuotere la testa, in maniera poco originale, ma il braccio del secondo uomo si era imbalsamato in una posizione rigida e lei ottenne solo dei nuovi strattoni per il collo. «Non vorrai tranciare la testa del passerotto con i tuoi denti?» le disse per la prima volta l’uomo tra la barba, «poi mi toccherebbe serrarti la bocca, come piace a te, e chiudere all’interno il capo mozzato, che ne pensi?» La ragazza spalancò gli occhi e con essi la bocca, l’aprì tutta, per buttare fuori il grido e lui ne approfittò e vi spinse dentro l’intero passerotto, che iniziò a becchettare e a pigolare lasciando micro punture sul palato, sulla lingua e a ridosso delle tonsille. Nella sua testa la ragazza pregava, forse, che l’uomo la smettesse, ma doveva chiedere altro. Il passerotto era trattenuto per le zampe sottili e lucide come se fossero di plastica. Non ci voleva niente perché si rompessero. Ne ruppe una lui. L’altra la liberò dalla presa e la accartocciò nella cavità orale della ragazza, che richiuse con il palmo teso.
Doveva svenire. La ragazza doveva chiedere di svenire. Gli occhi sembravano spinti all’esterno, sembrava volessero uscire dal corpo, andarsene e smettere di vedere da quel punto di vista.
I due uomini che la trattenevano, uno alle sue spalle e l’altro che le arrivava alla vita, se avessero visto quegli occhi, probabilmente, vi avrebbero riconosciuto il terrore, quando il presente è troppo immobile per poterlo sopportare.
Quel suo viso sollevato, in una smorfia di rigetto che faceva cascare la nuca sulla spalla dell’uomo dietro di lei, aiutava la gravità a imbucare meglio il passerotto. Vomitare, ecco cosa era necessario fare, rimettersi nella sua posizione iniziale, mentre le piume si arruffavano strofinate dai denti e il passerotto le si agitava in bocca e gonfiava le guance, che l’uomo alto pigiava piano, poi con forza, un lato alla volta, schiantando il volatile da una parte all’altra, ammaccandolo, facendolo sanguinare. Verosimilmente con la bocca vuota la ragazza avrebbe riso di quelle mani sul viso. Invece sentiva il sangue, adesso era lì nella sua gola che scendeva verso lo stomaco; non sapeva se fosse il suo o meno. Scosse la testa in un grande no, il pianto strizzò le palpebre, le increspò lungo la linea di separazione tra la superiore e l’inferiore, mentre l’uomo rideva, ancora in silenzio, e gli altri due lo imitavano. L’eccitazione dell’uomo alto e barbuto aveva raggiunto tutti e la speranza di interrompere il gioco anche per la ragazza si ridusse alla possibilità di venire interrotti da un passante. Non c’era intervallo prima della fine.
Quando la ragazza si lasciò andare, la presa ai polsi e ai capelli si fece ancora più caparbia, l’assenza di resistenza era difficile da domare più della resistenza stessa. Il volto della ragazza che si agitava a ogni spasmo millimetrico dell’uccello si arrestò in una sagoma innaturale, deformato nella zona della bocca, verso destra, come se avesse iniziato a gonfiarsi di quel gonfiore che sarebbe diventato tumefatto, ed escoriato all’interno come se l’avessero picchiata. Il respiro della ragazza venne incitato di nuovo dall’uomo barbuto, «Dal naso, respira dal naso», e indicò il proprio. «Deglutisci, devi deglutire.» La ragazza ingurgitò del sangue come se stesse ingurgitando una pozione. Lui sorrise e lei, con gli occhi, gli chiese pietà, non abbassò lo sguardo, non aveva vergogna; era sfinita. Le bastò udire un fruscio per distrarsi, le rispose lui per gentilezza: «Non arriva nessuno».
La cassa toracica e le spalle le sussultarono all’improvviso alcune volte di seguito; la testa dondolò. Il passerotto non era morto, tentava di scenderle in gola. Di spingere, forzare il buco che aveva davanti a sé, un buco nero che non doveva essere chiuso. Deglutire aveva indirizzato meglio l’animaletto. Bastarono pochi, pochissimi colpi, uno, due, perché i sussulti diventassero un conato.
La guardarono singhiozzare con l’intero corpo, non si era ancora agitata così, contro gravità; i due complici allentarono la presa senza allontanare le mani; il cerchio che avevano stretto in tre attorno alla ragazza era un riparo sicuro. Lui le scosse appena il viso, da destra a sinistra per aiutare la discesa, come si fa con gli imbuti ostruiti. Poteva diventare una poltiglia il passerotto, e masticarlo sarebbe stata la soluzione ideale; il fatto che fosse in vita e la forma non ne rendevano facile la discesa.
Il respiro della ragazza cessò; lui non lo sentì più battere sulle nocche della mano con cui le stritolava le labbra viola e le ostruiva sempre di più le narici. Fu in quel momento di silenzio totale che gli acidi e i residui del pranzo si sollevarono dallo stomaco; incanalati dritti fino alla gola della ragazza. Quando smise di palpitare, i tre uomini aspettarono immobili e rigidi qualche secondo prima di lasciare andare la stretta; non fecero in tempo a fare un passo che il corpo di lei già scivolava a terra come un abito dismesso. Le gambe si accartocciarono sulla fanghiglia che circondava la fontanella; la gonna a ruota riparò il busto e la testa dalla ghiaia. Solo allora gli uomini si accorsero di essere all’incirca uno di fronte all’altro. Abbassarono gli occhi e la videro né seduta né sdraiata a terra; si voltarono verso la borsa, l’uomo alto l’afferrò e iniziarono tutti e tre a correre.

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 25 e ha le etichette , . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.