La malattia
di Federica Patera

La malattia fa parte del progetto Diorami, che lavora sul valore dell’analogia in letteratura; questo racconto in particolare è un omaggio alla figura dello spettro e suoi omologhi.
Ogni racconto del progetto è composto interamente da citazioni tratte da opere già esistenti, esplicitate in un secondo testo, in cui, inoltre, si evidenziano le variazioni rispetto all’originale, limitate alle concordanze verbali, di genere e di numero, e all’introduzione di rari elementi quali avverbi, congiunzioni e preposizioni.

Omaggio a: lo spettro in I fratelli Karamàzov; lo spettro in Infinite Jest; gli scheletri in Dance Dance Dance; la voce in Dorian; il sosia in Al Pianoforte; fantasmi e voci in L’Arcobaleno della gravità.

Si ringrazia: Auto da Fé, La scopa del sistema e La ragazza dai capelli strani per le ambientazioni e le risate; Molloy per il disgusto; Un buon pianista jazz e 2666 per l’intuizione; il Giovanotto Vollmann per l’esergo; gli internati di Ombrello per la chiusa, Il Castello per la comparsa e Puttane assassine per la confidenza. Il primo dio, che ha un omaggio e un ringraziamento, un fantasma e una sedia.

1.

Testo senza note

Non tutti abbiamo uno scheletro, naturalmente.
 Afghanistan Picture Show
 William T. Vollmann

Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono; fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, ma sollevai comunque il ricevitore – mi venne così, per istinto.

[Incominciò la conversazione telefonica]

«Donald Glynn?» disse senza preamboli una voce.
«Sì, sono io.»
«Salve, volevo accertarmi che lei fosse Donald Glynn.»
«Sono io» risposi con una cantilena e intanto sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore. «A cosa e/o a chi parlo?»
«Non ci siamo mai incontrati, finora.»
«Ah, che peccato… Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco…»
«Le devo chiedere un appuntamento.»
«Che cosa?» chiesi. «Scusi, le dispiacerebbe ripetere?» feci una pausa, guardandomi intorno, stupito.
«Temo di non poterle dare indicazioni più precise.»
«Forse è uno scherzo?»
«Ha un orario da rispettare, le sei in punto, ci vediamo domani.»
«Per andare dove?»
«Venga qui
«Per quale motivo? Pronto?», senza nessuna speranza di ottenere risposta, in quel momento udii un clic.

Ovviamente ci andai.

***

Quando avevo iniziato ad aspettare, su una sedia sfondata, di gran lunga troppo in anticipo, una finestra proiettava una chiazza di luce sul pavimento, ed ero ancora seduto ad aspettare quando quella chiazza aveva iniziato a sbiadire. Ero in un posto chiuso, una grande sala con i muri coperti da piastrelle bianche e il soffitto in legno. La moquette era nuova e soffice. Una specie di letargo crepuscolare filtrava sotto la porta come gas velenoso[1] e la strana luce dell’ormai tardo pomeriggio si era affievolita fino a diventare rossa. Chiusi gli occhi e probabilmente stavo per addormentarmi quando sentii all’improvviso: «Donald Glynn?»

I miei occhi si aprirono immediatamente, con uno scatto balzai in piedi.

«Sono contento che ti sia svegliato, avevo voglia di parlarti», si rivolse a me dandomi del tu, mi sorrise come per scusarsi e si strinse nelle spalle. Poi scomparve e riapparve immediatamente in un angolo[2] lontano della stanza facendo Ciao con la mano – una specie di anomalia ottica.

Sull’orologio che portavo girato sotto il polso, le due lancette perfettamente in verticale, l’una il prolungamento dell’altra, se ne stavano lì immobili. Le sei in punto: l’ora in cui apparve lo Scheletro.

