La parola
di Antonio Marzotto

Mentre lui cerca le chiavi, lei finge di schiarirsi la voce per ricordargli la promessa che le ha fatto a cena dopo aver visto le statuine. Lui aveva detto ma chi le ha scelte e lei aveva risposto tua madre coalizzata per la prima volta nella storia con la mia e ad entrambi era venuto da ridere mentre tagliavano la torta, per la gioia del fotografo che continuava a dire bravi, bravi, sorridete, bravi .
Lui ora la guarda con un certa faccia che lei conosce benissimo e la prende in braccio, sottolineando il gesto con un grugnito, mentre lei reagisce con una risatina. Quando entrano in casa lei allunga la mano a tastare il muro, e quando accende la luce entrambi rimangono per un attimo immobili, proprio come le statuine sulla torta, pensa lei. Lui la adagia a terra e lei si sistema una rosa bianca nei capelli.
Per prima cosa vedono il televisore, regalo degli zii di lei, ancora incartato nell’involucro di plastica, al centro esatto del pavimento del salotto; poi la credenza, con le tre ante aperte, piena di libri e videocassette, e sullo specchio il disegno, fatto forse con un rossetto, di quello che ha tutta l’aria di essere un grosso pene sorridente con un paio di occhiali da sole. La carta igienica è ovunque: pende dalle pale del ventilatore da soffitto, sbuca a brandelli dalla libreria, si infila sotto il tappeto, si accumula negli angoli. Lei entra in cucina. Sul tavolo quattro ombrelli aperti e un lenzuolo azzurro costituiscono una specie di tensostruttura sotto la quale sono stati sistemati tutti i piatti, i bicchieri e le tazzine da caffè. Nel frigo, aperto, si intravede il telefono.
Lui va in bagno, massaggiandosi i capelli radi sulla nuca. Nel lavandino sono state ammucchiate tutte le posate d’argento del servizio che sua nonna ha spedito da Verona. Il materasso matrimoniale, infilato nella doccia, ha assunto una forma un po’ flaccida, mentre nel bidet, pieno d’acqua e schiuma da barba, galleggiano mutande e calzini. Un reggiseno color carne pende dalla lampadina dello specchio.
Lei lo chiama dal salotto ma lui non risponde, quindi, con un sospiro di sollievo, si toglie le scarpe ed entra in camera da letto in punta di piedi, stando ben attenta a non inciampare. La carta igienica, qui, crea una trama complicata che coinvolge letto, armadio, lampadario e finestra. Ne strappa alcuni pezzi e li lascia cadere a terra.
Si siede sulla rete del letto, che emette un cigolio, e sorride.
Suo marito appare sulla soglia.
- È stato quell’idiota – dice.
- Chi?
- Il fidanzato di Eva, come si chiama?
- Marco.
- Sì, Marco.
Si siede.
- Da solo? – dice lei.
- No, infatti. C’erano anche i tuoi amici. Quelli del gruppo del mare.
- Come fai a saperlo?
Le porge una foto.
- Era appiccicata alla tavoletta del cesso.
Nella foto si vedono due ragazzi e due ragazze davanti allo specchio dell’armadio della camera da letto in cui si trovano ora. Nel riflesso si scorge un ragazzo con i capelli a spazzola e una polaroid in mano. In basso, nello spazio bianco, la scritta Auguri!
Lei sorride.
- Ma ti sei innervosito? Anche noi l’abbiamo fatto al matrimonio di –
- Non è lo scherzo – la interrompe – è il fatto che sia stato proprio lui.
- E dai…
- Lo sai come la penso, te l’ho sempre detto.
Lei rimane un po’ in silenzio, spiegazzando la foto. Lui gliela strappa di mano.
- Non so come faccia Eva a stare con uno come lui. Davvero non lo so. Guardalo.
Lei si guarda nello specchio dell’armadio.
- È stata una bella giornata, eh? Sembrava che dovesse piovere…
- Sì – dice lui, poi si china a baciarle la punta del naso.
Lei inizia a ridere.
- Che c’è?
- Mio padre era… – dice lei – … era viola.
Lui sorride.
- Quando tuo padre si è messo a ballare sul tavolino con mia madre… Ma l’hai vista… – ora ride così forte che inizia a tossire – … l’hai vista la faccia di mio padre? Continuava a sistemarsi la cravatta, pensavo che si volesse impiccare
Lui le prende la mano.
- Ti amo – dice.
Lei smette di ridere e rimane con la bocca semiaperta, le guance rosse.
- Io no. Per niente – dice strizzando gli occhi.
- Ti amo anche se hai amici idioti – dice lui.
Lei si alza.
