Le sette stelle di Piazzale Loreto
di Fabio Deotto

Tutti davano la colpa alla terza guerra mondiale. Si diceva che la violenza fosse un prodotto diretto della miseria, di un orizzonte cancellato, di un mondo dove nessuna sopravvivenza era garantita; ma lasciate che vi dica una cosa: è così sempre, ed era così anche prima delle bombe.
Il mio nome è Toki, sono nato diverse lune fa nel cuore ancora verde della Terra dei Demoni. Discendo dal lignaggio che ha dato corso alla Divina Scuola di Hokuto, la millenaria disciplina di cui ormai padroneggio ogni tecnica con esattezza. Il mio destino è stato inciso nella pietra prima ancora che mi spuntassero tutti i peli, in una prateria schiaffeggiata da un vento silenzioso, quando un cacciatore ebbe la sciocca idea di trafiggere il mio cane con una freccia. Quel giorno, dopo avermi visto ridurre la faccia dello stolto cacciatore a un umeboshi di carne, il Fato scelse per me un avvenire di ruvida bellezza: avrei speso migliaia di giorni e di notti a fare pratica nel Tempio, mi sarei massacrato di allenamenti, avrei sfiorato i limiti dell’anatomia umana, e come premio sarei stato incoronato successore della Divina Scuola di Hokuto.
Questo aveva previsto il Fato, questo era il destino inciso nella pietra. Ma doveva essere una pietra parecchio duttile, perché quando il Fato si è ricordato che avevo una malattia congenita, ci ha messo poco a cancellare tutto. Da allora la mia vita è stata una collezione di sventure, una monumentale quanto pietosa discesa verso il fallimento.
Non so dire in che modo sia finito proprio qui, avanti nel tempo in questo opprimente futuro alternativo; forse è un paradosso prodotto dalle radiazioni, o forse qualcuno si è arrischiato a riattivare quegli strani macchinari a Tsukuba incasinando irreversibilmente lo spazio-tempo. Comunque sia, se non mi trovassi qui, ora, con le gambe incastrate sotto un tavolino di formica, in un bilocale equo canone in questa città epilettica e annoiata, probabilmente in questo momento starei varcando le porte degli inferi. Dopo avermi scalzato dal trono della successione, il Fato ha scribacchiato per me un altro frettoloso epilogo. Il mio destino era stato riscritto, mio padre Ryuken l’aveva preconizzato e io da anni mi preparavo ad affrontarlo da uomo: dopo una vita di inutili sacrifici sarei stato sconfitto da mio fratello Raoul in un incontro all’ultimo sangue, lui mi avrebbe risparmiato, io avrei aspettato di tirare le cuoia nel mio villaggio, in mezzo a persone bisognose che avrei curato con dedizione fino al mio ultimo respiro; una fine tutto sommato dignitosa, per un guerriero di Hokuto infestato dalle radiazioni. E invece no. Prima che potessi ficcarmi otto dita nelle cosce per attivare i punti della forza vitale, mentre Raoul già aspettava di deflettere i miei primi colpi, il Fato ha deciso che nemmeno questo finale gli piaceva.
Di quel momento ricordo solo una luce silenziosa che assorbiva ogni cosa. Non è stata un’esplosione vera e propria, non s’è udito alcun rumore, non c’era il calore delle radiazioni né l’odore dei detriti, non c’erano le urla degli uomini deboli e dei bambini più acerbi; quella luce ha aperto un varco nell’orizzonte e ha cominciato a espandersi, ingoiava tutto, dalla punta incandescente del cielo al piano frastagliato dell’orizzonte. La luce avanzava a velocità pneumatica, un mare solido e senza gravità. Noi nel frattempo eravamo come paralizzati, né io, né Raoul, né Kenshiro potevamo muovere un solo muscolo, solo gli occhi avevano il permesso di guardare; e così l’abbiamo guardata crescere, insaziabile, e inglobarci uno a uno. Per primo ho visto sparire Raoul, un attimo prima la sua faccia rincagnata sputava minacce, quello dopo il suo corpo aveva lasciato posto al nulla bianco che avanzava inesorabile. L’ultima cosa che ricordo invece è la faccia di Ken, i suoi profondi occhi impotenti, le sue labbra rigide, socchiuse come per dire qualcosa, le mani intrecciate a coprire lo sguardo di Lynn. Mi sono risvegliato in uno spiazzo erboso presidiato da automobili colorate e palazzi cinerei. Una cupola grigia incapsulava il mondo come una sola interminabile nuvola. Credetti di trovarmi dentro uno di quei sogni che riscrivono i ricordi, perciò mi preparai a rivivere l’attimo in cui, ormai anni prima, la terra aveva tremato e l’aria si era incendiata. Ma poi, quando sollevai la testa dal terreno erboso che aveva accolto la mia caduta, al posto del silenzio del dopo-bomba scalpitava il frastuono di motori a scoppio, il ronzio intermittente di troppe voci, il cieco macinare di una città ancora infettata dalla vita.