***

«Chi sei, tu? Che cosa sei?» dandogli del tu anch’io.
«Non spaventarti, per favore. Non ti spaventerai, vero? Se non lo farai, te ne sarò grato… [un lungo attimo di silenzio]. Mi spiace, lo so che hai notato qualcosa di strano» disse.
Annuii.
«Non mi riconoscerai mai conciato così» buttò lì lo Scheletro.
Io tacevo come se non trovassi le parole giuste per andare avanti, la mia incapacità a parlare era la stessa di quando non si riesce a parlare negli incubi.
«Hai notato qualcosa di strano, un’immagine in uno specchio deformante che anche volendo non potresti spiegare a nessuno? Ma io lo capisco…» disse. Intanto mi si avvicinava un passettino alla volta, «uno specchio incrinato, uno specchio rotto… Be’, ehm, forse mi sto esprimendo con troppa irruenza…». Lo Scheletro si mise a ridere, «scusami, non intendevo… non volevo ridere, ma… ». Sollevò le mani con i palmi in fuori e le scosse nel gesto bonario di chi voleva cancellare ogni possibile malinteso[3]. Avanzò verso di me, la sua preda, con la mano tesa «Mi hanno raccontato meraviglie di te» poi chiese una semplice stretta di mano, o un cinque. Trascurai di prendergliela – toccarlo era l’ultima cosa che mi veniva in mente: non era bello a vedersi e non odorava di buono.

«Credi che io possa infettarti toccandoti o…» fece un sospiro «… puf… respirando… va bene, non importa… molto piacere» disse, «Doony Donald Glynn… è il mio nome.»
«Aspetti» dissi, «il nome è il mio, deve esserci uno sbaglio.»
Lo Scheletro alzò il capo e disse ridacchiando «Amico mio, io voglio comunque essere un Glynn e come tale essere trattato».

Ci guardavamo fisso negli occhi (gli occhi li aveva conservati) e nessuno dei due voleva distogliere lo sguardo, facevamo quasi a gara; i nostri volti avevano qualcosa di familiare, anche se però Lui appariva sotto forma di scheletro e sembrava più non-morto che vivo.

«Hai una pessima cera» disse guardando la propria ombra sulla parete.
«Non sono malato» spiegai, ignorando il suo sguardo.
Non ancora – forse non ancora, canticchiò fra sé e sé lo Scheletro.
«Non ho dormito granché e ho mangiato poco, per questo ho una brutta cera.»
Lo Scheletro restò fermo così per dieci, quindici secondi, poi disse: «Poverino…» prima di rivolgersi verso di me e farmi segno di sedere sulla sedia di fronte a Lui sfondata da una parte. Le mie braccia e le mie gambe non rispondevano, sembravano inerti; non avevo il coraggio di reagire. Devo riflettere con calma, mi dissi: riflettere con calma. Chiusi gli occhi e congiunsi le mani davanti al volto. Poi li riaprii, mi guardai intorno e finalmente mi sedetti sulla sedia.

«Forse sono stato indiscreto a presentarmi qui, ma c’è una cosa di cui voglio parlarti» mi sussurrò e sollevò all’improvviso il mio viso verso di Lui, «è una cosa un po’ assurda, ma voglio raccontartela, solo cerca di non pensare a che cosa può voler dire.»

Lo Scheletro aveva smesso di ridere e io me ne stavo lì seduto perfettamente immobile, a parte il movimento nervoso dei miei piedi. Lo Scheletro parlava con voce così sommessa che non sempre riuscivo ad afferrarla.

«Talvolta m’incarno, mi incarno e ne accetto le conseguenze, e alcune conseguenze di questo gesto non si possono mai più cancellare o rimediare.»

Lo Scheletro non mi perdeva di vista. Io stavo lì, con il collo teso e muovevo le labbra come se volessi dire qualcosa, ma non usciva nessun suono.

«Può darsi che le mie parole ti stupiscano, non mi crederai; non sto parlando per cliché come se dicessi che praticamente dai per scontata la mia presenza, no, sto dicendo che non puoi immaginare la mia assenza: non prima di essere caduto, ovviamente; insisto su questo punto: non prima di aver cominciato a cadere.» Poi le sue dita si aprirono nella V di Vittoria, guardandomi con lo stesso enigmatico sorriso.