- Uffa! Ancora… Ma che sarà mai…
- Niente. Niente. Dobbiamo solo rimettere tutto in ordine, e io, non so te, ma io sono stanco morto.
Lei si inginocchia e gli appoggia la testa sulle cosce perché sa che a lui piace ed è una cosa che lo tranquillizza quando è nervoso.
- Metteremo in ordine domani.
- Va bene.
- Sei contento?
- Sì – dice, carezzandole la schiena. – Non vuoi togliertelo? Non ti stringeva?
- Lo tengo ancora un po’.
- Giusto.
- Erano quasi tutti ubriachi.
- Mi sembra un buon segno.
- Sono venuti tutti tutti tutti.
Lui si allenta il nodo della cravatta.
- Non ci avrei mai sperato – dice lei, sbadigliando.
- Stanotte sei riuscita a dormire?
- Per niente, tu?
- Io sì.
- Schifoso ghiro.
- Ero un po’ teso solo quando ti aspettavo sull’altare.
- Io invece quando sono entrata. Stavo cadendo. Lo sai che stavo cadendo?
- Eri bellissima.
Rimangono in silenzio per qualche secondo.
- Che casino. Domani mettiamo in ordine. Prima di andare all’aeroporto.
- Se abbiamo voglia.
- Ma te lo immagini quando torniamo da New York? Quanta voglia avremo? Meglio ora.
- Vedremo.
Gli prende il polso e passa un dito sul quadrante dell’orologio. C’è ancora la pellicola trasparente attaccata. Vorrebbe staccarla, ma sa che a lui piace tenerla finché non si stacca da sola.
- Te lo sei messo subito.
- Sì. Mi piace un sacco.
- Ti hanno fatto proprio un bel regalo.
- Sì.
- Nel senso che si devono essere sbancati.
- Eva mi ha detto che era un’occasione.
- Vi ho visti chiacchierare, dopo il dolce.
- Sì, era un po’ che non la vedevo.
- Sta bene.
- Sì, è ingrassata un po’, sta meglio. Mi ha detto che ha letto il romanzo.
- Le è piaciuto?
- Sì. Sembra di sì. Non avevo dubbi, modestamente.

Fuori passa un treno. Non ci sono ancora abituati, quindi istintivamente si voltano verso la finestra. Entrambi pensano che tutto sommato è un bel suono, anche se non se lo dicono.

- Senti – dice lei, sedendosi di nuovo vicino a lui – c’è una cosa che volevo chiederti.
- Dimmi.
Magari… – si ferma un attimo – … magari è una sciocchezza. Anzi, lasciamo perdere.
- No, no, dimmi.
- Davvero, è una sciocchezza che mi è venuta in mente a cena mentre parlavi con Eva, ma non ha senso che –
- Senti, dimmi e basta, per favore. Giudicherò io se è una sciocchezza o no.
- Va bene. Ma è proprio una cosa… Allora. È una cosa che mi ha detto Eva, un mese fa, credo, sì, era un mese fa, più o meno, eravamo insieme al centro commerciale, sai quello grande, quello nuovo… – lui annuisce.
- Insomma, io stavo cercando gli ultimi regali per i testimoni, mi sembra, e lei non aveva niente da fare, quindi mi stava accompagnando e non so come ma ad un certo punto ci mettiamo a parlare del liceo, forse perché… ah, sì, ecco, perché lei da un po’ di tempo aveva in testa di organizzare un ritrovo con in nostri vecchi compagni, non so se te l’avevo detto…
- No, non me l’avevi detto. Davvero una pessima idea.
- Infatti, è quello che ho detto anch’io. Di solito queste cose sono una tristezza… Comunque, sta di fatto che ci siamo messe a spettegolare su tutti quanti. Sai… Tommaso e Valentina, Nico e Francesca, ma lo sapevi che hanno avuto un figlio?
- No, non lo sapevo.
- L’anno scorso. Io però non l’ho visto. Pare sia bruttino. E poi Emiliano e Silvia, che non se ne sa più niente, e tutti gli altri. E ad un certo punto siamo finite a parlare della festa di Martinelli, quella alla fine dell’ultimo anno di scuola.
- Non mi far ricordare…
- Tu ed Eva eravate ancora fidanzati e io venni con quel tipo, Sergio, ti ricordi?
- Vagamente. Ricordo solo che gli puzzavano le ascelle da morire e che sparava cazzate a raffica. Ma come facevi a starci insieme?
- Non ci stavo insieme, era solo un po’ innamorato di me.
- Come mezza scuola…
- E dai, scemo…
- Di’ di no…
- Comunque…
- Nega l’evidenza…
- E dai…
- Nega.
