Saramago
di Giovanni Ceccanti

Una cosa che non potrò mai togliermi dalla testa sono certi gatti che ho visto nascere, crescere e morire nella casa in campagna dove sono nato e cresciuto io stesso, nel Chianti, una vecchia colonica con un paio di ettari di olivi qua e là maritati a viti.
Mi ricordo che avevamo i conigli, li tenevamo chiusi nelle gabbie fatte da mio nonno con assi di risulta e reti adatte allo scopo, reti di plastica a maglia quadrata oppure in fil di ferro, a maglia esagonale. Quest’ultima, più morbida e manovrabile, era la stessa rete che usavamo per limitare un vasto pollaio di galline ovaiole e faraone. Avevamo i piccioni che regnavano sul fienile dismesso, fienile che prima di diventare agriturismo mantenne sempre una strana magia fatta di travi crollate, teli e piccole strutture inutili – capitava che ci seccassimo i fichi o l’uva – con la luce che filtrava in quel suo modo discreto dalle gelosie delle finestre. C’erano i cani: uno alla volta si rincorrevano in una piccola dinastia di bastardini e trovatelli (li chiamavamo Dobo I, Dobo II, come i papi o i re), per diventare facilmente fuorilegge o ladri di galline, con somma gioia mia e di mio cugino.
E c’era infine la colonia felina. Preesistente, e forse destinata a non estinguersi mai, era governata da leggi particolarissime e del tutto noncurante di noi. Nonostante pure gli dessimo da mangiare ogni mattina – avanzi o crocchette – e nonostante la loro momentanea riconoscenza da sudditi devoti, la sensazione predominante era quella di essere loro ospiti, e non il contrario.
Se non avevi niente di speciale da fare e ti sedevi fuori, magari in una tarda mattinata d’autunno, con il pranzo a covare lento sul fuoco, vedevi i due tigrati distesi accanto sulle corde d’una sedia e il grigio pelle e ossa, bloccato in una taglia intermedia, tentare d’aprire gli occhi serrati dalle cispe mentre un terzetto di madri tricolori badava ai figli incimurriti, poco più in là, una banda di screanzati che giocava sotto i tigli gialli, quindi il maschione venuto da chissà dove accoccolato in disparte o la nerina che saliva sulla pergola dai rami dell’olivo.
È facile, circondati da bestiole tanto indipendenti, chiedersi cosa sia per loro il tempo, quale percezione possano avere del susseguirsi delle ore. La volontà che le muove, gli stimoli: perché arrotarsi le unghie su quell’albero invece di quell’altro.
Benché sia comune crederlo, non è vero che la vita di un gatto sia fatta solo di interminabili sonni (… sognano i gatti? Sappiamo di sì, come tutti i mammiferi. Ma guardate un gatto sognare. Sogna di correre, di mangiare, di cacciare un topo – si lecca i baffi, dilata e contrae i polpastrelli, allarga furiosamente le froge del naso –, tutte cose che farà un momento dopo, che ha già fatto mille volte. M’immagino cosa potrebbe dire uno psicanalista a un uomo che sogna solo di camminare e di mangiare, di fare la spesa e di parlare con le persone, un uomo che sogna di dormire e di sognare).
Lo ammetto: non conosco bene la routine di un gatto di città; in campagna però, insieme ad altri simili, un gatto segue un ciclo di attività e inattività piuttosto stringente. La mattina la colonia si disperde, come se ognuno avesse le sue cose da fare. Ci si riunisce per il pranzo e anche dopo, per lavarsi – guardare un gatto lavarsi, leccandosi prima la zampa e poi passandosi la stessa su tutto il muso e fin dietro le orecchie, è un piacere per la mente prima che per gli occhi. Il ruzzo è serale, specialmente, come nei bambini.