Fuori, ora, il buio era denso da far paura e la luce della lampadina si stava facendo più intensa; il soffitto respirava, si gonfiava e si allontanava, si gonfiava e poi tornava al suo posto. Anche il mio petto si alzava e si abbassava. Lì seduto, con i piedi ciondoloni, facevo sbattere i calcagni contro la sedia che traballava e scricchiolava come una nave prossima ad affondare.
Lo Scheletro allungò la mano, questa volta la presi e la tenni per un secondo senza esercitare alcuna pressione, era calda e morbida, e aveva la consistenza, il peso della realtà; poi l’avrei anche lasciata cadere se non mi fosse rimasta attaccata. C’era qualcosa nella sua presenza che calamitava la mia attenzione. Lo Scheletro mi guidò al centro della stanza e mi fece voltare in modo che ci fronteggiassimo, come ballerini congelati in un minuetto. Mi guardò in faccia, sorrideva a trentadue denti e parlava non-stop a voce bassa: «mi pare che cominci, a poco a poco, a prendermi per qualcosa di reale e non soltanto per una tua fantasia… Bene, bene, bene».

Sulla sua faccia vedevo dipinta l’espressione del mio stesso animo, la medesima espressione che avevo mostrato tutta la vita agli altri. Sembrava che mi fossi di colpo trasfigurato: quello scheletro era il mio. E Lui lo sapeva. Lo Scheletro riprendeva un abito di carne e ossa in me.

Approfittò delle blande misure di sicurezza della mia mente confusa e colpì nel segno, abilmente, come se si trattasse di una commedia da salotto: «sento sempre il bisogno di guardarmi allo specchio!»
Aprii la bocca: «Che cosa diavolo significa?» Avrei voluto arrabbiarmi, gridare che era assurdo, ma non riuscii a chiedere altro.
«Ah, quel tono che conosco, fatto di paura, pietà, disgusto», lo Scheletro era tutto compiaciuto e divertito. «Non ti preoccupare, non ha assolutamente nessun significato, non significa niente tutto questo (per il momento), è ancora troppo presto. In ogni caso sarà una caduta minuscola; cadrai con una specie di lentezza regale che ti farà pensare a un albero quando viene abbattuto; cadrai dalla sedia e non ti rialzerai più, puf» e si appoggiò allo schienale della sedia. «Se restiamo qui uniti, invece, non ci accadrà niente.»

Quella notte lo Scheletro era come se fosse stato il pezzo di corda a cui mi attaccavo per non precipitare – o preferivo crederlo, malgrado il suo gioco, la sua malignità palpabile; anche se non avevo nessun motivo di fidarmi, accettai da Lui quello che avevo rifiutato con indignazione: una calda stretta di mano. Quindi accettai la menzogna e l’inganno.

Mi guardò socchiudendo gli occhi come per mettermi a fuoco e fece un gesto come per riassumere il tutto, poi mi offrì la sedia. «Ecco, siediti qui, così… se tu riuscissi a dormire un po’…»
Obbedii, non ci pensai neanche, tirai un respiro profondo e mi lasciai cadere sulla vecchia sedia mezza sfondata.

Dentro di me, mi sembrava di vedere la sua faccia sorridente; mi era rimasto impresso soprattutto il suo sorriso divertito di quando gli avevo chiesto: «Che cosa diavolo significa?»

«Ecco cosa significa: volevo solo il congedo permanente.»

Lo Scheletro uscito dal nulla aveva lanciato il conto alla rovescia. Mi resi conto di aver cominciato a ammalarmi[4], sulla vecchia sedia mezza sfondata, incapace di alzarmi o muovermi.

Non è forse questa la prova che la salute arriva più in profondità di qualsiasi malattia?
Ombrello
Will Self

2.

Testo con note

Non tutti abbiamo uno scheletro, naturalmente.
 Afghanistan Picture Show
 William T. Vollmann, Alet, 2005, 
trad. Massimo Birattari, p. 42

Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono […]; fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti […], MA sollevai COMUNQUE il ricevitore (L’uccello che girava le viti del mondo, Murakami Haruki, Baldini&Castoldi, p. 1999, trad. Giorgio Amitrano, p. 9) – MI venNE così, per istinto (L’arcobaleno della gravità, Thomas Pynchon, Rizzoli, 2010, trad. Giuseppe Natale, p. 211).