- Va bene, va bene. Comunque. Quella sera alla festa eravamo ubriache tutte e due, e tra un cicchetto e l’altro Eva mi confessò che voi non ve la stavate passando tanto bene e che lei sospettava che tu fossi innamorato di me. Ma lo disse così, non era arrabbiata con me, anzi. Disse addirittura che forse io ero il tuo tipo più di quanto non lo fosse lei. E sembrava sincera.
- E aveva ragione.
- Poi però…
- Aveva ragione o no?
- Sì. Poi però mi disse un’altra cosa. Hai visto l’accendino?
- E dai. Non hai fumato tutto il giorno.
- Infatti. Questo è il premio.
- Tieni. Magari apri la finestra. E cerca di non dare fuoco a tutta questa carta.
- Va bene.
- Dicevi?
- Sì, ecco. Mi disse questa cosa. Mi disse: “Lo sai che ho trovato un suo diario?” e io: “Quale diario?” e lei: “Un diario su cui scrive un sacco di porcherie”.
- Ti ha detto così?
- Sì.
Lui fischia e si batte le mani sulle ginocchia.
- Che stronza.
- Ma non mi ha detto quali fossero le porcherie, stai tranquillo.
- Ma guarda questa stronza – dice lui, alzandosi di colpo. – Andava a frugare tra le mie cose, non ci posso credere.
- È quello che le dissi anch’io. Le chiesi perché fosse andata a frugare tra le tue cose, ma lei non mi rispose. Mi disse che non erano le porcherie la cosa importante, ma una certa pagina, verso la fine del diario.
- Una pagina? Ma perché non mi hai mai detto niente?
- Te lo sto dicendo ora.
- Una pagina, hai detto? Non mi ricordo…
- Sì. Con una lista.
- Una lista? Che lista?
- Il titolo era qualcosa tipo La donna perfetta. In pratica c’erano una ventina di nomi di ragazze e accanto ad ogni nome una caratteristica. Tipo, che ne so, Valeria: la creatività, Beatrice: l’empatia, Roberta: le tette, eccetera. Eva mi disse che, quando la lesse, pensò ad una specie di donna Frankenstein dei tuoi sogni.
- Forse inizio a ricordare – dice lui, e fa una smorfia.
- Ecco, il fatto è che tra quei nomi c’era anche quello di Eva.
- Ah, sì?
- Sì. E c’era anche il mio.
- Il tuo? E cosa c’era scritto?
- Come fai a non ricordarlo?
- Non me lo ricordo e basta. È passato un sacco di tempo. Ma perché non mi hai mai detto niente?
- Accanto a quello di Eva c’era scritto: i pompini.
- Ecco qua. Senti, non ho intenzione per nessun motivo di iniziare una discussione con te a proposito di –
- Non voglio parlare di questo. Voglio parlare di quello che c’era scritto accanto al mio di nome.
- Cosa c’era scritto?
- Non te lo ricordi proprio?
- No.
- Non è possibile. – dà un ultimo tiro alla sigaretta e la getta dalla finestra.
- Non puoi non ricordartelo, mi stai prendendo in giro.
- Ti giuro. È passato troppo tempo. Non ho idea di che fine abbia fatto quel diario, forse l’ho lasciato in uno scatolone in cantina a casa dei miei, uno di questi giorni mi metto a cercarlo.
- Sai, Eva alla festa non volle dirmi cosa c’era scritto accanto al mio nome, probabilmente le bastava comunicarmi quanto tu apprezzassi i suoi pompini. E a me non sembrò opportuno approfondire, dopo tutto eri il suo fidanzato. Ecco perché non ti ho mai detto niente. Solo che al supermercato, tra una cosa e l’altra, ha pensato bene di ricordarmi tutta la faccenda, così, senza che io le avessi chiesto niente. Mi ha detto: “Ti ricordi il diario?”, al che io ho fatto un po’ finta di niente e lei ha continuato: “Ma sì, dai, quel diario con la lista di Frankenstein. Te ne parlai alla festa di Martinelli. Ma te l’ho mai detto quello che c’era scritto accanto al tuo nome?”. Io le ho detto che non ero sicura di volerlo sapere, ma lei mi ha detto che era una cosa da niente, e che in un certo senso era giusto che lo sapessi, ora che ero io la tua fidanzata, e poi era divertente. Non era divertente saperlo, ora che stavo per sposarmi? Non era divertente?
Lui fa per parlare, poi ci ripensa. Fissa un punto indefinito sul pavimento, poi si schiarisce la voce.
Fuori passa un altro treno, più lento e più vicino.
- Cosa c’era scritto?
- C’era scritto: l’ironia. Ecco cosa c’era scritto.
Lui si massaggia la guancia e fa una specie di borbottio soffiando fuori l’aria, come sempre fa quando si rilassa. Poi mormora tra sé e sé:
- L’ironia, l’ironia…
- Non te lo ricordi?