I gatti, diversamente dai cani, spariscono. Puoi non vedere lo stesso gatto per ore, a volte per giorni. I maschi maturi e pronti a inseminare le femmine possono sparire o essere allontanati dalla colonia anche per sempre – questo perché un solo maschio deve dominare sugli altri costringendoli ad andarsene, benché ci siano casi di convivenza di due o più maschi. In sintesi: o vige la messa al bando di tutti i maschi floridi tranne uno o vi è una sorta di codominanza, mai del tutto pacifica, che prevede che ogni gatta venga montata da tutti i pretendenti.
Più ancora dei combattimenti fra maschi mi colpiva la brutalità degli amplessi. I gattoni – veri e propri banditi da altre colonie, abitanti apolidi del bosco, inselvatichiti – vi arrivavano stremati, smunti, dimentichi del cibo e della pulizia. Mi ricordo che da liceale rimasi sorpreso di vedere uno dei miei gattoni nella descrizione che Diotima faceva del demone Eros, nel Simposio di Platone: Così, per parte di madre, Eros è povero, squallido, miserabile, ed ecco perché desidera continuamente ciò che non ha; ma per parte di padre egli è audace, coraggioso, astuto, stregone e ciarlatano, disposto a tutto pur di ottenere ciò che desidera.
Accorrono da lontano, come partecipanti a una fiera, nel periodo di estro delle femmine. Si raccapezzano della situazione. Quindi comincia una sorta di guerra di trincea in cui ognuno è obbligato a tenere una posizione, in cima a un albero o in qualche angolo del garage o del portico, defecando e pisciando sul posto e soffiando furiosamente a ogni centimetro guadagnato dall’avversario. Questo per giorni e notti. C’è poi una distanza minima superata la quale scatta il corpo a corpo. I primi a sanguinare sono gli orecchi, che si sfilacciano per divincolarsi dalla presa delle unghie, orecchi che parlano della fama del gatto, come le orecchie del rugbista, ritorte e informi in quello scafato e con il maggior numero di partite alle spalle. Gli occhi e il muso si adornano di graffi e gemme scure di sangue secco. Per lo più ci si sfinisce così, ma non è raro che uno dei gatti muoia. Le gatte fanno il tipico richiamo – un miagolio acidulo, martellante – per capitare dentro alle zuffe e divenire oggetto di contesa.
Si ha la sensazione piuttosto netta che la femmina, ancora più del maschio, agisca suo malgrado, governata dagli ormoni. Infatti, non appena uno dei maschi le si arpiona alla nuca con i denti, questa fugge, accecata dal dolore, per tornare un attimo dopo a fare il richiamo. Il ciclo si ripete infinite volte: presa di posizione e mantenimento della stessa, corpo a corpo, fuga momentanea di uno dei due pretendenti, monta della femmina da parte dell’altro, fuga della femmina. Dopo ogni ciclo i maschi ciondolano esausti e sfregiati, zoppicando ancora pieni di furore, mentre le femmine sanguinano dalla collottola e si rotolano impazienti sull’erba. Nelle pause dall’amore ci si lecca il sesso, gonfio e rosso, e si sparge l’aria di odori.
Ora, sfido qualunque ragazzino – spiraliforme o solitario come me poco importa – a decrittare un messaggio di pace da tutto questo.
In un primo momento, diciamo dai dieci ai vent’anni, mi ero convinto che il mondo, così come mi appariva, fosse qualcosa da osservare, lo spunto per la mia curiosità, e non un’educazione. Così, dopo il liceo classico, mi sono iscritto alla facoltà di Scienze Naturali dove ho potuto approfondire le strategie riproduttive (alquanto scorrette) di quegli insetti che letteralmente murano la vagina della femmina dopo avervi inserito lo sperma, o quegl’altri pazzi con il pene a pennello che spazzolano via il seme di chi li ha preceduti per sostituirlo con il proprio. Le api operaie rese sterili dalla regina, il grande dubbio di Darwin alla sua teoria: come può il processo evolutivo basato sulla selezione naturale permettere che nascano individui sterili, all’interno della stessa specie, generazione dopo generazione? Com’è possibile, se il fine di tutto è la trasmissione del dna, cioè il sesso?