[Incominciò la conversazione telefonica (Il Castello, Franz Kafka, Mondadori, 1969, trad. Anita Rho, p. 565)]

«Donald Glynn?» disse senza preamboli una voce (L’uccello che girava le viti del mondo, p. 9).
«Sì, sono io (L’arcobaleno della gravità, p. 334).»
«Salve, volevO accertarMi che lei fosse Donald Glynn (Infinite Jest, David Foster Wallace, Einaudi, 2006, trad. Edoardo Nesi con la coll. di Annalisa Villoresi e Grazia Giua, p. 83).»
«Sono io» risposI con una cantilena (Infinite Jest, p. 83) E INTANTO sporsi la testa oltre la porta a guardare in cucina: dalla pentola si alzava bianco vapore (L’uccello che girava le viti del mondo, p. 9). «A cosa e/o a chi parlO (Infinite Jest, p. 296)?»
«Non ci siamo mai incontrati, finora (Infinite Jest, p. 83).»
«Ah, che peccato (I fratelli Karamàzov, F. M. Dostoevskij, Mondadori, 1994, trad. Nadia Cicognini e Paola Cotta, p. 740)… Scusi, ma ho gli spaghetti sul fuoco (L’uccello che girava le viti del mondo, p. 9).»
«Le devo chiedere un appuntamento (Infinite Jest, p. 1276, n. 332).»
«Che cosa?» chiesi (Dance Dance Dance, Murakami Haruki, Einaudi, 2001, trad. Giorgio Amitrano, p. 255). «Scusi, le dispiacerebbe ripetere (La scopa del sistema, David Foster Wallace, Einaudi, 2008, trad. Sergio Claudio Perroni, p. 417)?» fecI una pausa, guardandoMi intorno, stupito (Lyndon, in La ragazza dai capelli strani, Einaudi, 1998, trad. Francesco Piccolo, ebook, pos. 407).
«Temo di non poterle dare indicazioni più precise (La scopa del sistema, p. 244).»
«Forse è uno scherzo (Infinite Jest, p. 424)?»
«HA un orario da rispettare, le sei in punto (L’arcobaleno della gravità, p. 183), ci vediamo domani (L’arcobaleno della gravità, p. 463).»
«Per andare dove? (Al pianoforte, Jean Echenoz, Einaudi, 2008, trad. Maurizia Balmelli, p. 91)»
«Venga qui (L’arcobaleno della gravità, p. 401).»
«Per quale motivo (L’arcobaleno della gravità, p. 500)? Pronto?», senza nessuna speranza di ottenere risposta (L’arcobaleno della gravità, p. 773), in quel momento udii un clic (Dance Dance Dance, Murakami Haruki, Einaudi, 2013, trad. Giorgio Amitrano, p. 483).

Ovviamente ci ANDAI (L’arcobaleno della gravità, p. 260).

***

Quando avevO iniziato ad aspettare, su una sedia sfondata (Ultimi crepuscoli sulla terra, in Puttane assassine, Roberto Bolaño, Sellerio, 2004, trad. Maria Nicola, p. 86), di gran lunga troppo in anticipo (Infinite Jest, p. 76), una finestra [era inondata di luce gialla e] proiettava una chiazza di luce sul pavimento, ed ero ancora seduto ad aspettare quando quella chiazza aveva iniziato a sbiadire (Infinite Jest, p. 521). ErO in un posto chiuso, una grande sala (L’arcobaleno della gravità, p. 183) con i muri coperti da piastrelle bianche e il soffitto in legno (2666, Roberto Bolaño, Adelphi, 2008, trad. Ilide Carmignani, p. 546). La moquette era nuova e soffice. Una specie di letargo crepuscolare filtrava sotto lA portA come gas velenoso[5] (2666, p. 547) E la strana luce delL’ORMAI tardo pomeriggio (La scopa del sistema, p. 286) si ERA affievolITA fino a diventare rossa (Lyndon, in La ragazza dai capelli strani, Einaudi, pos. 146). Chiusi gli occhi (Dance Dance Dance, p. 471) E probabilmente stavo per addormentarmi quando sentii all’improvviso: «Donald Glynn (Lyndon, in La ragazza dai capelli strani, Einaudi, pos. 146)?»
I MIEI occhi si apriRONo immediatamente, con uno scatto (Infinite Jest, p. 956) balzAI in piedi dalla sedia (I fratelli Karamàzov, F. M. Dostoevskij, Garzanti, 2011, trad. Maria Rosa Fasanelli, che vive a fare un uomo simile?, libro ii, ebook, pos. 1368).

