Troppi giapponesi in casa
di Filippo Balestra

In pratica mi entrano dei giapponesi in casa.
Non so quanti, dieci, quindici, dodici forse, non so, mi entrano tutti insieme precisini in fila e sento la voce di Carlo, ovviamente, sempre lui, Carlo, dal pianerottolo, «prego prego», «fate fate» e ancora, «prego», «fate».
Io non sono in pigiama, stavo leggendo alcuni articoli fondamentali riguardanti alcune strategie geopolitiche, non sono in pigiama perché non ho un pigiama, quindi va bene, insomma, sono incappucciato in una felpa di un’università americana e tante volte mi sono chiesto dove me la son presa, questa felpa, e perché mai io dovrei avere una felpa di un’università americana, mi sono anche chiesto come ci sono entrato io in questa felpa, ma son cose della vita, cose geopolitiche, quasi, e in questi casi poi non m’interessa neanche troppo stare a preoccuparmi di una felpa perché ci sono tutti questi giapponesi adesso in casa e sono gentilissimi, per carità, lo sappiamo come sono i giapponesi, moltissimi inchini, mi presento, ciao, Lorenzo, piacere, mi fanno delle foto e tutto sembra dover andare così, dover andare bene così. Carlo intanto è entrato con la sua faccia tipica di un suo certo entusiasmo franoso e dice «lui è Lorenzo, viviamo insieme», e loro continuano a fare foto, fotografano l’interruttore della luce in cucina, che è un interruttore piuttosto normale, e io non posso dire niente, fotografano la presina per la pentola, fatta di quella lanetta, e cosa gli dico? Fotografano poi un chiodo alla parete, fino a qualche mese fa c’era un quadro attaccato, poi Carlo l’ha staccato e allora mi viene da spiegarmi, con questi giapponesi, mi viene da dire che non c’è niente da fotografare, il chiodo è lì perché prima teneva un quadro, ma loro fotografano divertiti da questo chiodo e anche lì, all’inizio ci provo ma poi, cosa vuoi spiegare ai giapponesi, di ‘sto chiodo, di ‘sto quadro che non c’è più, di com’è fatto Carlo.

Perché Carlo ha questa sua fissazione che dice che nella vita bisogna farsi accadere delle cose strane, predisporsi all’accoglienza dell’impensabile, il più possibile, e allora sul davanzale teniamo delle uova da far marcire, che non si sa mai, dice Carlo, e i giapponesi giù a far foto a queste uova e anche lì, vorrei spiegare, vorrei dire di stare attenti che sono uova vecchie marcite di mesi, che servono a far accadere cose strane, ma niente, come prima, inutile mettersi a spiegare Carlo, inutile mettersi a spiegare, non c’è niente da spiegare.
Vedendo un lieve disappunto sul mio volto, mentre ancora gli ultimi giapponesi entrano inchinanti, Carlo decide allora che è il mio turno, decide di spiegare a me: «sono giapponesi», mi dice «li ho portati a casa».
E infatti avevo capito bene, sono giapponesi, li ha portati a casa, e allora mi infilo ancor di più nel mio cappuccio di felpa americana, non rispondo niente.
«Ho fatto bene?» 
Non rispondo niente.