Nella colonia felina nascevano, talvolta, individui palesemente non idonei alla riproduzione. Intere nidiate di gattini deformi e dal pelo stopposo che morivano ancora in fasce, prima dello svezzamento, magari strozzati dai propri cordoni ombelicali, oppure conducevano qualche mese di vita stentata per restituire, in un pomeriggio piovoso, l’anima a Dio – ed era meglio che quest’ultimo non facesse capitare il rantoloso davanti a mia sorella, più volte preda di crisi isteriche dovute all’insensata (sensatissima, evidentemente) crudeltà della natura. Il senso sfuggiva a noi, che lo ricercavamo, ma non a Madre Natura – né tantomeno al rantoloso.
A forza di figli che si accoppiavano con le proprie madri e con le proprie sorelle si giungeva a un eccesso di consanguineità, stessa situazione che si trovava tempo fa nelle famiglie nobili dove i matrimoni combinati generavano sterilità, oltre al comparire di malattie normalmente rare a causa della cosiddetta ereditarietà autosomica recessiva (sic). Situazioni del genere sono il risultato di un ristagno sessuale, il segno di una colonia vecchia, e richiedono la venuta di nuovi maschi dominanti – di nuovi geni – a stemperare certe fissità.
Capita così che maschi completamente alieni alla famiglia, forse cugini alla lontana di antenati della colonia, figli dei figli di maschi sconfitti e banditi in altre ere, scendano a valle e fuori dai boschi brandendo la spada, e come Gesù Cristo dividano i genitori dai figli e i nipoti dai nonni, come dei vendicatori. Il rinnovamento della colonia passa ancora e per sempre dalla violenza. I nuovi maschi sterminano o divorano i figli non loro che sarebbero uno spreco di latte per le madri ancora fertili oltre che, chiaramente, una presenza indegna al mondo. E non è difficile assistere agli spargimenti di sangue o trovare qua e là una zampetta mozzata o una testolina sbocconcellata, orecchi, code, eccetera.
Questi interregni possono durare mesi, anche anni se non vi sono ricambi disponibili. Si vedono così affiorare malattie strane. Nella mia adolescenza campagnola ho visto gatti morire per tumori cerebrali che crescevano in mezzo agli occhi, deformando orrendamente il cranio e facendoli lacrimare sangue. Ho visto gatti non avere il senso dell’equilibrio e gravitare giorno e notte in cerca di pace, roteando la testa e gli occhi come posseduti – ti ricordi, sorella? – oppure gatti coprirsi di un manto nero, una specie di fuliggine, e dimagrire e morire lentamente mordendo l’aria. Ho visto gatti folli, in preda a strane frenesie sessuali o a manie cannibali, ben diverse dal cannibalismo dei maschi vendicatori. Uno in particolare di questo tipo andava costantemente staccato dai fratellini, o dai cugini, sorpreso a masticarseli a morte.
Ma ogni basso medioevo attende il suo rinascimento. Quando pulizia è fatta, il vendicatore si fa pioniere e ingravida una o due gatte, per cominciare. I nuovi nati, i figli bastardi che chiudono la fase incestuosa e aprono a nuove dinastie, vengono cresciuti in comunione. Le gatte senza più figli prestano il proprio stock di seni gonfi diventando balie e zie amorevoli. La famiglia si allarga.
Se durante il medioevo la colonia era diventata numericamente infima, adesso, nel rinascimento, ritrova numero. Cambiano i fenotipi. I tigrati sfumano, i grigi languiscono: torna il nero, segno di forza. Il maschio rosso e la femmina tricolore hanno dato alla luce sei gattini di cui uno rosa.