«Sono contentO che ti sIA svegliatO, avevo voglia di parlarti (Infinite Jest, p. 956)» si rivolSe a ME dandoMi del tu (L’arcobaleno della gravità, p. 23), MI sorrise come per scusarsi e si strinse nelle spalle (Infinite Jest, p. 997). POI scomparVE e riapparVE immediatamente in un angolo[6] lontano della stanza faCENDO Ciao con la mano (Infinite Jest, p. 999) – una specie di anomalia ottica (L’arcobaleno della gravità, p. 807).

Sull’orologio che portavO girato sotto il polso (La scopa del sistema, p. 202), le due lancette perfettamente in verticale, l’una il prolungamento dell’altra (L’arcobaleno della gravità, p. 183), se ne stavano lì immobili (L’arcobaleno della gravità, p. 147). Le sei in punto: l’ora in cui apparVE (L’arcobaleno della gravità, p. 184) lo Scheletro.

***

«Chi sei, tu? Che cosa sei? (L’arcobaleno della gravità, p. 265)» dandogli del tu ANCH’IO (Incontro con Enrique Lihn, in Puttane assassine, p. 271).
«Non spaventarTi, per favore. Non Ti spaventerai, vero? Se non lo farai, te ne sarò grato (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 581)… [un lungo attimo di silenzio (L’arcobaleno della gravità, p. 197)]. Mi spiace, lo so che (L’arcobaleno della gravità, p. 333) HAI notATO qualcosa di strano (La scopa del sistema, p. 45)» disse.
Annuii (Dance Dance Dance, p. 344).
«Non mi riconoscerai mai conciato così (L’arcobaleno della gravità, p. 490)» buttò lì lo Scheletro senza mezzi termini.
Io tacevO (I fratelli Karamàzov, Garzanti, La prima visita di Smerdjakòv, libro vi, pos. 13132) come se non trovassI le parole giuste per andare avanti (Dance Dance Dance, p. 327-8), la MIA incapacità a parlare era la stessa di quando non si riesce a parlare negli incubi (Infinite Jest, p. 983).
«HAI notATO qualcosa di strano (La scopa del sistema, p. 45), un’immagine in uno specchio deformante (Dance Dance Dance, p. 103) che anche volendo non potresti spiegare a nessuno? Ma io lo capisco…» disse (Dance Dance Dance, p. 344). INTANTO MI si avvicinAVA un passettino alla volta (L’arcobaleno della gravità, p. 23), «uno specchio incrinato, uno specchio rotto… Be’, ehm, forse mi sto esprimendo con troppa irruenza… (Ombrello, Will Self, Isbn, 2013, trad. Gaja Cenciarelli, Andreina Lombardi Bom, Daniele Petruccioli, p. 231)». Lo Scheletro si mise a ridere (Auto da fé, Elias Canetti, Adelphi, trad. Luciano e Bianca Zagari, p. 349), «scusami, non intendevo… (L’arcobaleno della gravità, p. 198) non voLEVO ridere, ma… (Dance Dance Dance, p. 345)». Sollevò le mani con i palmi in fuori e le scosse nel gesto bonario di chi voleva cancellare ogni possibile malinteso[7] (Infinite Jest, p. 606). Avanzò verso DI ME, la sua preda, con la mano tesa «Mi haNNO raccontato meraviglie di te (Dorian, Will Self, Mondadori, 2004, trad. Nicoletta Vallorani, p. 77)», POI chieSE una semplice stretta di mano, o un cinque (Infinite Jest, p. 1167). TrascurAI di prenderGLIELA (Dorian, p. 77) – toccarlo ERA l’ultima cosa che MI veniva in mente (Infinite Jest, p. 1165): non ERA bello a vedersi E non odorAVA di buono (Molloy, Samuel Beckett, Einaudi, 2005, trad. Aldo Tagliaferri, p. 10).