Ma dicevo, la violenza. Il sole del mio primo giorno in quel mondo non aveva ancora terminato la sua discesa tra i palazzi di Milano, che già avevo rischiato di fare esplodere delle teste. A lungo avevo vagato attorno a una grande stazione brulicante di viaggiatori, provando inutilmente a sottrarmi alle dita puntate dei bambini e allo sguardo preoccupato dei genitori. Mi guardavano come se fossi pazzo, appena i loro occhi intercettavano i miei subito si abbassavano e il loro incedere si faceva più veloce. In realtà avevo semplicemente fame. Con la divina tecnica di Hokuto puoi annientare interi eserciti, curare interi villaggi, ma non ci moltiplichi il pane. Capii che se volevo trovare da mangiare dovevo allontanarmi da quella stazione, dove chiunque sembrava animato da un’urgenza cieca e implacabile. Arrivai così in una stretta via lontano dal fiume di automobili, quindi in uno spazio ombreggiato. Qui trovai un capannello di persone raccolte in un semicerchio attorno a una scena a cui i miei occhi erano ormai disperatamente abituati. Due uomini vestiti di nero e con ridicoli cappelli schiacciavano la faccia di due pover’uomini contro la parete scrostata di un muro, mentre ne percuotevano le terga con corti bastoni neri. Avevano armi e manette appese alla cintura, i loro abiti erano identici; strisce rosse percorrevano i pantaloni per il lungo, chiaro segno di riconoscimento di una banda di predoni. Nessuno dei presenti osava intervenire, le loro facce impaurite non mi notarono nemmeno. Ero stanco e affamato, ma Ryuken mi ha insegnato a non voltarmi mai quando un debole è in difficoltà, perciò decisi di intervenire.
Non credevo fossero così deboli. Appena toccai i punti di pressione sul retro del collo le loro braccia si piegarono all’indietro così velocemente che i gomiti si spezzarono come grissini. Dovetti premere subito altri tsubo di guarigione per evitare che scoppiassero come palloncini.
Avevo appena finito di paralizzare i due predoni. Fino a quel momento era stato una macchia marrognola schiacciata contro un muro in penombra, l’avevo classificato come un povero ramingo, oppure un uomo molto malato, ma appena avevo cominciato a roteare i polsi mi ero accorto che era sollevato e avanzava lentamente verso di me. I pover’uomini si erano volatilizzati all’istante, intimoriti dalla mia tecnica, lui invece avanzava a piccoli passi, senza tradire fretta né impazienza, superò i due predoni e le loro facce distorte dalla paralisi; quando fu a pochi passi da me, la luce del tramonto rischiarò il volto nascosto sotto il cappuccio rivelando due folte sopracciglia grigie e un mento affilato che conoscevo bene.
«La nostra arte non ha valore in questo mondo, fratello; non più di quello di una bestia da circo.»