I nomi ai piccoli li davamo io e mio cugino, raramente mia sorella che quando li nominava li prendeva anche in consegna strappandoli alla libertà e relegandoli a una cattività fatta di bagnetti, permanenti e peli spazzolati. Righino, Palletta, Il secco: l’aspetto fisico ci consigliava. Davamo nomi in base al colore – Carota, Roscetto, Nerina, Tigre – o in base all’aspetto in generale – Lince, Muflone, Puman (ricordate quando da piccoli si aggiungevano o toglievano consonanti alla fine delle parole?). Nomi a caso, risultato delle moine in culla: Brino, Roina, Cittino, Scittina. Nomi classici: Romeo, Oliver, Felix.
I gattini di mia sorella si chiamavano tutti Durcat, o forse Durkat, non chiedetemi perché.
Io davo sempre nomi assurdi, per esempio La Russa a un povero sfortunato che sembrava avesse il pizzetto come il politico neofascista, finito tragicamente ucciso (il gatto, non il politico) da una cagna Labrador – tale Perla – che Dobo II si portava a casa senza riuscire a montarla per via del garrese troppo alto.
Una tantum, per motivi a me ignoti e forse in maniera aleatoria, una madre abbandonava la sua nidiata prima che finisse lo svezzamento. Allo stesso modo poteva capitare che un gattino fuggisse involontariamente dal nido approfittando di quella suprema distrazione mista a controllo totale che esercitano le madri di ogni animale nei confronti dei loro figli. Sembrano non curarsene affatto mentre i piccoli batuffoli si aggirano curiosi e goffi per i prati, mentre imparano a camminare o a compiere un agguato acquattandosi prima; sembrano persino un po’ scocciate – terribilmente scocciate – e pronte a ogni pretesto pur di fuggire da questo tran tran. Poi con un gesto deciso ed essenziale li richiamano a sé, li lavano e li mettono a letto, e sono ordini che non si ripetono due volte.
Di questi micini dispersi o lasciati incustoditi dovevamo sopportare i miagolii incessanti e la vista. Dopo infatti i primi goffi tentativi di salvataggio, gli allattamenti coatti col biberon e il latte in polvere consigliatoci dalla veterinaria e riscaldato pazientemente, diventò a tutti evidente che la pietà di un uomo non poteva sostituire l’istinto di una gatta. Non si potevano svezzare noi queste povere bestioline. Mia madre le avrebbe uccise, pur di non sentire quel lamento, il loro lento spegnersi come braci al vento, e alzava la musica alla radio mentre mio padre si opponeva all’idea troppo ardita di allontanarle, metterle in un sacco e portarle via che tanto non c’è niente da fare – occhio non vede cuore non duole –, si opponeva e insisteva nel far notare che questa è la natura, i tigli in fiore e i rantoli degli innocenti. Che senta, diceva, riferendosi a me.
Con lui facevamo vaste ricognizioni. Andavamo in giro la domenica mattina, prima di pranzo, per controllare lo stato del podere: percorrevamo il perimetro recintato in cerca di buchi o tentativi d’effrazione da parte dei cinghiali e degl’istrici; analizzavamo le fatte ricostruendo i movimenti di un capriolo o facendo illazioni sulla presenza di un fantomatico lupo; scrutavamo le gemme degli olivi oppure le olive acerbe, se s’era a fine estate, in cerca dei buchi marroni lasciati dalla temutissima mosca (Bactrocera oleae), che rovina l’olio; salutavamo le galline nel pollaio, raccoglievamo le uova; si parlava di me e del mio futuro in termini non poi così lontani dal classico un giorno tutto questo… Io prendevo appunti, disegnavo e descrivevo qualunque cosa vedessi. Catalogavo e spillavo gli insetti nelle mie scatole entomologiche. Raccoglievo i sassi con le infiltrazioni calcaree, gli scisti policromi che mio padre mi spiegava come se parlasse di cose successe a lui, la storia naturale, il fatto che la denominazione «scisto» fosse impropria perché non si trattava di successioni metamorfiche ma di argille e di marne.