«CredI che io possa infettarti toccandoti o…» fece un sospiro «… puf… respirando (Dorian, p. 122)… va bene, non importa (Dance Dance Dance, 2013, p. 117)… molto piacere» dissE (Dance Dance Dance, p. 298), «Doony Donald Glynn… è il mio nome (Dance Dance Dance, p. 322).»
«Aspetti» dissi, «il nome è il mio, [ma] deve esserci uno sbaglio (Dance Dance Dance, p. 323).»
Lo Scheletro alzò il capo e disse ridacchiando (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 376) «Amico mio, io voglio comunque essere un Glynn e come tale essere trattato (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 882)».

CI guardaVAMO fisso negli occhi (Infinite Jest, p. 665) (gli occhi li aveva conservati (L’arcobaleno della gravità, p. 366)) e nessuno dei due voleva distogliere lo sguardo (L’arcobaleno della gravità, p. 161), faCEVAMo quasi a gara (Infinite Jest, p. 379); i NOSTRI volti avevano qualcosa di familiare (L’arcobaleno della gravità, p. 622), ANCHE se però LUI apparIVA sotto forma di scheletro E sembrava più non-morto che vivo (Infinite Jest, p. 819).

«Hai una pessima cera» disse (Dance Dance Dance, p. 439) guardaNDO la propria ombra sulla parete (La scopa del sistema, p. 550).
«Non sono malato» spiegai (Dance Dance Dance, p. 439), ignorando iL SUO sguardO (Infinite Jest, p. 611).
Non ancora – forse non ancora (L’arcobaleno della gravità, p. 672), canticchiÒ fra sé e sé lo Scheletro (L’arcobaleno della gravità, p. 167).
«Non ho dormito granché e ho mangiato poco, per questo ho una brutta cera (Dance Dance Dance, p. 439).»
Lo Scheletro restò fermo così per dieci, quindici secondi, poi disse: «Poverino… (Dance Dance Dance, p. 344)», PRIMA DI rivolGERSI verso di me (Infinite Jest, p. 6) E fARMI segno di sedere sulla sedia di fronte a Lui (Dance Dance Dance, p. 419) sfondatA da una parte (Infinite Jest, p. 1140). LE MIE braccia e LE MIE gambe non rispondevano, sembravano inerti (Dance Dance Dance, p. 98); non AVEVO il coraggio di reagire (Dance Dance Dance, p. 226). Devo riflettere con calma, mi dissi: riflettere con calma (Dance Dance Dance, p. 99). ChiusI gli occhi e congiunsI le mani davanti al volto. Poi li riaprII, Mi guardAI intorno (Dance Dance Dance, p. 419) E FINALMENTE Mi sedettI sulla sedia (Dance Dance Dance, p. 464).

«Forse sono stato indiscreto a presentarmi qui (Dance Dance Dance, p. 439), MA c’è una cosa di cui voglio parlarti (Dance Dance Dance, p. 439)» MI sussurrò e sollevò all’improvviso il MIO viso verso di Lui (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 610), «è una cosa un po’ assurda, ma voglio raccontartela (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Ribellione, libro v, pos. 5294), SOLO cerca di non pensare a che cosa può voler dire (L’arcobaleno della gravità, p. 65).»

Lo Scheletro aveva smesso di ridere (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Una cipollina, libro vii, pos. 7416) E IO Me ne stavO lì sedutO perfettamente immobile, a parte il movimento nervoso dei MIEI piedi. Lo Scheletro parlava con voce così sommessa che non sempre riuscivO ad afferrarLA (L’arcobaleno della gravità, p. 524).

«Talvolta m’incarno, mi incarno e ne accetto le conseguenze (I Fratelli Karamàzov, Mondadori p. 883), e alcune conseguenze di questO gestO non si possono mai più cancellare o rimediare (Infinite Jest, p. 245).»

Lo Scheletro non MI perdeva di vista (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 85). IO stavO lì, con il collo teso […] e muovevO le labbra come se volessI dire qualcosa, ma non usciva nessun suono (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 293-4).