L’ultima ad entrare è la signorina con la paletta da guida turistica, sembra estremamente riconoscente e, vedendomi incappucciato più di quanto il cappuccio potrebbe, mi dice «ci scusi per il disturbo ma proprio non abbiamo potuto rifiutare l’invito di Carlo». 
E certo, Carlo, Carlo il magnifico, Carlo eroe dei due mondi, io qui che stavo finendo di leggere un articolo di geopolitica d’indispensabile importanza strategica, io qui che avrei ben altro da fare che stare a farmi invadere da questa mandria di fotografi incalliti e giapponesi, e lui invece tranquillo, eroe dei due mondi, Carlo, sereno e sorridente si apre facile a quest’internazionalità da migliaia di chilometri, provo a immaginare un gasdotto che collega il Giappone a casa mia, quanti chilometri sarà lontano il Giappone? Migliaia.
«Signorina» dico io mentre lei alla finestra è intenta a tradurre cose che chissà poi cosa sta dicendo, che cosa ne sa lei delle uova e di Carlo, di com’è fatto Carlo, «signorina, mi dispiace ma non credo che la nostra abitazione possa essere considerata sito di interesse turistico».
 «Oh, ma non si stia a preoccupare, è così bello entrare nelle case, è un’ingiustizia che i musei siano aperti e le case siano chiuse, non trova? È così bello entrare nelle case.»
Quest’ultima argomentazione non saprei, non riesco a controbattere con qualcosa, mi ci vorrebbero delle armi paroliere, dei mitra retorici, una missilistica vocabolaria tutta di ampia gittata indirizzata contro quest’impertinente signorina guida turistica che io non so se ha ragione oppure no, poverina, non lo so, però io qui stavo leggendo di un nuovo balance of power nel Sud America, a quanto pare, nuovi interessi da parte di diverse e grosse aziende multinazionali, nuovi assetti e manipolazioni governative e dittature instaurate ad hoc per l’occasione, era un articolo importante, parlava dei falchi e delle colombe, perché la signorina forse non lo sa ma ci sono i falchi e ci sono le colombe e invece lei, lei dev’essere una tipo Carlo, una che se ne frega, ma i falchi e le colombe ci sono e ci sarà sempre una qualche sopraffazione da qualche parte, sarà così per forza, per sempre, ci saranno i falchi e le colombe e ci saranno sempre morte e distruzione e tensione al confine sorvegliato, ci saranno nuove bandiere e altri eserciti ancora, ci saranno altre corse alle armi di distruzione migliore, soggiogazione per tutti, regalata, distribuita porta a porta, soggiogazione per tutti, per i falchi e per le colombe, per tutti, regalata, e noi lì, a balbettare in un angolino, con le nostre riviste specializzate di geopolitica internazionale, noi a cercare di finire di leggere un articolo nonostante tutti questi giapponesi in casa.

«Carlo…» dico io, ma Carlo non c’è, dov’è? È in bagno, sta mostrando le tende della doccia. Ci ha disegnato dei fiori con dei pennarelli non resistenti all’acqua e così ogni volta che ti lavi cola giù tutto un blu che ti finisce tra i piedi. Per me questo è ovviamente un problema, Carlo invece dice che un’idea del genere la potrebbe mettere su internet, dice così, farci un sacco di soldi su internet, docce colorate, dice, deve solo trovare il modo giusto per metterla su internet, questa idea, e la spiega ai giapponesi, continua ad aprire l’acqua e farla scorrere sulle tende, loro fanno foto ma non capiscono, non colgono questo suo business ispirato, «Carlo» dico io, «potresti per favore ascoltarmi un pochino?»
 «Un attimo!» mi dice lui, che ha questa euforia da scorribanda addosso e io stavo finendo di studiare le nuove mappe territoriali, l’allocazione delle risorse energetiche, «Carlo, per favore» e adesso sto quasi urlando ma lui non vuole girarsi e io mi sento tirare per la mano; mi sento tirare per la mano ed è la signorina a fermarmi, la guida turistica, «la prego, si calmi» mi dice, «così spaventa i giapponesi» mi dice, «si calmi, io mi chiamo Gilda» mi dice, come se con il suo nome potesse giustificare la presenza di tutti quei giapponesi, e giustificare la sua, pure, di esistenza, e non lo sa, Gilda, non può immaginare quanto d’altro io abbia per la testa, non lo sa ed è così dolce nel dirlo, e non lo sa che ho ben altro da fare che stare qui a guardare la bellezza, ovviamente, Gilda… «venga in cucina, le offro il tè» mi dice, ed è come se improvvisamente avesse indossato delle fragorose scarpe di legno, da giapponese geisha totale floreale.