Avevo una bella collezione di piriti. Possedevo alcune selci, un paio di pietre paesine ed ero gelosissimo dei miei fossili. In un vecchio acquario convertito a terrario tenevo ragni, lucertole e lombrichi, spesso nello stesso momento per vedere alla fine chi aveva la meglio (quasi sempre il lombrico).
Mi sentivo Konrad Lorenz. Avevo fabbricato un libro su tutti gli animali in cui mi ero imbattuto. La volpe che si veniva a mangiare il cibo dei gatti, le sere d’estate, la donnola morta stecchita trovata cercando castagne, il cinghiale sul ciglio della strada, la cicogna. Un’intera pagina per parlare di quanta soddisfazione avessi tratto dal trovare il piccolo bolo vomitato da un barbagianni, spiato per qualche notte sopra il pilone della luce (!). Nella didascalia che descriveva il cervo appuntavo, in nota:
… è interessante notare come il recinto ci protegga dal dentro per il fuori ma non dal dentro per il dentro. L’altro ieri abbiamo trovato lo scheletro di un cervo dentro al recinto. La carcassa era asciugata dal sole e puzzava vagamente di scarpe vecchie. Dal teschio partivano due corna appena ramificate, segno che il cervo era un giovane maschio. Non è questa la sede per parlare della gioia di mia madre che finalmente ha potuto esporre un tale trofeo nella buca vuota della Madonnina. Sapevamo che il cervo entrava per via delle cacche ma… chi ha ucciso il cervo? Con mio padre ci siamo guardati felici: il lupo.
Una domenica facemmo la solita perlustrazione nel tardo pomeriggio anziché la mattina. Giunti dove crescevano indisturbate le canne di bambù, sulla proda davanti al fienile, sentimmo un miagolio rauco e soffocato. Un gattino ancora cieco, grande come un palmo di mio padre, s’era rintanato lì da chissà dove e chiamava la mamma. Capisco solo ora che grazia debba essere stata per mio padre di concedermi quel salvataggio. Lo presi fra le braccia deciso a fare il giro delle nidiate. Perché la madre l’aveva abbandonato? Era morta? Era fuggito? Forse qualche balia l’avrebbe preso con sé e cresciuto come suo? Forse il sacco di mia madre sarebbe stato meglio. Ma quel che rese il ritrovamento unico e irripetibile fu ciò che accadde mentre facevo quel disperato porta a porta.
Lorenz parla di un vigore speciale, quello con il quale la prima sagoma intravista viene impressa nella memoria di un neonato. Nello schiudersi delle palpebre il gattino s’irrigidì. Ero io quei contorni: la specie più affine nel nuovo mondo di luce. Qualunque porto nella tempesta. E dopo un momento d’interdizione – il periplo delle pupille attorno a me – fu come rivedersi dopo una vita da emigrati. Se solo avesse potuto il piccolo mi sarebbe corso incontro e mi avrebbe abbracciato. Steso sui miei avambracci risultò invece una serie di convulsioni soltanto, come una virgola che si divincola.
Così divenni sua madre.

Nelle mie mani, nel mio interventismo, un fenomeno come l’imprinting, che dona priorità e riconoscimento speciali alla prima cosa vista, aveva un sapore troppo aleatorio per essere naturale. Qualcosa di magico doveva risiedere nel primo sguardo sul mondo.
Lo chiamai Saramago, chissà perché, come lo scrittore che non avrei mai letto e che un’amica mi disse – molti anni dopo – confermare quella teoria secondo cui gli idoli letterari è meglio leggerli che conoscerli: se ne può venire delusi.