«Può darsi che le mie parole TI stupiscano, non mi credERAI (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 209); non sto parlando per cliché come se dicessi che praticamente daI per scontata la MIA presenza, no, sto dicendo che non pUOI immaginare la MIA assenza (Infinite Jest, p. 200): non prima di essere caduto, OVVIAMENTE; insisto su questo punto: non prima di aver cominciato a cadere (Infinite Jest, p. 197).» Poi le sue dita si aprIRONO nella V di Vittoria (L’arcobaleno della gravità, p. 332), guardandoMI con lo stesso enigmatico sorriso (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 99).

FUORI, ORA, il buio era denso da far paura (Dance Dance Dance, p. 98) E la luce della lampadina si staVA facendo più intensa (L’arcobaleno della gravità, p. 864); il soffitto respirava, si gonfiava e si allontanava, si gonfiava e poi tornava al suo posto (Infinite Jest, p. 971). Anche il MIO petto si alzaVA e si abbassaVA (Infinite Jest, p. 1069). Lì seduto, con i piedi ciondoloni, faceVo sbattere i calcagni contro la sedia CHE traballava e scricchiolava come una nave prossima ad affondare (Auto da fé, p. 125).
Lo Scheletro allungò la mano (Infinite Jest, p. 591), QUESTA VOLTA LA presI E la tennI per un secondo senza esercitare alcuna pressione (Dorian, p. 26), era calda e morbida, e aveva la consistenza, il peso della realtà (Dance Dance Dance, p. 491); POI l’avreI ANCHE lasciata cadere se non MI fosse rimasta attaccata (Dorian, p. 26). C’era qualcosa nella sua presenza che calamitava la MIA attenzione (Dance Dance Dance, p. 168). Lo Scheletro MI guidò al centro della stanza e MI fece voltare in modo che CI fronteggiassIMO, come ballerini congelati in un minuetto (Dorian, p. 26). Mi guardò in faccia (Dance Dance Dance, p. 412), sorrideva a trentadue denti e parlava non-stop a voce bassa (Infinite Jest, p. 336): «mi pare che cominci, a poco a poco, a prendermi per qualcosa di reale e non soltanto per una tua fantasia (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 881)… Bene, bene, bene (Infinite Jest, p. 215)».

Sulla SUA faccia vEDEVO dipinta l’espressione [, stranamente familiare,] del MIO stesso animo, la medesima espressione che avevO mostrato tutta la vita agli altri (Un buon pianista di jazz, in Undici solitudini, Richard Yates, minimum fax, 2006, trad. Maria Lucioni, p. 192). SembrAVA che MI fossI di colpo trasfigurato (Dance Dance Dance, p. 466): quello scheletro era il mio (Dance Dance Dance, p. 491). E Lui lo sapeva (L’arcobaleno della gravità, p. 520). Lo Scheletro riprendeva un abito di carne e ossa IN ME (Il primo dio, Emanuel Carnevali, Adelphi, 2008, p. 77).

ApprofittÒ delle blande misure di sicurezza della MIA mente confusa (Infinite Jest, p. 1001) E colpÌ nel segno, abilmente, come se si trattasse di una commedia da salotto (L’arcobaleno della gravità, p. 200): «sento sempre il bisogno di guardarmi allo specchio (Dorian, p. 139)!».
Aprii la bocca (La scopa del sistema, p. 255): «Che cosa diavolo significa (Infinite Jest, p. 68)?». Avrei voluto arrabbiarmi, gridare che era assurdo (Dance Dance Dance, p. 224), MA non riuscii a chiedere altro (Dance Dance Dance, p. 431).
«Ah, quel tono che conosco, fatto di paura, pietà, disgusto (Molloy, p. 10)», lo Scheletro erA tuttO compiaciutO e divertitO (Infinite Jest, p. 442). «Non ti preoccupare (Dance Dance Dance, p. 295), non ha assolutamente nessun significato, […] non significa niente tutto questo (Infinite Jest, p. 440) (per il momento (Infinite Jest, p. 957)), è ancora troppo presto (L’arcobaleno della gravità, p. 966). IN OGNI CASO SARÀ una caduta minuscola (Infinite Jest, p. 276); cadRAI con una specie di lentezza regale che TI fARÀ pensare a un albero quando viene abbattuto (Infinite Jest, p. 602); cadRAI dalla sedia e non TI rialzERAI più (Infinite Jest, p. 921) – puf (Dorian, p. 122) – E SI appoggiò allo schienale della sedia (Dance Dance Dance, p. 228). Se restiamo QUI uniti, INVECE, non ci accadrà niente».