Non aggiunse altro. E anche se all’inizio non capii cosa intendesse lo abbracciai fortissimo, premendo il naso nel suo mantello polveroso per nascondere le lacrime. Sono cresciuto insieme a un fratello di sangue, Raoul, e un fratello adottivo, Ken. Raoul è stato il primo a esercitarsi per diventare il successore della Divina Scuola; la sua era una determinazione granitica – qui a Milano direbbero che a dieci anni già si era scelto la carriera. Per me è stato diverso. La conquista del mondo non esercitava alcuna seduzione su di me, volevo solo diventare come mio fratello, superarlo nella tecnica e nella forza. A lungo ho spiato i suoi allenamenti nel dojo con Ryuken; mi sono dedicato a un allenamento matto e disperatissimo, finché un giorno quel cacciatore ha trafitto il mio cane con una freccia e, sotto gli occhi sgomenti di Raoul e Ryuken, gli ho restituito quanto meritava. Fu allora che Ryuken mi informò che, se avessi deciso di seguire la strada di Raoul, prima o poi ci saremmo dovuti affrontare in un combattimento all’ultimo sangue. La Divina Scuola di Hokuto non ammette più di un successore; la solita burocrazia. L’ultima volta che avevo visto Kenshiro non aveva ancora compiuto trent’anni e prometteva di diventare il più grande guerriero che mai abbia calpestato la Terra dei Demoni. Ora dimostra sessant’anni, i suoi muscoli faticano a tendere la pelle e i suoi capelli sono grigi quanto i miei. Nei suoi occhi non c’è più la disperazione di un tempo, ma al suo posto non c’è traccia di gioia; è come se qualcuno gli avesse succhiato l’anima nel sonno, ogni notte, per trent’anni. Sono passate tre settimane da quando la luce silenziosa ha ingoiato tutto, ma ancora non abbiamo parlato molto. So solo che, per qualche motivo, Ken è arrivato qui molto prima di me, abbastanza da invecchiare, imparare questa lingua e perdere la voglia di lottare.
Mi ha accolto in casa sua. Fa una vita insolita, per un guerriero di Hokuto. Innanzitutto ha due case. In una, il bilocale equo canone, ci dorme; nell’altra ci lavora. Ogni giorno, poco dopo l’alba, si sveglia, si veste ed esce di casa a stomaco vuoto. Cammina per diverse migliaia di jou fino a quest’altro appartamento, ancora più piccolo, che negli anni ha riarredato come un ospedale in miniatura. Lì riceve ogni tipo di paziente, si fa pagare qualche euro all’ora per curare piaghe, artrosi, ferite da arma da taglio e da arma da fuoco, alcune tipologie di tumore in fase non avanzata; c’è chi va da lui anche solo per parlare, e anche se Ken non concede che poche parole, molti tornano ogni settimana, come se tutto quel parlare li aiutasse a ripulirsi la testa e la coscienza.
Dopo averlo osservato lavorare, ho capito che Ken poteva avere bisogno del mio aiuto; ho trascorso lunghi anni a curare persone bisognose utilizzando gli tsubo, la mia conoscenza dei punti di pressione terapeutici è sicuramente più vasta della sua, inoltre non credo che il suo stipendio possa bastare a mantenere anche me. Così mi sono offerto di aiutarlo con l’ambulatorio. Dopo un lungo silenzio, ha annuito impercettibilmente e mi ha dato l’indirizzo di Domiziano, un amico che l’aveva aiutato a procurarsi una carta d’identità anni prima.
Non è mica facile, vivere a Milano, per un guerriero di Hokuto. Per dire, l’altro giorno sono passato in zona Porta Genova e mi hanno scambiato per un hipster. Una donna esigeva che le dicessi dove mi fossi fatto tingere i capelli, un ragazzo vestito come un contadino invece voleva sapere se la tracolla e la spalliera fossero di vero cuoio. Comunque. Non ero lì per farmi notare – da quando Ken mi ha dato le chiavi del bilocale in viale Brianza mi ci barrico finché non scende la notte –, il fatto è che mi annoiavo. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che non fosse Ken, o se non altro di trovare qualcosa da leggere. Ci ho messo tre ore a trovare delle persone che parlassero giapponese, e ho dovuto camminare fino a piazza Duomo. Erano un uomo e una donna, piccoli, magri, indossavano tessuti da due soldi e ridicoli cappelli da risaroli, annuivano in continuazione, sorridevano, ogni tanto l’uomo sollevava una macchina fotografica – non troppo diversa da quelle che si usavano prima delle bombe – e a ogni domanda scattava foto a ripetizione. Parlavano la mia lingua, questo sì, ma non sono sicuro che abbiano capito le mie domande. Sembravano più interessati a chiedermi di mettermi in posa. Alla fine mi hanno suggerito di prendere un treno sotterraneo fino a Porta Genova, seguire il naviglio pavese sulla sponda sinistra e infilarmi in questa libreria colorata.