Una gatta lo accettò al banchetto del suo latte, assieme ad altri tre. Poteva essere la sua vera madre, non me lo disse mai (la distanza che Saramago aveva percorso negli ultimi minuti della sua cecità era tale da ritenere il contrario). Magari era stato rapito da qualche maschione o da qualche gatto pazzo. Sicuramente cresceva, imparava a pulirsi da solo, giocava con gli altri micini. Dopo un mese non aveva nulla in meno degli altri. Non appena passavo dal gelsomino però, dove risiedeva la nidiata, qualunque cosa stesse facendo – poppare, imparare, giocare nel mondo di luce – lasciava perdere tutto e si lanciava verso di me. La sua foga era inversamente proporzionale alla sua velocità. Cappottava di felicità. E quando arrivava ai miei piedi sembrava un cane che, inseguita la macchina, la raggiunge.
Devo ammettere che provavo un certo imbarazzo. La posizione esemplarmente defilata dello scienziato, così confacentesi a me, veniva letteralmente minata alla base. Quello che da scienziato avevo ottenuto era un anonimato prezioso, lo stesso del fotografo e del documentarista finché nella foto o nel documentario qualcuno non prova a suicidarsi o non iniziano a menarsi due persone in campo: ecco allora la responsabilità, il conflitto. Al tempo stesso mi sentivo come se potessi far levitare gli oggetti col pensiero.
Lorenz divenne madre adottiva di molte oche nella sua carriera. Quello che era stato un incidente divenne per lui un’opportunità. Capii che il vero scienziato passa sopra l’anonimato per il piacere della scoperta. A quanto pare, invece, a me interessava l’anonimato.
Per un certo periodo assecondai il sogno di mezza estate di Saramago partecipando alle sue poppate e giocandoci ogni volta che potevo. Me lo tenevo su una spalla mentre facevo le ricognizioni. Lasciavo che il mio corpo fosse un percorso a ostacoli con botole e tranelli. Quando facevo la guerra con mio cugino e uscivamo tutti bardati con le nostre 6 mm a gas dovevo assicurarmi che Saramago non mi facesse scoprire o non si facesse male a sua volta, come nei film d’azione in cui oltre alla propria, di pelle, il protagonista deve salvare anche quella di una giovane smarrita e incerta, la figlia di un premio Nobel o solo la ragazza della porta accanto presa casualmente in ostaggio, e insieme schivano le pallottole e saltano via quando esplode una macchina fino a capire d’esser fatti l’uno per l’altra – Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
Saramago e io non condividevamo la stessa sorte. Prima di tutto lui era un gatto; e secondo era un gatto maschio, il che costituiva già di per sé un problema nella colonia senza aggiungerci la sua particolare «diversità». Cosa avrebbero detto i suoi competitor vedendo la suprema distrazione della madre naturale contrapposta alla suprema apprensione del sottoscritto? Cosa avrebbero detto vedendomi portargli del latte in trincea, pulire le sue feci durante gli appostamenti, dargli consigli su quale gatta montare?
Gli facevo i grattini sulla pancia, la sua grassa pancia da viziato. Non ci volle molto perché gli venisse concesso di stare in casa qualora lo desiderasse, di dormire sui divani e fare le boccacce attraverso le porte a vetri ai suoi amici lasciati fuori. La sera poi usciva di nuovo e raggiungeva la sua vera famiglia e i suoi fratelli e si concedeva un po’ di ruzzo prima di dormire nel caldo gomitolo che formava la madre.
Questo per un bel po’.
Come un adolescente cominciava a sfilarsi e a diventare odiosa la sua irriverenza. Man mano che la fronte gli diveniva meno bombata e la sua tenerezza trasfigurava in una malcelata furbizia ecco che anche le mie moine da madre affettuosa diventavano più svogliate. Iniziavamo a darci per scontati. Poppava fuori orario, si concedeva un goccetto dentro casa e come un vecchio ubriaco tornava a infastidire gli altri gatti e a rincorrermi ovunque mi fossi rintanato. Viveva in un’enorme bambagia di vizio e spensieratezza mentre io perdevo la mia.