Quella notte lo Scheletro era come se fosse stato il pezzo di corda a cui mi attaccavo per non precipitare (Infinite Jest, p. 780) – O preferiVO crederlo, malgrado il SUO gioco, la SUA malignità palpabile; anche se non avevO nessun motivo di fidarMi (L’arcobaleno della gravità, p. 541), accettaI da Lui quello che AVEVO rifiutaTO con indignazione (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Il grande Inquisitore, libro v, pos. 5535): una calda stretta di mano (Infinite Jest, p. 1167). Quindi accettaI la menzogna e l’inganno (I fratelli Karamàzov, Mondadori, p. 365).

Mi guardò socchiudendo gli occhi come per mettermi a fuoco […] (Dance Dance Dance, p. 439) E fECE un gesto come per riassumere il tutto (La mia apparizione in Tv, in La ragazza dai capelli strani, Einaudi, pos. 1156), POI MI offrÌ LA sedia (L’arcobaleno della gravità, p. 348). «Ecco, siediti qui, così (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Una cipollina, libro vii, pos. 7662)… se tu riuscissi a dormire un po’… (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Dalle Chochlakov, libro iv, pos. 3933)»
ObbediI, non ci pensAI neanche (I fratelli Karamàzov, Garzanti, Delirio, libro viii, pos. 9587), tirAI un respiro profondo e Mi lasciAI cadere (Dance Dance Dance, p. 394) SULLA vecchia sedia mezza sfondata (Il primo dio, p. 76).

Dentro di me, mi sembrava di vedere la sua faccia sorridente; mi era rimasto impresso soprattutto il suo sorriso divertito di quando gli avevo chiesto (Dance Dance Dance, p. 421): «Che cosa diavolo significa (Infinite Jest, p. 68)?»

«Ecco cosa significa (Puttane per Gloria, William T. Vollmann, Mondadori, 2003, p. 108): VoLEVO solo il congedo permanente (L’arcobaleno della gravità, p. 85).»

Lo Scheletro uscitO dal nulla AVEVA lanciato il conto alla rovescia (Al pianoforte, p. 45). MI resI conto di aver cominciato a AMMALARMI[8] (Infinite Jest, p. 197), SULLA vecchia sedia mezza sfondata (Il primo dio, p. 76), incapace di alzarmi o muovermi (Infinite Jest, p. 166).

Non è forse questa la prova che la salute arriva più in profondità di qualsiasi malattia?
(Ombrello, p. 229)

 

 

 

 


[1] La notte sembra aleggiare come un gas letale (Ultimi crepuscoli sulla terra, in Puttane assassine, p. 86).

[2] L’angolo dal quale venne fuori, dentro, se si vuole indicare un posto (Infinite Jest, p. 780).

[3] «No, ma vedi, il fatto è che io non volevo dire che tu sei… (Infinite Jest, p. 606)»

[4] Mi resi conto di aver cominciato a cadere (Infinite Jest, p. 197).

[5] La notte sembra aleggiare come un gas letale (Ultimi crepuscoli sulla terra, in Puttane assassine, p. 86).

[6] L’angolo dal quale venne fuori, dentro, se si vuole indicare un posto (Infinite Jest, p. 780).

[7] «No, ma vedi, il fatto è che io non volevo dire che tu sei… (Infinite Jest, p. 606)»

[8] MI resI conto di aver cominciato a cadere (Infinite Jest, p. 197).

Questo articolo è stato pubblicato in numero 20 e ha le etichette . Bookmark the link permanente. Scrivi un commento o lascia un trackback: Trackback URL.

Scrivi un Commento

Il tuo indirizzo Email non verra' mai pubblicato e/o condiviso.

Puoi usare questi HTML tag e attributi: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>