- Vagamente, ma qual è il problema?
- Nessun problema. Voglio solo sapere cosa intendevi.
- In che senso?
- Voglio sapere cosa significa che io per te sono l’ironia.
- E dai…
- No, mi devi ascoltare. Voglio sapere perché io, della donna Frankenstein, dovrei essere proprio l’ironia, e non, che ne so, l’intelligenza, la dolcezza… O il culo, ecco, perché no. Il culo. Non hai sempre detto che ho un bel culo? Non lo pensavano tutti al liceo? Non mi chiamavano “culetto d’oro”? Non avevo il culo più bello di tutto il –
- Calmati per favore.
- Sono calma – ora è in piedi di fronte a lui.
- Voglio solo sapere perché l’ironia. Perché proprio quello.
- E dai, non ci conoscevamo neanche tanto bene…
- Ma un po’ sì. Eravamo stati in gita insieme a Como, con le due classi unite, non te lo ricordi? Non ti ricordi neanche questo? Non ti ricordi quella sera nel giardino dell’albergo, quando passeggiammo e parlammo fino a tardi e ci sedemmo vicino alla piscina e la tua prof di italiano si mise a urlare dalla finestra perché non ti trovava più? Non te lo ricordi?
- Certo che me lo ricordo. Se vuoi ti dico anche com’eri vestita.
- Dimmi una cosa, piuttosto: tu allora eri già innamorato di me? Perché io lo pensai quella sera, lo pensai davvero. Pensai: “Come vorrei che non fosse fidanzato con Eva, come vorrei che mi baciasse, qui, davanti alla sua professoressa, davanti a tutti” e poi mi sentii in colpa per averlo solo pensato, perché Eva era mia amica. Non ti ricordi niente?
- Ti ho già detto che me lo ricordo. Cosa vuoi sapere? Stai iniziando a stancarmi.
- Di già? Sei già stanco? La prima notte di nozze?
- Per favore, lo sai cosa intendo.
- Senti – dice lei. Ora anche lui è in piedi, vicino alla finestra. Da fuori arriva un venticello tiepido.
Lui si volta di scatto verso la porta.
- Hai sentito? Ho sentito un rumore.
- Voglio solo sapere perché proprio quello.
- Fammi dare un’occhiata, ho sentito un rumore in salotto.
- Aspetta. Dimmi perché proprio quello.
- Te l’ho detto, non ci conoscevamo così bene. Non come ora, almeno. Non stavamo neanche insieme.
- E ora, quindi, scriveresti qualcos’altro?
- Ora non scriverei niente.
- Ah, sì?
- Sì.
- E perché?
- Perché mi basti tu.
- Questa non te la passo. Farò finta di non aver sentito.
- Guarda che dico sul serio. Fai un attimo silenzio. Voglio sentire se –
- E se io e te non stessimo insieme? Se non stessimo insieme ma tu mi conoscessi quanto mi conosci ora, cosa scriveresti dopo il mio nome? Quale parola, esattamente?
- È una domanda troppo assurda. Non provo neanche a risponderti. Fammi andare un attimo di là. Forse è caduto qualcosa.
Lei si toglie la forcina che le fissa la rosa bianca ai capelli e si avvicina a lui. Lui fa qualche passo verso la porta e si ferma in ascolto.
- Perché hai scelto me?
Gli guarda gli occhi scuri e le labbra e la ruga sulla fronte. Pensa che quando si sono conosciuti non ce l’aveva quella ruga, e ora sì, e questa consapevolezza per qualche motivo le contrae lo stomaco.
- Perché hai scelto me?
- Perché ti amo.
- Eva la amavi?
- Penso di no.
Dal salotto arriva uno scricchiolio.
- E Beatrice l’empatica, Rita con le tette grosse, e Valeria l’artista, Gaia, Sara, Paola e tutte le altre? Ne avrai amata almeno una, prima di me, o no?
Lui rimane in silenzio e ascolta. Forse è il vento che fa strisciare le cose sul pavimento. Forse è la plastica del televisore che scricchiola. Forse sono caduti gli ombrelli in cucina. Avrebbero dovuto rimettere in ordine subito. Prima di partire per la luna di miele. Così una volta tornati…
- Perché hai scelto me?
- Ti prego…
Ancora uno scricchiolio, ma stavolta non ne è sicuro.
- Perché hai scelto me? Che parola sono? Quale, tra tutte? Sono ancora l’ironia? O sono diventata un’altra parola?
- Ti prego, non roviniamo tutto. È stata una bella giornata…
- Quale sono? Dimmi che parola sono.
- Ti prego.
- Dimmi una parola. Una sola parola. Che parola sono, tra tutte? Che parola sono?

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