Otto anni è troppo presto per avere un figlio scapestrato, anche se felino.
Mia madre – sua nonna? – coglieva solo il lato curioso della situazione e conservava gelosamente il suo anonimato. Come altro descrivere la situazione? Immaginate l’intraprendente indipendenza di un gatto unita alla cieca fedeltà di un cane.

All’inizio della strada sterrata che portava a casa nostra c’era un maneggio in disuso. Dentro un lungo capannone col tetto in ondulato rugginoso c’erano una ventina di stalle con i nomi dei cavalli-che-furono dipinti sulle porte. Fuori c’era un piccolo paddock rotondo dove addestrare e allenarsi. Era il luogo ideale per le nostre guerre perché c’era un’infinità di posti dove nascondersi e perché sembrava davvero il teatro di un conflitto, con i suoi vetri rotti e le sue mura scrostate. Era il nostro O.K. Corral.
Un giorno ci andai senza mio cugino. Saramago era lungo un avambraccio e ancora non riusciva a farsi un bidet da solo né ad arrotarsi le unghie senza apparire come un bambino in giacca e cravatta alla prima comunione. Aveva rotondi occhi verdi e una lunga coda nervosa. La sua tigratura era del tipo Mackerel, cioè a strisce sottili – gene T dominante – con lievi marcature Blotched, a strisce più larghe, sulla schiena – gene tb recessivo. Caratteri così mescolati parlavano di un elevato grado di eterozigosi, ossia di una colonia matura, al suo apice.
Mentre camminavamo tra Quercus ilex e Quercus pubescens in cerca di avvistamenti – i transetti che avrei fatto durante le escursioni universitarie erano di poco più intensi e accorti – sparavo a qualche insetto o decapitavo un dente di leone. Passati oltre il fiume, in realtà un piccolo borro, risalimmo attraverso i noccioli e superammo quella che chiamavamo «la montagna», un complesso di roccia friabile divertente da arrampicare perché vagamente pericoloso. Dopo una decina di minuti eravamo al maneggio. Saramago faticava a tenere il passo ma era sempre lì, dietro di me. Un paio di auto sfrecciarono sull’asfalto della provinciale. Mi ricordo che finii un caricatore, dodici colpi, sparando da un parte all’altra del capannone e godendo dell’eco dei rimbalzi delle sferette di plastica. Se sparavo da vicino a qualcosa le sferette si spaccavano a metà. Passò un’altra macchina e finsi di nascondermi, m’infilai nella stalla che fu di Wildfire chiudendomi dentro. Ricaricai gas e pallottole. Quindi le unghiette di Saramago sul legno della porta: chiedeva di me. Lo feci entrare. Restai acquattato mentre il mio compare si strusciava sulle mie gambe magre e abbozzava delle fusa pigre e stentate.
Il protocollo prevedeva di uscire come un agente segreto irrompe in una stanza sospetta: spalanca la porta, esci di scatto e proponi la tua weaver ad ambo i lati facendo fuoco se necessario. Avrei potuto fingere di coprire Saramago invece non ci pensai, richiusi la porta della stalla dopo essermi accertato che la via fosse libera e corsi fuori senza tentennare troppo.

Per quanto ci allontanassimo Saramago trovava sempre la via di casa. Sentiva il mio odore, contava le mie impronte, si orientava con le stelle. Non so come facesse. Forse aveva una mappa mentale di tutti i luoghi limitrofi alla casa. Alla tv una volta hanno detto che un gatto maschio può setacciare fino a settanta ettari di territorio. Ci sapeva fare, il ragazzo. Era diventata una vera sfida riuscire a seminarlo, nascondersi dalle sue brame, e me lo figuravo come un agente della Spectre o del controspionaggio russo quando mi aggiravo guardingo per il sottobosco o rotolavo dietro un albero. Lo aspettavo trattenendo il fiato e pensavo d’averla fatta franca quando eccolo salterellare fuori dalle felci. Allora potevo sparargli contro, sicuro della balistica imperfetta delle mie pallottole. Dopo una decina di metri la pallottola si sollevava e lui mi correva incontro veloce, mi saliva in grembo e cominciava alcune serie di zampate sul viso – devo dargli atto, sempre ritraendo gli artigli.