Ma non è giapponese e per lei la conversazione non è un’arte ma una via di fuga e così guarda una padella e ci troviamo in imbarazzo in cucina a parlare di bastoncini di pesce, mi chiede se metto l’olio per cuocerli perché lei non si fida, ha paura che si possano attaccare alla padella, anche se è antiaderente, e io dico che non lo so, che non ci avevo mai pensato, che non lo so.
I giapponesi sono ovunque e fanno foto mentre io, costretto in questo contesto internazionale, dimostro al mondo di non saper niente, ce lo metto l’olio? Li mangio i bastoncini di pesce? Non lo so, veramente, non lo so…
«E invece quel chiodo?» mi chiede Gilda, e accanto a lei c’è un giapponese fotografico che mi guarda anche lui, è lui che vuole sapere sorridendo, è lui che si è fatto tradurre la domanda… il curiosone.
«È un chiodo» dico io, «un chiodo piantato nel muro.»
«C’era appeso un quadro di Matissa, l’ex ragazza di Lorenzo» dice Carlo che è tornato dal bagno, che sa tutto, lui, che ha sempre una spiegazione pronta, lui, che non sa niente, lui, dei delicati rapporti tra Cile e Nicaragua, niente, o la questione Bretton Woods?… niente, eppure se deve mettersi a parlare di Matissa, ad esempio, allora eccolo lì, senza vergogna, pronto a parlarne come fosse qualcosa di cui parlare, qualcosa d’interesse internazionale, poi, che ci sono tutti questi giapponesi che adesso mi guardano e sono un po’ dispiaciuti, alcuni si passano questo nome come fosse una parola, «Ma-ti-ssà», se la sussurrano tra di loro, e all’improvviso sento quanto soggettivo possa essere il significato, quanto possa essere vuoto e neutro… è solo suono quello che rimbalzano tra di loro ma per me sono sputi, in faccia, e non ce la faccio, all’improvviso esco fuori dal mio cappuccio di felpa d’università americana e «SMETTETELA» urlo, «COSA NE SAPETE VOI DI MATISSA? SIETE SOLO DEI GIAPPONESI» mi sfogo e mi sento un po’ più leggero, mi sembra di aver difeso Matissa o di aver almeno limitato questo sopruso in atto e sento la voce di Gilda, sta traducendo quello che ho appena urlato, ma a modo suo, che è un modo un po’ gentile e un po’ giapponese, traduce quello che dico e mi sento ancora più libero, è bello veder traslare il proprio sentimento in qualcosa di così alieno, è bello sentirlo mutare in una dispersione indefinita di suoni. 
«Lorenzo, calmati», Carlo mi mette una mano sulla spalla, Gilda traduce, e io non mi calmo, faccio un discorso alla nazione, spiego al Giappone quanto sia difficile oggi mantenere un rapporto duraturo, stabile, di fiducia reciproca, quanto l’impiego di energie vada equilibrato e quanto sia difficile far confluire le proprie intenzioni in qualcosa che sia chiaro, diretto e trasparente e decidere le proprie entità, stabilire dove finisce l’io e fino a che punto può sovrapporsi e sconfinare nel noi due e dove, poi, inizia a essere lei, e dove è, adesso, lei, eh? Sempre lei, eh? Dov’è lei? Eh? Dov’è Matissa?

«Proprio carina Gilda» mi dice Carlo mentre appoggiati alla finestra guardiamo giù.
Sotto di noi vediamo i giapponesi in fila uscire, tutti allineati dietro a Gilda e alla sua paletta, escono adesso dal nostro portone condominiale, li vediamo sotto di noi, vorrei attirare l’attenzione, cercare di recuperare su quella sbuffata di calore che non sono riuscito ad arginare, prendo le uova marce, queste sul davanzale e guardo Carlo che mi guarda, Carlo mi guarda e mi vuole bene ed è un cretino, guardo giù, i giapponesi con Gilda si stanno allontanando e io in un attimo ho l’impressione di essere in ritardo, di aver perso, un’altra volta, un’occasione.
Guardo le uova…
«Che dici Carlo, le lanciamo di sotto? Facciamo succedere qualcosa di strano?»
Carlo mi guarda e mi vuole bene ed è un cretino. E non capisco com’è possibile che a volte riesca a tenere quell’espressione lì, non so come fa Carlo, non so com’è che diventa a volte, non so come, improvvisamente, saggio.
Mi dice no. Mi dice:
 «Oggi no, oggi va bene così».

Questo articolo è stato pubblicato in numeri, numero 24 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. I commenti ed i trackbacks sono attualmente chiusi.