In sei lustri questi occhi malati hanno visto di tutto: una civiltà spazzata via dalla guerra atomica, scorrerie di predoni monocresta al largo dei bastioni di Kyoto; uomini trucidati per un sacchetto di riso; ho visto i guerrieri migliori della mia generazione distrutti dall’amore per una donna (sempre la stessa, Julia), e pazzi d’ambizione trascinarsi per strade di sabbia in cerca di acqua rabbiosa; ho visto guerrieri di Nanto grandi come montagne mostrare il petto a una pioggia di frecce; ho visto un Re di Hokuto che piangeva seduto sulla sella di un gigantesco cavallo nero senza nemmeno una serva che gli raccontasse una storia; ho visto fratelli pestarsi a morte sotto lo sguardo di una stella letale per stabilire chi fosse più forte; ho conosciuto un tipo di buio e di solitudine che solo la città prigione di Cassandra può ospitare. Mai però mi sarei aspettato di vedere la mia tragedia familiare trasfigurata su brandelli di carta inchiostrata. Un racconto epico come quello di Hokuto meriterebbe pagine e penne di ben altro spessore; invece qui vengono vendute un tanto al chilo a uomini incompiuti e privi di midollo. Nella Terra dei Demoni eravamo dei, qui siamo cosplayer.
Quando ho varcato la soglia del SuperGulp un ragazzo ha urlato il mio nome – anche se io non l’avevo mai incontrato prima d’allora –, si è messo a battere le mani come una bambina risparmiata da una banda di stupratori e ha cominciato a ripetere quella parola: cosplayer. Non aveva timore di me, mi trattava alla stregua di un’attrazione da circo: un leone ammaestrato, o uno di quegli storpi che i predoni trascinavano con le moto da un accampamento all’altro. Prima che potessi prendere e sfogliare un volume raffigurante il petto traforato di Ken, il ragazzino esagitato ha chiamato a raccolta altre persone per osservarmi, alcuni hanno estratto delle strane tavolette e hanno cominciato a pigiarle forsennatamente, mi sentivo un salmone appeso al gancio di un pescivendolo costiero. Quando mi hanno chiesto per la quarta volta di mimare la posizione del Cerchio Magico di Hokuto mi è venuta voglia di farlo per davvero.
È a quel punto che ho visto Raoul.
Osservava la scena dalla strada con le mani premute a coppa contro la vetrina, i suoi occhi erano spalancati in un misto di sorpresa e rabbia. Ma soprattutto: non dimostrava più di tredici anni. I lineamenti erano gli stessi del fratello inquieto che mi rimproverava ogni lacrima e sognava di stringere il cielo nel suo pugno. Erano quasi vent’anni che non riuscivo a guardare mio fratello maggiore negli occhi; erano ancora gli occhi del ragazzo buono ma troppo vulnerabile che mi aveva trasportato sulla cima di una montagna scalando la roccia con un solo braccio. Ho cercato di precipitarmi fuori dal negozio, ma sono stato ostacolato da tutte quelle persone entusiaste che sgomitavano per scattarmi una foto. Quando finalmente sono uscito in strada Raoul era scomparso nella nebbia del naviglio.