Tratti distintivi: il passo molleggiato, un’aria perennemente stupita, la sua sconsideratezza.
Penso di averlo iniziato a odiare apertamente il giorno che mi sorprese in bagno a fare la cacca.
Il bagno era sempre stato per me un luogo di meditazione. Ci entravo con la scusa di un bisogno corporeo e mi trattenevo delle ore. Non importava che mi portassi dei fumetti da leggere o altre cose da fare. Non era strettamente necessario. Mi bastava la pace bianca delle ceramiche e il tenue lucore dei sanitari. Le piastrelle fredde, il tappeto con le frange spampanate, il caldobagno Delonghi. In bagno c’era silenzio. A volte mi mettevo a studiare tra il water e il bidet. Certe sere scostavo la tenda della doccia e rimiravo gli spigoli delle pareti o le rientranze del soffitto. Le linee nere che componevano i quadrati avevano su di me l’effetto rilassante di un orizzonte schematico, le linee di fuga di una griglia prospettica. A letto mi rigiravo, in bagno invece mi addormentavo come niente. Col tempo ho poi mitigato questa mia abitudine o l’ho nascosta dietro al bisogno tipico del maschio occidentale di ritirarsi a cacare con la dovuta calma, sigaretta e giornale.
Comunque, quel giorno ero seduto sul mio trono, il caldobagno davanti come un leggio e in sottofondo il lontano gorgoglio dello sciacquone, quando mi accorsi che una versione particolarmente felpata di Saramago si aggirava per la stanza, indifferente, e mi guardava…

A mia discolpa c’è da dire che a quell’età un bambino si distacca dal pensiero magico e comincia a interpretare il mondo come luogo reale e dunque spaventoso – gli psicologi si raccomandano con le madri di ricordare Edipo e gli sciamani prescrivono massaggi sotto le piante dei piedi per attenuare ai piccoli il peso invisibile da sostenere d’ora in avanti.
A mia discolpa c’è da dire che ordigni con mio cugino ne avevo sempre fabbricati. Grattavamo via il salnitro dalle pareti in garage e lo univamo al carbone polverizzato dei camini e allo zolfo giallissimo che mio zio ci comprava sottobanco. Quindi mescolavamo e cacciavamo l’oscura pozione in una canna di ferro o in un pezzo di olivo stagionato e opportunamente scavato. Fuori incidevamo le scanalature che avrebbero generato le schegge, a mo’ di bomba a mano. Un ordigno tirava l’altro e si andava a crescere. Prima di accenderli li disponevamo in una grossa buca che vedevamo di volta in volta crollare su sé stessa e annerirsi, con grande viavai di formiche e altri insetti.
A mia discolpa devo anche aggiungere che mettere Saramago nel bidone fu un’idea concordata e stabilita per il suo bene, che stesse lontano dalla deflagrazione. Almeno in un primo momento. Aveva il vizio – sconsiderato, ça va sans dire – di tuffarsi nella buca appena diventava oggetto della nostra attenzione. Sembrava lo facesse apposta. E poi né io né mio cugino sapevamo che nel bidone c’erano cinque buoni palmi di acqua stagnante. Dall’alto sembravano molti meno e sfido chiunque a controllare con tutte quelle larve di zanzare.
Rivoltammo il bidone a calci, nella buca, e la ricoprimmo.
Giorni dopo mio padre mi disse di non aver più visto Saramago al gelsomino, l’avevo visto io per caso? Negai. La mia recente felicità consisteva in un fodero ascellare che mi aveva cucito mia nonna.
La colonia non sentiva nessuna mancanza.

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