Appena Domiziano mi ha fatto avere i documenti fasulli ho prenotato un check-up in ospedale. Credevo mi avrebbero pronosticato pochi altri mesi di vita, ma questo non mi spaventava: un guerriero di Hokuto non teme il proprio destino; nemmeno quando glielo cambiano a ogni falce di luna. Quando gli ho chiesto quanto mi rimanesse da vivere, il dottore ha fatto una faccia strana e si è rimesso gli occhiali nel taschino, ha detto che in realtà ho una comune insufficienza, operabile in sicurezza tramite sostituzione di una valvola cardiaca. Allora l’ho messo a parte delle esplosioni, del fallout radioattivo, della lunga notte che avevo trascorso fuori dal rifugio sigillato. Il medico a quel punto ha sbuffato e ha sollevato le sopracciglia, mi ha detto di Non scherzare su queste cose, se davvero soffrissi di una sindrome da radiazione acuta i capelli manco ce li avresti più, altro che ‘sta criniera sale e pepe da new romantic. Mi ha messo in lista per l’operazione al cuore, ha scarabocchiato una ricetta per cianocobalamina e perossidina cloridrato e, prima di richiudersi la porta alle spalle, mi ha consigliato di andarci piano con gli steroidi.
Perciò a quanto pare sono guarito. Il che dovrebbe colmarmi di gioia, pensando a tutti gli anni passati a nascondere la mia malattia, a perfezionare le tecniche dell’Hokuto Shinken, ad ammassare in pari quantità massa muscolare e saggezza interiore, perché qualcuno doveva fermare la tirannia di Raoul e quel qualcuno dovevo essere io. Ma per qualche ragione, ora che Raoul è un ragazzino e la Stella della Morte non brilla più su di me, mi sento ancora più debole e demotivato. Sarà il cibo italiano, sarà l’ignavia di queste giornate milanesi, sarà che in questo mondo non ho nemici, sarà che quando non hai bisogno di dimostrare a nessuno di essere il più forte, va a finire che ti rammollisci. A quanto pare l’assistenza sanitaria gratuita è riuscita dove le Stelle di Nanto hanno sempre fallito. Gli dei incaricati di amministrare il mio salto spazio-temporale devono avere uno strano senso dell’umorismo.
Sono passati già tre mesi da quando mi sono risvegliato sulla rotonda di Piazzale Loreto. Dopo essersi accertato della mia competenza e dedizione, Ken si è fatto da parte e ha lasciato a me l’ambulatorio. Ora trascorre le giornate facendo lunghe passeggiate nei territori collinari che incorniciano la provincia. Io invece lavoro come un matto. L’ambulatorio è diventato un punto di riferimento per chiunque abbia bisogno di cure e discrezione. Ho conosciuto i più svariati tipi di persone: criminali, tossicodipendenti, malati terminali e ragazzini intossicati dall’alcol. Io curo tutti senza fare domande, e chiedo a tutti la stessa simbolica tariffa. Non è una brutta vita. A dirla tutta, è la vita che mi sarebbe piaciuto fare anche nella Terra dei Demoni, se fossi cresciuto in tempo di pace.
Ogni tanto però penso a Raoul. Da quella volta sui navigli non l’ho più visto, e ogni giorno che passa mi convinco che si sia trattato solo di un’allucinazione. Ma vera o fasulla che fosse, quell’apparizione è l’unica cosa che mi impedisce di abbandonare gli allenamenti. Se davvero Raoul vive in questa città, e se davvero sta crescendo con la stessa inquietudine nel cuore, prima o poi la profezia di Ryuken potrebbe avverarsi. Del resto, la gente qui a Milano non è tanto diversa da quella che popolava la Terra dei Demoni. In queste strade ho osservato la stessa codardia, la stessa meschinità, lo stesso disprezzo per la vita umana che incancreniva la mia terra natia. L’unica differenza è che in questo mondo esistono ancora delle leggi capaci di intimorire gli uomini. Ma se Raoul un giorno decidesse di continuare a rincorrere il destino che il Fato ha scritto per lui, non servirà una guerra mondiale per servirgli il mondo su un piatto da portata.
Raoul ha talento, carisma, e da sempre non sogna altro che stringere il cielo nel palmo della sua mano. E questo mondo non mi sembra così immune al fascino degli uomini di potere.

 

Illustrazione di Olivia Haller

Olivia Haller è nata a Parigi nel 1993 e dal 2002 vive a Londra. Dopo aver frequentato il Lycée Français, si è laureata in Arte & Design nel 2015. Alla Kingston University ha scoperto la sua passione per l’illustrazione. Ha partecipato a numerose mostre e iniziative artistiche. Al momento è un’illustratrice freelance e sta lavorando a diversi progetti.

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